Omelie

«Dinamiche ecclesiali, dinamiche esistenziali». Quattro omelie del padre abate Bernardo per quattro domeniche del Tempo Ordinario

Meditazioni

 

Domenica 24 settembre 2023 – XXV domenica del tempo ordinario (a)

 

Dal libro del profeta Isaìa
Cercate il Signore, mentre si fa trovare,
invocatelo, mentre è vicino.
L’empio abbandoni la sua via
e l’uomo iniquo i suoi pensieri;
ritorni al Signore che avrà misericordia di lui
e al nostro Dio che largamente perdona.
Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri,
le vostre vie non sono le mie vie. Oracolo del Signore.
Quanto il cielo sovrasta la terra,
tanto le mie vie sovrastano le vostre vie,
i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri.

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippési
Fratelli, Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia.
Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno.
Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere. Sono stretto infatti fra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo.
Comportatevi dunque in modo degno del vangelo di Cristo.

 

Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola:
«Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre, e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?”. Gli risposero: “Perché nessuno ci ha presi a giornata”. Ed egli disse loro: “Andate anche voi nella vigna”.
Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama i lavoratori e dai loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi”. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”.
Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”. Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi».

 

Omelia:

Fratelli e sorelle, dove consiste la bontà del padrone? Dove consiste la bontà del Signore? Dov’è che noi sperimentiamo l’irradiarsi del suo mistero di amore nella nostra esistenza?

Cosa la qualifica così da indurci a credere che essa non sia frutto del caso o obbligo fatale e dunque, in questa percezione, risvegliare la consapevolezza che essa, non spiegandosi da sola, la vita, esiga una origine, una sorgente, che sia interpretabile niente di meno che nella categoria del bene, addirittura dell’amore, così da riconoscere  in questa sorgente una esperienza anteriore di bontà.

Ecco, la nostra consapevolezza di fede, scaturisce dalla percezione, non scontata, non banale, che esige un continuo accordo dei nostri strumenti di percezione, in forza del quale accordo possiamo davvero sperare che la nostra vita sia frutto, esito, di una chiamata perché questo è il punto oggi fratelli e sorelle, oggi questo nostro cammino di qualificazione dell’ecclesialità che ci contraddistingue per il nostro essere qui, il Vangelo di Matteo, insistendo in questa linea di qualificazione della nostra consapevolezza ecclesiale, offre a tutti noi la possibilità di inscrivere la nostra risposta, la nostra adesione, la nostra affermazione ecclesiale per cui siamo qui, immersi nella liturgia, nell’ecclesia, cioè nell’assemblea convocata dal grido, dall’urgenza del Signore e noi rispondendo, ci lasciamo immergere nel mistero liturgico e questa esperienza concreta, performativa che stiamo vivendo adesso, si lascia inscrivere in una interpretazione che vede tutta la nostra vita esito del grido, della parola, della convocazione in forza della quale il Padre quasi strappa dal nulla la nostra esistenza dandole la possibilità di pensarsi, e di pensarsi come risposta a questa chiamata, le due cose, fratelli e sorelle, non semplicemente cogito ergo sum, cioè questa concentrazione sul soggetto pensante che la modernità elabora per dare pienezza di statuto alla nostra inquietudine gnoseologica, alla nostra fame, consapevolezza, merito, istanza di conoscenza, ma per noi ancora più essenziale -è questa la peculiarità della fede- è cogitor ergo sum: sono pensato e dunque sono, è un passaggio questo fratelli e sorelle a prima vista costringente in una presunta pre modernità perché dà statuto ad altro che non posso pretendere di conoscere come conosco il mio soggetto e non mi dà la stessa possibilità di pensarlo e conoscerlo come le cose con cui entro in contatto.

Questo salto di qualità in realtà presuppone riconoscere uno statuto di conoscenza che dia piena cittadinanza a qualcosa che forse interessa meno le scienze della nostra modernità ma che, soprattutto nella solitudine della notte, nel travaglio del dolore, nell’insufficienza del nostro cuore, assume tutta una portata di grandissima rilevanza in ordine ad una più profonda consapevolezza del nostro esserci, questa fame e sete di amore, di significato, di dinamismo per la nostra fragile esistenza, così che essa per vincere la tentazione di sentirsi accidentalità, riscopre nella parola del Dio che ci chiama ad agire, una inedita configurazione che se da un lato smonta il nostro attivismo, il nostro soggettivismo, dall’altro restituisce tutto di noi a quella pienezza di significato sinfonico con quell’origine amorosa, Lui ci dà la nota, Lui ci dà l’accordo, Lui suona la melodia portante, quella possibilità sinfonica data e accordata ai nostri talenti di rispondere a quella melodia perché tutto di noi diventi quello che è la situazione nella quale immette la bontà del padrone vedendo intorno a sé, lungo l’arco del tempo e della storia gente immersa nella inazione, gente disoccupata, gente che brucia il tempo senza senso, senza perché, senza fine, è qui che si staglia fratelli e sorelle anzitutto la qualificazione davvero buona di questo padrone che in realtà noi sappiamo benissimo essere il Padre che inaugura attraverso Gesù un Regno in cui il dato della condivisione d’amore noi lo riconosciamo, non nel superamento ozioso del travaglio della storia come le grandi mitologie classiche propongono alla nostra fame e sete di un protagonismo eroico che si dissolve nella totale configurazione della nostra vita alla grande pace olimpica. Non è questo fratelli e sorelle.

Scandalosamente la rivelazione biblica invece ci fa, capire che come ci illustra il Vangelo di Giovanni, che in bocca a Gesù: “Io e il Padre lavoriamo sempre” – questa è la bellezza sconcertante della visione del mistero divino attraverso l’angolatura del Signore Gesù, nessuna pace olimpica, nessuna atarassia, nessun mito dentro e attraverso il quale evadere dal travaglio della storia, ma noi in realtà ci sentiamo fratelli e sorelle pienamente coinvolti nel mistero amoroso di Dio perché sentiamo di poter condividere con Lui e col Figlio, nel suo Regno, una sollecitazione laboriosa, inquieta, febbrile, insonne, che segnala fratelli e sorelle, come questo nostro campo d’azione è il campo dove si risolve per così dire, si scarica, l’energia amorosa del Padre chiedendo a ciascuno di noi di aderire a tale sollecitazione, rispondendo a quella parola che invita all’agire.

Io vorrei che coglieste fratelli e sorelle in questa prospettiva qualcosa che in realtà è molto più moderna se davvero dobbiamo impiegare queste categorie del soggettivismo cartesiano perché segnala che è esattamente in questo campo increspato del magnetismo d’amore febbrile del Padre e del Figlio che si gioca la possibilità di dare una interpretazione alta, altissima, della nostra vita che nello stesso tempo, questo è il guadagno prezioso, nulla sacrifica del nostro soggetto, della nostra libertà, della nostra volontà, dei nostri talenti, per dirla col linguaggio propriamente evangelico, ma nello stesso tempo ci risparmia dalla pretesa tanto seducente quanto fallace di una autonomia che attraverso cerchi concentrici riporti questa pulsione trasformante della realtà, una volta che si è esaurita di nuovo, all’uomo e alla donna come unico soggetto della storia.

E invece no fratelli e sorelle. Noi siamo qui, siamo immersi nella liturgia per fare questa esperienza che in realtà assume per noi la portata di una cifra interpretativa di tutta l’esistenza, il Padre ci chiama, noi rispondiamo per entrare a contatto, è stato chiarissimo Isaia: Cercate il Signore mentre si fa trovare, invocatelo mentre è vicino” e la liturgia è questa esperienza qui, per questo per noi è irrinunciabile, non mi stanco di dirvelo, è irrinunciabile il ritmo domenicale della liturgia con o senza “Corri la vita” con tutto il rispetto per Corri la vita.

Per noi è essenziale risottoporre, fratelli e sorelle, a questa accordatura teologale la nostra fame e sete di insonnia febbrile e operativa perché il mondo, la storia, sono stati affidati a noi dall’amore del Padre, non c’è nessun altro che la possa trasformare questa storia se non noi, agendo come possiamo, con le risorse, i talenti, le lungimiranze e purtroppo anche gli egoismi, le chiusure, le idolatrie, l’invidia di cui parla oggi il Vangelo e cioè il non vedere, il non vedere.

Attraverso le mille e mille determinazioni che gli spazi naturali, storici offrono come opportunità, come benedizione, talvolta ahimè come maledizione, io penso a come possono vivere in questi giorni i nostri fratelli e le nostre sorelle, i nostri amici e amiche della cittadinanza dei Campi Flegrei i quali stanno facendo questa esperienza sostanzialmente costante della fragilità di quelle strutture che la nostra modernità avrebbe preteso di poter controllare, dominare, parametrare, protocollare una volta per sempre e tuttavia sono assolutamente certo di come l’abbandono alla vita stessa, possibilmente colta nella sua capacità di lasciarsi a sua volta inscrivere in qualcosa di più grande, possa donare loro -preghiamo il Signore per questo- un senso inesauribile di fiducia e di speranza che più del male possa la forza stessa della vita, il suo essere obbedienza alla propulsione febbrile, non solo del fuoco sotto la terra, ma soprattutto del fuoco che viene dal cielo, dall’amore di Dio, dal Padre che non ci inganna, non ci seduce, non ci tradisce, che ci chiama per una esistenza bella, buona, operosa, creativa, un Dio dell’alleanza, dell’amore, della luce, della bellezza, di questo noi dobbiamo essere interpreti e profeti pur nello scacchiere così difficile della storia del nostro presente.

Ma per crescere in questa consapevolezza di quanta fede abbiamo bisogno, di quanta speranza, di quanto amore, di quanta prossimità alla prossimità di Dio, che sperimentiamo con forza e foga proprio nelle grandi sintassi della grande grammatica della liturgia eucaristica dove i vostri corpi, i nostri corpi, diventano, come ci ha detto molto chiaramente Paolo, il luogo della glorificazione di Cristo, il luogo della glorificazione di Cristo attraverso il dono della parola, attraverso l’Eucaristia.

Vorrei che fosse chiaro fratelli e sorelle, che uscendo da questa Basilica, voi siete la gloria del Signore Gesù, voi, i vostri corpi, saturi della parola ascoltata, saturi del nutrimento eucaristico del corpo e sangue di Cristo, “fiale viventi” dice Nicola Cabasilas, del mistero ardente dell’amore trinitario. Se noi perdiamo di vista questa consapevolezza e come al solito facciamo scadere questo momento di assoluto nell’arco della nostra settimana e ci accontentiamo di fare di questi Vangeli una scuola di morale, peraltro impossibile come per il Vangelo di oggi, ecco che perdiamo di vista questo sussulto di fuoco, di amore, di vita, di passione che restituisce a tutti noi la consapevolezza che sì, colmi di tanti talenti, di tante opportunità tecnologiche, il grande mistero dell’esistenza non si piega e non si determina dal primato della quantità, ma da questa speranza eccedente di una qualità, fratelli e sorelle, che si fa strada e si fa storia nella nostra vita attraverso l’amore, e l’amore si manifesta, come ci insegna il mistero pasquale non nel trattenersi, ma nel donarsi senza perché, senza misura, “alleluiare”, per evocare i versi di Mariangela Gualtieri, questo sangue traboccante del Signore Gesù il cui rivolo di grazia e di luce giunge a questo altare duemila anni dopo, se così posso aiutarvi a comprendere, in una prospettiva che naturalmente è irriducibile alle griglie invidiose del merito acquisito attraverso qualche ora prima, invidia che Matteo deve rintuzzare perché come già vi ho spiegato il suo Vangelo nasce da questo problema antico e nuovo: dove sta la novità di Cristo che possa radicare l’antica comunità di Israele nella consapevolezza della permanente validità dell’antica alleanza ma nello stesso tempo lasciarsi scuotere dall’inimmaginabile “i miei pensieri non sono i vostri pensieri” che è l’incarnazione del Figlio, dove sta l’eccedenza che salda tradizione e novità. Questo è il problema di Matteo fondamentalmente  ed è un problema attualissimo perché la nostra comunità ecclesiale forte, fortissima e doverosamente radicata nella tradizione, non può pensare di chiudersi nella soddisfazione di una obbligatorietà normativa che nel nome dell’esteriorità ci lasci immaginare di essere a posto con la nostra coscienza e con i nostri meriti. No.

Non basta questo, c’è un pungolo incessante fratelli e sorelle, di fronte al quale possiamo e dobbiamo riconoscere il primato del mistero della libertà dell’amore di Dio, questo è un punto essenziale, il primato del mistero e della libertà dell’assoluto di Dio che ci dona la grazia di una capacità emorragica di amore, direi proprio emorragica , senza misura, senza quantità per dare davvero il segno, l’intonazione l’accordatura pasquale a questa nostra storia che si ripiega su di sé forte dei calcoli, delle sue certezze, delle sue statistiche -perdonami Placido, lui è laureato e docente- capite fratelli e sorelle questo salto di qualità che si suggella su questa affermazione sconvolgente che è direi la miccia accesa in questa parola di Dio per far saltare in aria qualsiasi pretesa di addomesticare questa parola per finalità di una generica equità in cui sia il Signore ad abbassarsi, perché quando San Paolo ci dice che “Cristo sarà glorificato nel mio corpo sia che io viva sia che io muoia e per me il vivere è Cristo e il morire è un guadagno” ci sta veramente dicendo che la adesione a questo sussulto pasquale che la grazia ci fa pervenire, ecco che ribalta  nostri criteri di appartenenza, di sopravvivenza, le gerarchie, con le quale inchiodiamo la nostra fragile vita alla vita stessa fratelli e sorelle, alla vita stessa, capite l’errore?

Quando invece noi abbiamo la grazia, la possibilità in forza della fede, di ancorare la vita al mistero pasquale del Signore Gesù dove la morte è il guadagno in questa prospettiva di amore, di donazione, di gratuità, di non calcolo, di eccedenza.

Certo che i passaggi sono sconvolgenti, non pensate che io non abbia paura della morte, non pensiate che io non sia attaccato alla vita, non pensiate che una delle ragioni della mia insonnia è l’amore per loro, la loro salute, il loro bene, ma nello stesso tempo non possiamo non renderci conto di questa eccedenza che essendo origine della vita, supera la vita stessa e questa origine è il fuoco, la luce, la verità, l’amore e la bellezza di questo non-padrone ma Padre che col Figlio va in cerca di uomini e donne che come voi sanno fermarsi per imparare ad agire in accordo con la sua insonne volontà di salvezza per il mondo intero. Amen.

 

Domenica 1 ottobre 2023 – XXVI domenica del tempo ordinario (a)

 

Dal libro del profeta Ezechièle
Così dice il Signore:
«Voi dite: “Non è retto il modo di agire del Signore”. Ascolta dunque, casa d’Israele: Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra?
Se il giusto si allontana dalla giustizia e commette il male e a causa di questo muore, egli muore appunto per il male che ha commesso.
E se il malvagio si converte dalla sua malvagità che ha commesso e compie ciò che è retto e giusto, egli fa vivere se stesso. Ha riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse: egli certo vivrà e non morirà».

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippési
Fratelli, se c’è qualche consolazione in Cristo, se c’è qualche conforto, frutto della carità, se c’è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi.
Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri.
Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù:
egli, pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio
l’essere come Dio,
ma svuotò se stesso
assumendo una condizione di servo,
diventando simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.
Per questo Dio lo esaltò
e gli donò il nome
che è al di sopra di ogni nome,
perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra,
e ogni lingua proclami:
«Gesù Cristo è Signore!»,
a gloria di Dio Padre.

 

Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo».
E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli».

 

Omelia:

Cari fratelli e sorelle, ci viene offerto un assunto da questa pagina di Vangelo, un assunto che vogliamo assimilare in un tempo di crisi di relazioni, di fiducia e quindi ancor di più in un tempo di crisi di fede, perché oggi il signore Gesù mette in stretta correlazione pentimento e fede, esperienza con la quale la nostra libertà è illuminata dallo Spirito per acquisire la coscienza della sua fragilità, della sua discontinuità nell’accogliere, nel recepire, nel vivere e testimoniare il bene, il bello, il buono cogliendo nel bene nel buono e nel bello non solo e non tanto un’affermazione di noi stessi, delle nostre capacità, del nostro virtuosismo, ma al contrario una illuminazione che arrivando dall’alto dispone tutto di noi alla consapevolezza che senza questa luce che scende dall’alto, ben difficilmente questa nostra libertà potrebbe avere la forza, la determinazione di una perseveranza nel bene che la apre a quella consapevolezza per noi essenziale, essenziale anche in questa stagione liturgica, vorrei dire, così che attraverso l’ascolto domenicale del Vangelo di Matteo, domenica dopo domenica, ci offra la possibilità di una crescita di qualità nella nostra consapevolezza ecclesiale, nella nostra dunque consapevolezza esistenziale.

Per noi fratelli e sorelle sia chiara l’equivalenza fra consapevolezza esistenziale e consapevolezza ecclesiale, tutto di noi è inscritto nel dinamismo ecclesiale perché tutto di noi è inscritto, anzi di più, esistenzialmente innestato nella vita organica della Chiesa che è la vita stessa del Cristo che attraverso il Battesimo ci rende partecipi della sua esistenza organica rendendoci membra del suo corpo che ha Lui per capo, come non mi stanco di sottolineare, Qualche genitore se lo è sentito dire con forza durante la lieta celebrazione del Battesimo dei propri figli che è stato esattamente il gesto battesimale, il sacramento battesimale, a renderci partecipi per sempre di questa dimensione viva, vitale, per noi irrinunciabile in cui tutto di noi è esposto ad una coscienza profondissima di una verità che non è soltanto e non può essere soltanto l’esito e l’acquisizione di un nostro sforzo intellettuale, l’antica nobilissima idea greca che il bene è frutto della conoscenza, una prospettiva altissima sulla quale si misura, si direbbe, il martirio di Socrate.

Ma per noi questo non basta fratelli e sorelle, non basta perché per noi l’esperienza del bene, del bello, del buono, l’esperienza della verità connessa ad un agire davvero virtuoso è un’esperienza soprattutto rivelativa, questo è il punto, rivelativa del mistero inscritto nel nostro cuore, nella nostra coscienza, nella nostra stessa vita organica, questo è un punto essenziale, una vita organica che rende qualsiasi persona, qualsiasi persona, vorrei dire con chiarezza non offensiva, più o meno intellettualmente dotata, financo ad arrivare a casi estremi di disabilità, qualsiasi persona è immagine e somiglianza di Dio, ricettore di questa esperienza di una sapienza che per il suo tratto di illuminazione, di misericordia, di grazia e di gratuità interloquisce con il nostro puro esserci, così come siamo, nella misura in cui però questo nostro puro esserci esce dalla presunzione dell’autosufficienza e si dispone a questa dimensione per noi essenziale della relazione, con i suoi tempi, i tempi propri di una vera relazione cui oggi il Vangelo non assegna un punteggio di merito alla immediatezza quasi meccanica che farebbe pensare che una relazione tanto più fruttuosa nell’esecuzione tanto più sia migliore.

Non è così, lo avete ascoltato, dice sì ma non fa, non è un meccanismo, è una relazione che il Signore offre a questa nostra disponibilità, semmai alla possibilità di essere raggiunti dallo Spirito che fermenta dentro di noi, disgregando le strutture della nostra autosufficienza istintiva e dunque indisponibile a riconoscere questo limite che noi stiamo dipendendo già nella nostra vita organica da scelte che ci precedono, capite la portata rivelativa da tutti i punti di vista, direi fisiologico, psicologico e pneumatologico?

Ed è quando finalmente balena nel nostro cuore la luce, la consapevolezza di questo dipendere dal mio cuore, che si inaugura un fermento propiziato dallo Spirito che riconosce, proprio mediante la grazia della fede, come la parola che mi invita alla vita è la stessa parola che mi ha generato e la parola che qualifica l’invito alla vita nel segno della laboriosità, della responsabilità, in una parola simbolica, il lavoro stesso nella vigna, l’invito cioè a metterci in gioco nel campo esistenziale della nostra vita, è la stessa parola dell’amore che ci ha chiamato ad essere, ad esserci, e dunque ad entrare in questa relazione qualificante che questa prospettiva di chiamata amorosa, fratelli e sorelle, direi inevitabilmente è una chiamata che dispone a fare in modo che questo spessore istintivo di autoreferenzialità si lasci sempre di più disgregare, a tutto favore di un dinamismo proprio della nostra verità relazionale, illuminata dallo Spirito Santo in modo tutto speciale in questo laboratorio per noi di verità integrale che è l’ecclesialità.

Capite no queste connessioni che io sottolineo rozzamente ma appassionatamente perché io penso vi aiutino a comprendere la bontà, la sapienza, la giustezza dell’umiltà con la quale, riconoscendovi affamati e assetati di verità, anteponete al vostro pranzo domenicale questa celebrazione eucaristica, questa mensa della parola e della vita divina del Signore Gesù che scorre attraverso l’Eucaristia, scorrerà nelle vostre e nostre fibre.

Cioè la consapevolezza appunto di una connessione ecclesiale ed esistenziale per cui nell’invito per noi sconcertante, pieni come siamo di libertà soggettive che ci avrebbe insegnato il romanticismo, l’amore nella prospettiva di questa verità non può non essere comandato, cioè avvertite nel nostro cuore che molto più autentico, molto più salutare, molto più giusto, molto più vero, molto più fruttuoso sarà, anziché andare in cerca del capro espiatorio accusando cioè Dio del male e non meno frequentemente gli altri del male subito o addirittura fatto, in questo processo di scagionamento della nostra istintività autoreferenziale, sarà l’accogliere, l’ascoltare, il ricevere, il non disperdere l’amore ricevuto perché attraverso questa nostra dimensione di obbedienza lo possiamo testimoniare, consegnare, comunicare agli altri.

È quello che ha fatto anzitutto il Battista con la sua profezia ruvida, scomoda, tutta incarnata in una persona che si è lasciata direi abbrustolire dal deserto, mortificare dalla parola stessa, in Giovanni si direbbe che questa indole di svuotamento del Signore Gesù che Paolo ha restituito alla nostra mirabile consapevolezza di fede, quando si abbandona integralmente alla luce che promana dalla vicenda dell’abbassamento del Signore Gesù, questo abbassamento in Giovanni è tutto concentrato –penso a tante raffigurazioni dell’iconografia artistica- in un corpo striminzito, provato, in una parola severa, esigente, davvero scomoda e d’altra parte questo Giovanni il Battista brilla di una possibilità che è stata accolta da quegli scartati, da quei disgraziati, da quei reietti che hanno visto in qualcuno che si è fatto anche fisicamente a loro solidale nelle piste del deserto, la possibilità che anche nella loro vita striminzita si degnasse di brillare una parola che cercavano e cercano. Quella loro prova, quel loro limite, quella loro esclusione e sono quei pubblicani, quelle prostitute che il Signore Gesù indica come l’esempio di una conversione connessa all’esperienza della fede perché questo è il punto fratelli e sorelle, non esiste conversione che scaturisca da uno sforzo esclusivamente morale della persona, almeno nella prospettiva biblica la conversione è risposta all’iniziativa amorosa, misericordiosa del Padre che restituisce a tutti noi la consapevolezza umile e gloriosa di essere persone vive perché chiamate dal suo amore, questo è il punto, chiamate dal suo amore.

Ed è la grande testimonianza di cui pare questo mondo oggi abbia bisogno perché è un mondo di solitudine, perché pensa l’uomo e la donna foderati in una autoreferenzialità per cui si crede che l’uomo e la donna bastino a loro stessi e la ragione del loro essere vivi si dimostri in sé nella stessa vita quando per noi fratelli e sorelle, la consapevolezza del limite ci illumina circa l’anteriorità e la posteriorità di un amore che interpretiamo come tale perché educati dall’ecclesialità di cui stiamo parlando a decifrare la vita come amore, nonostante le grandi pene che spesso alcuni di voi sono misteriosamente chiamati a vivere, ad attraversare, a trasfigurare con le energie dello Spirito ma anche la possibilità che voi vivete, molti di voi vivono di riconoscere nell’aria depressiva della sofferenza in cui sprofondano, la solidarietà esistenziale, non morale, esistenziale, ontologica, del Dio di Gesù Cristo che nel Signore Gesù, come avete ascoltato, pur essendo come…., assume tutta la dimensione servizievole dell’amore che accompagna la nostra umanità nel suo abisso, nella sua fragilità, nella sua vulnerabilità.

È il grande mistero della croce fratelli e sorelle che si lascia illuminare dalla dimensione ricettiva dell’amore del Padre che è l’obbedienza, obaudire, ascoltare, e Gesù sprofonda in questo abisso per portare il bagliore di quella luce, di quell’amore, di quella vita eterna.

Allora tutta la nostra vicenda esistenziale è esposta esattamente a questa dialettica che è una dialettica tutta in Cristo, tutta in Cristo, cui le nostre capacità le nostre risorse, quando abbiamo la grazia di trovarle nel nostro cuore, le dobbiamo trovare perché il Signore è buono, ce l’ha donata l’intelligenza, la buona volontà sia chiaro, ma tutte queste nostre strumentazioni si inscrivono nella libera gratuita iniziativa dell’amore del Padre che in Cristo Gesù ci dona questa possibilità, di essere con Lui nell’abisso delle nostre fragilità financo della morte e nello stesso tempo, attratti dall’energia della risurrezione, la forza dello Spirito, il dinamismo della conversione che come voi ormai capite benissimo non è semplicemente un aggiustamento psicodinamico, come troppe volte facciamo scadere queste pagine pregne di una vita integrale che parlano anche, lo dico di nuovo con forza, alla persona completamente disabile, incapace di intellezione dove tuttavia in questa logica di gratuità d’amore non brilla meno la sapienza dell’amore del Padre in Cristo Gesù, nella disgregazione totale dell’umano.

Penso alla morte di qualcuno dei vostri figli e figlie, dove cioè si è visto quel fallimento che pone immediatamente nei meccanismi mondani dei nostri processi psicologici e psicosociali, a domandarsi: l’ho fatto male questo figlio, cosa mai ho fatto di colpa  per meritarmi questo, perché Dio mi ha messo così nel male e via di seguito fratelli e sorelle, in un processo che inevitabilmente offre una sorta di giustificazione che allontana il nostro cuore all’esposizione umile liberante di un amore che invece si dona senza riserve, esattamente per tirarci fuori da questi meccanismi.

Qui è la gioia pasquale, qui è la libertà pasquale, qui soprattutto è la speranza pasquale.

Noi che spesso diciamo di sì al Padre ma poi, io per lo meno, io Bernardo non faccio, bene lo sanno i miei fratelli e nello stesso tempo però la grazia di sperimentare quante volte dopo un no iniziale, dentro lavori come fermento di grazia questo Signore Gesù che si degna di scivolare nelle tenebre del mio cuore, senza ovviamente contaminarsi, ma col suo Spirito illuminare di quanta verità, quanta completezza, quanto riscatto ci sia nella verità per cui facendo il male ci facciamo del male, fratelli e sorelle.

Facendo il male ci facciamo del male.

E accogliendo il bene noi ci facciamo in Cristo Gesù, del bene.

Che questa buona notizia di riscatto e redenzione sia la scossa pasquale in grado di lasciarci affrontare questa nuova settimana che oggi inizia con tutto il nutrimento spirituale, per restituire a noi la consapevolezza che Papa Benedetto ricordava al termine di una udienza del mercoledì tutta centrata sul tema del male come rottura delle relazioni e la conseguente maledizione della vita umana, come tante persone oggi sembrano non poter non fare.

No, la vita è bella e la condizione umana è una dignità irrinunciabile che chiede questa adesione libera, gratuita, disinteressata e appassionata con cui metterci tutti insieme al lavoro nella vigna. Amen

 

Domenica 8 ottobre 2023 – XXVII Domenica del tempo ordinario (a)

 

Dal libro del profeta Isaìa
Voglio cantare per il mio diletto
il mio cantico d’amore per la sua vigna.
Il mio diletto possedeva una vigna
sopra un fertile colle.
Egli l’aveva dissodata e sgombrata dai sassi
e vi aveva piantato viti pregiate;
in mezzo vi aveva costruito una torre
e scavato anche un tino.
Egli aspettò che producesse uva;
essa produsse, invece, acini acerbi.
E ora, abitanti di Gerusalemme
e uomini di Giuda,
siate voi giudici fra me e la mia vigna.
Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna
che io non abbia fatto?
Perché, mentre attendevo che producesse uva,
essa ha prodotto acini acerbi?
Ora voglio farvi conoscere
ciò che sto per fare alla mia vigna:
toglierò la sua siepe
e si trasformerà in pascolo;
demolirò il suo muro di cinta
e verrà calpestata.
La renderò un deserto,
non sarà potata né vangata
e vi cresceranno rovi e pruni;
alle nubi comanderò di non mandarvi la pioggia.
Ebbene, la vigna del Signore degli eserciti
è la casa d’Israele;
gli abitanti di Giuda
sono la sua piantagione preferita.
Egli si aspettava giustizia
ed ecco spargimento di sangue,
attendeva rettitudine
ed ecco grida di oppressi.

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippési
Fratelli, non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti.
E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e le vostre menti in Cristo Gesù.
In conclusione, fratelli, quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode, questo sia oggetto dei vostri pensieri.
Le cose che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, mettetele in pratica. E il Dio della pace sarà con voi!

 

Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo:
«Ascoltate un’altra parabola: c’era un uomo, che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano.
Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo.
Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”. Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: “Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!”. Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero.
Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?».
Gli risposero: «Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo».
E Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture:
“La pietra che i costruttori hanno scartato
è diventata la pietra d’angolo;
questo è stato fatto dal Signore
ed è una meraviglia ai nostri occhi”?
Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti».

 

Omelia

Cari fratelli e sorelle forse mai come oggi possiamo intuire che il Regno di Dio è questo spessore dinamico, invisibile ma reale che si situa raccordando la nostra consapevolezza ecclesiale alla nostra consapevolezza esistenziale.

Credo che questo sia l’estremo lascito che queste pagine, peraltro molto esigenti, del Vangelo di Matteo consegnano all’intelligenza della nostra fede, in questo estremo scorcio di anno liturgico, nell’approssimarsi ormai imminente della stagione dell’Avvento, anche se il calore di questa stagione parrebbe smentire che in fondo ci prepariamo davvero al capodanno della liturgia della Chiesa.

Ma a noi interessa oggi questo interstizio dinamico e costitutivo di una consapevolezza diversa del nostro vivere, del nostro esserci, nella misura in cui cessiamo di scindere una dimensione possibilmente, direi inevitabilmente, pensosa della nostra coscienza esistenziale, messa peraltro così duramente alla prova dall’affastellarsi di notizie che dallo scacchiere della realtà internazionale fino alle ripercussioni più intime e dolorose del nostro cuore, sembrano sottolineare e rimarcare la plausibilità, lo dicevamo all’inizio, di questa tentazione con cui pensare la nostra esistenza esito contingente di una casualità che sembra essere l’unica chiave di lettura possibile  della nostra vicenda umana, storica, temporale, una coscienza dunque esistenziale che sarebbe portata a credere la vita fondamentalmente una passione inutile e d’altro canto, sempre in forza di questa scissione, di questa divaricazione, l’altro versante, quello della nostra coscienza ecclesiale che si limita di fatto ad una sorta di pratica molto limitata nel tempo e nello spazio, generalmente, se va bene, alla nostra vita liturgica della domenica, confinata a qualche momento piuttosto contingente di devozione intima e personale, finestre tutte queste importanti o addirittura fondamentali, come lo è l’Eucaristia domenicale ma, incapaci di fornirci quasi un panorama interpretativo della nostra vita, colta nella sua interezza, nel suo originarsi, adempiersi, compiersi, inscritta la nostra vita personale in un orizzonte storico inevitabilmente ben più vasto del mio tratto biografico.

Ecco, a fronte di questa ambizione quella cioè di poter interpretare tutta la vita e tutta la storia con gli strumenti messi a disposizione dalla nostra vita ecclesiale, resta invece questa sorta di analfabetismo spirituale che ci rende impacciati, balbuzienti, nel non avere la parola che misuri l’incommensurabile della nostra vita e della nostra storia, scissi come siamo da un’analisi quasi disperata delle cronache di tutti i giorni e di quello che la nostra vita psicologica è quasi costretta a registrare nell’agenda sofferta del nostro cuore, con l’inchiostro delle nostre lacrime, talvolta anche del nostro sangue, dall’altra parte questa nostra vita spirituale confinata a pochi momenti, quasi dei massi erratici indisponibili a diventare il selciato di un percorso e di un sentiero che si offra, anche in salita, ma percorribile a questo nostro desiderio di libertà, di verità, di dignità, di amore, di speranza, di ricerca oltre il crinale del visibile.

Ecco fratelli e sorelle queste due dimensioni, stanno profondamente a cuore all’Evangelista Matteo che ha il compito nella sua comunità, in gran parte fatta di persone che provengono dalla grande tradizione giudaica, ma anche dall’oggettivo fallimento dell’attesa messianica che animava le speranze della comunità giudaica, il Messia è sconfitto sulla croce, e dunque su questo riscontro fallimentare Matteo sente fortissimo il bisogno di una rifondazione di una comunità che, pur sentendosi parte di un’alleanza antica, di una consapevolezza che la sapeva e la rendeva vigna prediletta dell’amore del Signore, può e deve riconoscersi raggiunta da un annuncio nuovo, pasquale, di verità, di liberazione, di guarigione, di speranza che però non passa attraverso le vie umane di quei riscontri, di quelle certezze, di quei risultati, di quelle affermazioni che si sperava con un trionfo tutto storico della vicenda profetica, regale, messianica del Signore Gesù, che invece resta sulla croce a dirci un’altra affermazione, quella a prima vista perdente, sconfitta ma proprio per questa ragione autenticamente affidabile, cioè la forza dell’amore, dell’amore che si dona, che depone la vita, che fa vuoto, che fa spazio, che segnala alla comunità nuova di Matteo che è possibile raccordare il fallimento della nostra esistenzialità, inevitabilmente vulnerabile e fragile, con l’annuncio di un amore che innerva dal di dentro questa comunità ecclesiale, nuova, che non potrà certo inscriversi nell’albo dei trionfi dell’antico Israele liberato dall’Egitto, ma che tuttavia ha dalla sua la consapevolezza di avere a disposizione per la sua crescita, per il suo fermentare, per il suo fruttificare, il fermento buono che è questo corpo spremuto d’amore che è il Signore Gesù, il Figlio dato come erede a quella comunità che, riconoscendolo come l’estremo gesto di amore senza riserve del Padre, non può avere motivo di non sentirsi coinvolta in questo dinamismo di amore, senza risparmio, senza misura, un amore ad oltranza, intercettato il quale fratelli e sorelle, la risposta di quella comunità matteana, alla luce anche dei suoi tormenti esistenziali, non dovrà essere troppo diversa dalla risposta che anche noi possiamo e dobbiamo dare, nonostante il sangue, il fuoco, la distruzione che abbiamo visto ieri proprio nella vigna storica della rivelazione dell’amore di Dio, in Israele, in Palestina, e la nostra risposta dovrà essere fratelli e sorelle, manco a dirlo, il saper essere tramite di questo amore, mediante il grande segno che distingue la consapevolezza credente della nostra pur povera fede e che si riassume in quella affermazione chiarissima nel prologo di Giovanni, che non a caso si legge nella liturgia diurna del giorno del Natale: A coloro che lo hanno accolto, il Figlio, Egli, il Padre, ha dato il potere di diventare figli di Dio.

L’unica accezione positiva della parola potere che si incontra in tutto il Nuovo Testamento fratelli e sorelle, perché questo è il nostro potere vero, il nostro potere autentico, la dimensione si direbbe passiva e ricettiva di un amore consegnatoci attraverso il dono del Figlio, l’erede, a tutti noi perché sentendoci amati da una esperienza di qualificazione della nostra esistenza, un’esperienza di verità della nostra esistenza, si raccordi finalmente dentro di noi la coscienza di una esistenzialità inevitabilmente messa alla prova dalla storia ma nello stesso tempo la consapevolezza di una nostra ecclesialità che pur essa messa pure alla prova dalle vicende sofferte della nostra temporalità, sapendosi amata, custodita, prediletta dall’amore del Padre, saprà e dovrà essere vigna feconda colma di buoni frutti anche nei passaggi più difficili della storia, scoprendosi semmai quella pietra scartata da altri presuntuosi e proprio per questo scelta dall’amore misericordioso e paziente del Padre per diventare il segno paradossale di una novità che è la cifra, il sigillo della riconoscibilità del metodo che Dio ha nella storia che è un metodo in forza del quale Egli va incontro, quasi fosse attratto, da coloro che proprio perché si riconoscono falliti, feriti, mortificati dall’esistenza, hanno ancora l’ardire, il coraggio, l’umiltà, la lucidità di confessare una indigenza nella loro esistenzialità tale da reclamare il loro inserimento, il loro, il nostro inserimento in questo perimetro, in questo muro di cinta, in questa siepe, uso le immagini della parola per farvi intendere, dentro il quale tutti noi, proprio perché feriti, possiamo riconoscerci guariti, proprio perché affamati possiamo riconoscerci saziati, proprio perché assetati possiamo riconoscerci dissetati ed in questa consapevolezza fratelli e sorelle, avere la coscienza che no, non possiamo trascurare quella vigna, perché trascurando la vigna dell’ecclesialità trascureremmo la vigna della nostra esistenzialità.

Capite finalmente fratelli e sorelle, come queste due dimensioni debbano e possano raccordarsi pena fare della nostra vita in Cristo, della nostra fede, della nostra sapienza spirituale una sorta di accessorio contingente da usarsi in poche, disarticolate situazioni della nostra esistenza e non assumerlo invece come metodo, criterio, possibilità di decifrazione dell’esistenza tutta intera, fratelli e sorelle. Per questo la Bibbia usa sempre queste immagini che parlano fondamentalmente di una vita piena, abbondante, nella libertà sofferta ma autenticamente tale della storia quando se ne assume responsabilmente tutto quello che sta dentro e sui margini, l’immagine per l’appunto di una vigna quindi immagine di lavoro, di responsabilità, di investimento nel tempo, di fruttuosità, ma anche di gioia, di ebbrezza, di godimento fratelli e sorelle, noi siamo discepoli di un Maestro che trasforma l’acqua in vino! Non il contrario!

Eppure quante volte pur avendo motivo di rallegrarsi siamo i testimoni dell’acqua insapore piuttosto che dell’ebbrezza del vino e quante volte quando la storia è difficile anziché essere testimoni di ciò che diventa quel vino ovvero il sangue col quale Dio ci ama donandoci il Cristo, siamo testimoni della necessità di alienarci dalla domanda, ubriacandoci, alterandoci, mistificandoci, con tutte quelle compensazioni, saturazioni, idolatrie che segnalano questa nostra indisponibilità ad essere puntuali all’appuntamento con quella verità di amore che, raccogliendoci così come siamo, intende riversare tutto quello che Paolo esprime in questa dimensione che ancora una volta restituisce alle nostra inquietudini, angosce, che troppe volte trattiamo in modo esclusivamente chimico o psicologico, tutta quella grande forza, ebbrezza, liberazione dello Spirito, fratelli e sorelle.

Non angustiatevi per nulla, dice Paolo, ma in ogni circostanza fate presente a Dio le vostre richieste e la sua pace, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e le vostre menti in Cristo Gesù.

Che non sono fratelli e sorelle, indicazioni banali, di una consolazione a cuor leggere che Paolo scrive così, dall’attico del suo appartamento. No, lui scrive queste parole dalla prigionia, da viaggi impossibili, da naufragi scansati per un attimo e ci scrive cose densissime, segnalando appunto che nella misura in cui il dramma della nostra esistenzialità si lascia collocare entro i perimetri dell’ecclesialità, detto in altri termini la nostra appartenenza viva, organica e vitale alla persona risorta del Signore Gesù e al suo respiro che è lo Spirito che noi accogliamo qui, nella liturgia, con la parola e con il nutrimento del suo sangue e della sua carne, ecco che davvero il dono della sua pace scende dentro di noi, attraversando e rendendo fratelli e sorelle tutti noi capaci di sentire come il suo amore sorpassando ogni intelligenza, colloca la nostra vita, nel pensiero, nella vita, nella certezza e nell’amore del Signore Gesù.

Altra geografia non abbiamo fratelli e sorelle, potremo costruirci bunker, potremo ritenerci dispensati per chissà quale fortuita ragione dal male, dalla sofferenza, dalla guerra, dalle crisi ecologiche, sociologiche, ma in realtà quelle nostre autodifese sono solo e soltanto illusioni, mendaci, fallimentari e anche egoistiche, perché facciamo finta di non sapere che il benessere di noi pochi è a prezzo di moltitudini sulla faccia di questa terra, il Signore chiede fratelli e sorelle che ne abbiamo fatto di questo mondo, di questi beni, di queste ricchezze, Lui che ha piantato noi come vigna e noi che siamo soltanto acini insapori e inodori, indisponibili a diventare il vino dell’ebbrezza, della gioia e della comunione.

Fratelli e sorelle qui sta il dinamismo del Regno, la sua vera geografia dinamica, inclusiva, sempre in movimento e proprio per questo sempre capace di rompere, maledire, la nostra stasi tranquilla e inserirci nella forza di comunione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, dinamismo creativo, di autodonazione, di condivisione e di speranza di un domani che insieme all’amore del Padre possiamo costruire per diventare tutti insieme vigna buona al gusto e al palato di chi ha sete e fame di verità e giustizia. Amen.

 

Domenica 15 ottobre 2023 – XXVIII domenica del tempo ordinario (a)

 

Dal libro del profeta Isaìa
Preparerà il Signore degli eserciti
per tutti i popoli, su questo monte,
un banchetto di grasse vivande,
un banchetto di vini eccellenti,
di cibi succulenti, di vini raffinati.
Egli strapperà su questo monte
il velo che copriva la faccia di tutti i popoli
e la coltre distesa su tutte le nazioni.
Eliminerà la morte per sempre.
Il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto,
l’ignominia del suo popolo
farà scomparire da tutta la terra,
poiché il Signore ha parlato.
E si dirà in quel giorno: «Ecco il nostro Dio;
in lui abbiamo sperato perché ci salvasse.
Questi è il Signore in cui abbiamo sperato;
rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza,
poiché la mano del Signore si poserà su questo monte».

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippési
Fratelli, so vivere nella povertà come so vivere nell’abbondanza; sono allenato a tutto e per tutto, alla sazietà e alla fame, all’abbondanza e all’indigenza. Tutto posso in colui che mi dà la forza. Avete fatto bene tuttavia a prendere parte alle mie tribolazioni.
Il mio Dio, a sua volta, colmerà ogni vostro bisogno secondo la sua ricchezza con magnificenza, in Cristo Gesù.
Al Dio e Padre nostro sia gloria nei secoli dei secoli. Amen.

 

Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù, riprese a parlare con parabole [ai capi dei sacerdoti e ai farisei] e disse:
«Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire.
Mandò di nuovo altri servi con quest’ordine: Dite agli invitati: “Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!”. Ma quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città.
Poi disse ai suoi servi: “La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze”. Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali.
Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. Gli disse: “Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?”. Quello ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”.
Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».

 

 

 

Omelia:

 

Cari fratelli e sorelle, Paolo qualifica la nostra fede, la nostra speranza nella consapevolezza dura ad essere assimilati, nella fatica delle nostre esistenze “che il nostro Dio colmerà ogni nostro bisogno secondo la sua ricchezza con magnificenza in Cristo Gesù.”

Questa è la grande consapevolezza che Paolo offre all’intelligenza della nostra fede, la coscienza di questa struttura insuperabilmente indigente della nostra vita e sottolineiamo con forza questa consapevolezza che la dinamica liturgica apre al nostro cuore, restituendo a tutti voi la grazia e la lucidità che illustra e svela il vostro essere qui fratelli e sorelle, stamani.

Essere abitati dalla percezione di una indigenza insuperabile, fatta di fame e sete, di pace, di verità, di giustizia, di consolazione, di pienezza, di amore, di speranza.

Allora fratelli e sorelle abbiamo fatto bene a svestirci per essere bagnati nell’intimo del nostro cuore da quella aspersione di rugiada che il Signore, passando in mezzo a noi, ha restituito alle zolle riarse di questo nostro cuore esposto ad un’estate fuori stagione che sta bruciando le speranze di un raccolto abbondante, esponendoci semmai alla consapevolezza che senza la sua provvidenza questa nostra vita si fa ancora più fragile e il futuro dei nostri figli e dei nostri nipoti sembra ancora più esposto a un dispiegarsi e a un dissolversi.

Sono accenti cupi me ne rendo conto, ma d’altra parte il realismo del Vangelo obbliga a portare nel cuore del nostro incontro col Signore la verità della storia, senza sconti, senza trucchi, senza smalti, in un bilancio lucido di questi nostri giorni che si avvertono ancora una volta nell’esposizione della nostra umanità alla grande tentazione della vendetta, del fuoco, della violenza e obbliga ancora di più noi tutti ad avere la coscienza che in mezzo a quelle sparatorie, a quelle bombe, a quegli assalti, a quelle vendette, a quelle risoluzioni che, facendo parlare solo le armi indicano la sconfitta di ogni umanesimo, il nostro Dio continua a cercare degli invitati che rispondano alla sua parola e rispondano ad una parola così come voi avete risposto a questo invito fratelli  sorelle, perché ovviamente il linguaggio simbolico della liturgia coincide con il linguaggio simbolico della parola che è stata proclamata, questo è il banchetto nuziale, non altro, la sponsalità del Figlio che il Padre intende celebrare con dei commensali che abbiano la consapevolezza del dono sponsale del proprio Figlio all’umanità sposa è naturalmente questo anello di vita che ci scambiamo con Dio Padre come segno di una fedeltà, di una possibilità di reciprocità inaudita fratelli e sorelle: la nostra umanità così fragile così ostinata è invece chiamata ad essere sposa del Figlio in una complementarietà che solleva dalla polvere e dal niente questa nostra fragile alterità rispetto a Dio.

Ed ecco fratelli e sorelle che in questa liturgia abbiamo la provvidenziale esperienza di una ritrovata consapevolezza della dignità che per grazia il Padre dona a tutti noi, rivestendoci dell’abito nuziale. Per questo la premessa di una nudità esistenziale, premessa a che il gesto dell’aspersione dell’acqua vi trovasse così come siete, ci trovasse così come siamo.

Fondamentale fratelli e sorelle in questo tempo di povertà estetica ed etica  restituire alla liturgia tutto il suo potenziale simbolico, il suo essere linguaggio plenario e integrale con cui il Padre intende interloquire con la totalità della nostra consapevolezza umana, quindi vi prego questo sforzo di comprensione, di intellezione, di decifrazione delle ragioni per cui siamo qui, del metodo scelto dal Signore con cui rivelarsi a noi che siamo qui, e tutto questo fratelli e  sorelle non è per un beneficio egoistico, individualistico, che si fermi alla consapevolezza di essere noi gli eletti, come se col nostro singolare assenso si chiudesse la storia. No, non è così, la storia è in fieri, è un cantiere inesausto, è un travaglio che ci racconta di una gestazione di cieli nuovi e tempi nuovi, non generati una volta per tutte dall’amore fecondo del Padre; per questo sappiamo ancora una volta come Paolo di essere esposti a condividere nel profondo le tribolazioni di Gesù.

Un altro modo per dire come questo nostro Dio sia nella storia immerso nelle doglie di questa creazione che reclama dal fondo abissale della sua fragilità nuovi cieli e nuova terra fratelli e sorelle.

E noi siamo non solo i testimoni di questo dolore, ma rivestiti dell’abito nuziale siamo inviati nei crocicchi della storia, quella refrattaria o peggio indifferente a questa rivelazione plenaria dell’amore di Dio che ci è data a noi per grazia e per mistero di vivere, in questa pienezza immersiva che è la liturgia stessa perché si risvegli nel cuore di tutti la coscienza che la storia è immediatamente disponibile a diventare Regno di Dio quando qualcuno finalmente presta ascolto all’invito del Padre per celebrare la sponsalità del Figlio. Quindi le direttrici dinamiche del Regno passano attraverso il vostro ascolto, il vostro assenso, il vostro patire la delusione del Padre, il suo rammarico, la sua solitudine, questi sono i tratti del nostro Dio fratelli e sorelle, un Padre deluso, un Padre che ha riversato tutto se stesso nel Figlio amato, che vede ignorato, con la conseguente tristezza che si prova quando il nostro amore è disatteso, è freddato dall’indifferenza.

E allora questa prospettiva fratelli e sorelle ci invita davvero a lasciare che si sgretoli ogni nostro rivestimento di presunzione, di autosufficienza, si fermi in noi questo processo che porta quasi in tempi di ostilità e solitudine a scegliere la scorciatoia così appagante del ritenerci per una qualche misura meritori di questo amore così radicale, così superlativo, così gratuito del Padre e voi avete benissimo ascoltato come in questo secondo appello nei crocicchi delle strade, tutti sono chiamati, buoni e cattivi, licenziando così fratelli e sorelle, qualsiasi idea che di fronte al mistero assoluto della gratuità della vita stessa, come dono del Padre, qualcuno di noi possa pensare di aver diritto a ipotecare quel dono stesso, quella grazia stessa, quell’esperienza stessa, come qualcosa che possa diventare oggetto di una contrattazione col Padre stesso. E invece no, fratelli e sorelle, la nudità di cui oggi parliamo espone la nostra intelligenza a renderci veramente conto che è la vita nel suo mistero il primo grande luogo dove noi sperimentiamo il nulla che siamo, il tutto che è Dio.

Per questo Paolo ha questo linguaggio autenticamente mistico che vi prego di non moralizzare, quando Paolo ci dice che è pronto a vivere nella povertà come nell’abbondanza, ad essere allenato a tutto e per tutto, a sobrietà, fame, abbondanza e indigenza, quando arriva a dire che tutto può in colui che mi dà la forza, ci sta dicendo che lo Spirito, fratelli e sorelle, è così potentemente entrato nel suo corpo da renderlo esperienza di una comunione col Padre celeste attraverso Gesù che rende veramente e radicalmente relativo tutto il resto.

E questo fratelli e sorelle ci vene ridetto stamani perché si attui anche a noi e in noi questa formidabile arresa all’amore del Padre, questa disponibilità a scoprire che l’invito, la struttura invitante dell’amore del Padre è veramente per tutti noi, nessuno escluso, via ai sensi di colpa, via le inadeguatezze, via la sordità, via le presunzioni, via tutto quello che vorrebbe contrattare questa relazione col Signore, ma l’invito ve l’ho detto chiaramente è un invito sponsale del Figlio del Padre che è Dio con la nostra umanità, in una reciprocità di grazia che come in ogni vera sponsalità dà il via a danze di bellezza, di ebbrezza, di leggerezza, tutto quello che siamo chiamati a testimoniare in questo mondo pesantissimo così indisponibile alla gioia autentica che è quella di chi si sa amato, senza perché ed è proprio per questo che le nostre gioie sono chimiche, sono contraffatte o esasperatamente procurate da artifici che sollevino il nostro cuore con modalità del tutto contraffatte al prezzo carissimo di disarticolare la nostra interiorità e la nostra unità.

Ecco fratelli e sorelle, oggi tutto questo ci è rivelato dall’amore del Padre che in una eclissi di luce, allineandosi con le nostre vite, i nostri poveri sguardi, i nostri ascolti distratti, i nostri cuori cangianti, intende investire la nostra nudità di una energia irresistibile, non ne abbiate paura, fate ogni sforzo per cogliere questa energia reale, senza la quale non solo non si giustificherebbe, ma soprattutto non si spiegherebbe la libertà e l’autoconsapevolezza di ogni persona umana, perché  lì è il punto, la forza del nostro poterci pensare come cifra rivelativa del mistero di Dio, una prospettiva che si traduce nella consapevolezza che l’incontro con Lui che è la sorgente, non potrà che attuarsi quando questa mediazione fondamentale, ma nello stesso tempo inadeguata a farsi carico dell’assoluto di Dio che è questa nostra realtà, dovrà cedere ad altro ancora più grande: è il mirabile sogno di Isaia che come avete ascoltato fratelli e sorelle, non spiritualizza nulla del mistero dell’assoluto. Anzi! Lo rende se c’è verso ancora più umano, fra poco mi auguro che vi ritroverete tutti ad un banchetto domenicale, più o meno ricco di buon cibo, più o meno frequentato, spero per tutti non di solitudine ma di comunione, sappiate che, arricchito dalla simbolica eucaristica, risulterà evidente al vostro cuore che il vostro banchetto domenicale è anticipo e profezia di quanto Isaia ha manifestato essere l’approdo della nostra storia: la cima di un monte, e sul monte già ci siamo, in cui saremo tutti insieme, commensali di grasse vivande, di vini succulenti in uno stare insieme che non avrà mai fine, senza più lacrime perché il Signore le ha asciugate tutte, dalla Palestina a Israele, dall’Armenia, al Sudan, all’Ucraina e in tante altre parti della terra dimenticate, il Signore asciuga le lacrime per sostituirle con la rugiada dello Spirito che permette quei cibi buoni che mangeremo con Lui dopo che Lui, perché questo dice il testo biblico, avrà inghiottito la morte, non eliminato come troppo razionalmente traduce questo testo, Dio mangerà la nostra morte. Bellissimo.

Mangia la nostra morte per essere finalmente libero di mangiare con noi in una vita senza morte. Amen

 

Trascrizioni a cura di Grazia Collini

La fotografia è di Mariangela Montanari

 

 

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