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Via Mariti: una «Ground Zero» a Firenze. L’intervento del padre abate Bernardo su Repubblica Firenze del 20 febbraio 2024

Meditazioni

«Le macerie, nel cuore della città, procuravano ai fiorentini una reazione tanto dolorosa e violenta che pareva dovesse distruggere anche le loro ossa. Era una reazione quasi assurda. Le donne urlavano. E non solo perché sotto le macerie aveva perso la vita un qualche loro parente o amico. Urlavano contro le macerie stesse che, col cambiare della luce del giorno, assumevano delle forme quasi umane, di gruppi di persone che lottavano fra di loro. Urlavano dunque le donne e si guardavano smarrite d’attorno come per ricercare le torri e i palazzi di pietra grigia che erano caduti per sempre. Firenze era un’altra, era diversa, non riconoscibile. E loro, i cittadini, uomini e donne, erano posti di fronte a un problema terribile, il futuro. E il futuro incuteva loro una grande paura: la paura di dover essere diversi da quel che erano stati prima dello scoppio delle mine tedesche. Paura giustificata sul momento. Le mine, distruggendo i muri che gli erano familiari, li avevano lasciati soli, nel vuoto della distruzione. Questo stato d’animo non consentì ai fiorentini di valutare i suggerimenti che venivano dalle macerie; suggerimenti per una città rinnovata nel fisico e nello spirito. Era questa un’occasione che la guerra, come unica consolazione, avrebbe offerto in cambio di tante distruzioni. Distrutta la realtà antica, i cittadini non volevano e non potevano porsi, almeno sul momento, il problema dell’ignoto, di quel che sarebbe sorto al posto di ciò che era caduto. Si trattava di un pensiero estraneo ad ogni credibilità e possibilità; rappresentava la minaccia di un domani al quale avrebbero comunque dovuto adattarsi e che avrebbe potuto imporre loro di cambiare anche nell’animo, oltre che nelle abitudini. E in brevissimo tempo; anzi subito!» A me non sembra azzardato o improprio o addirittura improponibile volgere lo sguardo al cratere di via Mariti tenendo ben presente nel cuore e nella mente queste straordinarie parole di Giovanni Michelucci, scritte, come si intuisce facilmente, all’indomani dello sfregio inferto alla nostra città dall’ultimo conflitto mondiale. Le cifre degli incidenti sul lavoro nel nostro Paese sono senza dubbio numeri da bollettini di guerra che segnalano un aspro combattimento fra le ragioni del profitto, della fretta, dello sfruttamento e quelle, spesso perdenti o tragicamente sconfitte, della minuziosa tutela della sicurezza di chi con i propri talenti e capacità, ma non meno spesso di chi invece,  senza sufficiente formazione, ma solo per gli elementari bisogni di persone a carico, si espone a rischi di ogni genere e spesso dalle incalcolabili conseguenze. Mancato rispetto delle normative, insufficienza e non adeguamento di queste ultime, rincorsa a spregiudicati ribassi per aggiudicarsi le commesse, reclutamenti e inquadramenti professionali non adeguati al tipo di competenze richieste sono alcune fra le cause che vengono in mente a chi per formazione anzitutto spirituale prima ancora che esistenziale, sa che il lavoro è componente essenziale della dignità umana. La regola che ogni giorno cerchiamo di seguire a San Miniato al Monte è infatti quella benedettina e san Benedetto, molti secoli fa, obbligando i suoi monaci alla fatica quotidiana del lavoro manuale fa concretamente riecheggiare nelle officine monastiche l’esordio della Genesi, dove il Signore si manifesta nella nostra vicenda temporale mettendosi a lavoro per crearci spazi abitabili con una fatica tale da aver bisogno di un settimo giorno tutto di riposo. Libertà e laboriosità sono dunque rivelativi dell’immagine e della somiglianza impresse da Dio nella nostra umanità perché essa possa in modo altrettanto creativo prendersi cura, coltivare e trasformare la realtà creata e consegnata alla nostra responsabilità di uomini e donne nella storia. Le macerie di via Mariti non possono dunque non interrogarci su questo conflitto il cui esito di pace e giustizia è auspicabile non meno della risoluzione di altri conflitti prettamente militari che in generale contribuiscono a dirci che la nostra contemporaneità, con sciagurata disinvoltura, seppellisce ogni giorno una pur minima visione ideale di umanesimo. Da questa sofferta consapevolezza scaturisce in noi un esigente quesito: cosa fare di quel cratere di cemento? Lasciare intatto il progetto di realizzazione di una ennesima cattedrale del commercio? Fare dunque finta di niente rassegnati alle nostre antiche abitudini appena deterse con una lapide commemorativa più o meno retoricamente efficace oppure riconoscere che quanto accaduto la scorsa settimana in città rappresenta un avvertimento che la nostra coscienza di polis deve ascoltare e decifrare per il bene della collettività del nostro paese e, in un vertiginoso sguardo di sensibilità quasi lapiriana, addirittura del mondo intero? Non sono architetto meno che mai esperto di diritto amministrativo, ma mi permetto di invitare anzitutto il cuore e l’intelligenza della nostra città e poi chi di dovere a fare uno sforzo che riconosca in quella ferita sanguinante della nostra periferia una sorta di Ground Zero da dove ripartire non solo con la tradizionale risorsa di un linguaggio e di un metodo materialmente monumentali che segnali ai posteri la memoria di quella orrenda abrasione mortale, ma soprattutto con un nostro indifferibile cambio di mentalità finalmente capace tanto di immaginare «una città rinnovata nel fisico e nello spirito» quanto di indicare altre priorità nella costruzione e nella trasformazione del tessuto organico della nostra città.

Padre Bernardo

Firenze, 19 febbraio 2024

L’immagine: Giacomo Costa, Plant 4 (2011)

 

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