Dalla «nostalgia di cose mai accadute» e dal «sospetto del paradiso» ad una ritrovata speranza pasquale. Omelie del padre abate Bernardo dal Mercoledì delle Ceneri alla Domenica delle Palme
Dalla «nostalgia di cose mai accadute» e dal «sospetto del paradiso» (Patrizia Cavalli) ad una ritrovata speranza pasquale. Omelie del padre abate Bernardo dal Mercoledì delle Ceneri alla Domenica delle Palme
5 marzo 2025 – Mercoledì delle Ceneri Prima lettura Dal libro del profeta Gioele (Gl 2, 12-18)
Dal libro del profeta Gioele. Così dice il Signore: «Ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti. Laceratevi il cuore e non le vesti, ritornate al Signore, vostro Dio, perché egli è misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore, pronto a ravvedersi riguardo al male». Chi sa che non cambi e si ravveda e lasci dietro a sé una benedizione? Offerta e libagione per il Signore, vostro Dio. Suonate il corno in Sion, proclamate un solenne digiuno, convocate una riunione sacra. Radunate il popolo, indite un’assemblea solenne, chiamate i vecchi, riunite i fanciulli, i bambini lattanti; esca lo sposo dalla sua camera e la sposa dal suo talamo. Tra il vestibolo e l’altare piangano i sacerdoti, ministri del Signore, e dicano: «Perdona, Signore, al tuo popolo e non esporre la tua eredità al ludibrio e alla derisione delle genti». Perché si dovrebbe dire fra i popoli: «Dov’è il loro Dio?». Il Signore si mostra geloso per la sua terra e si muove a compassione del suo popolo. Seconda lettura Dalla seconda lettera san Paolo apostolo ai Corìnzi (2 Cor 5, 20 – 6, 2)
Fratelli, noi, in nome di Cristo, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio. Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio. Poiché siamo suoi collaboratori, vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio. Egli dice infatti: «Al momento favorevole ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso». Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza! Vangelo Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 6, 1-6. 16-18)
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro, altrimenti non c’è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli. Dunque, quando fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipòcriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere lodati dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, mentre tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, perché la tua elemosina resti nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà. E quando pregate, non siate simili agli ipòcriti che, nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà. E quando digiunate, non diventate malinconici come gli ipòcriti, che assumono un’aria disfatta per far vedere agli altri che digiunano. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, quando tu digiuni, profùmati la testa e làvati il volto, perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà». OMELIA Cari fratelli e sorelle, è vero: in obbedienza allo spirito che anima la Chiesa ed è, nello stesso tempo, il grande coreografo della divina liturgia, in questa basilica si è indetta una solenne assemblea che vi vede generosamente raccolti per iniziare, tutti insieme, un cammino di ritorno verso il Signore, nella consapevolezza, altrettanto suscitata dallo Spirito Santo, di essere ciascuno di noi, e il nostro essere suo popolo, oggetto della sua passione, della sua gelosia, del suo amore unitivo, coesivo, esclusivo; non c’è distanza, non c’è dispersione, non c’è dissipazione che possano attenuare questo amore, questa passione, ragione per la quale il profeta osa dirci che, forse, davvero Dio si ravvede, Lui si ravvede, non noi! Lui si ravvede, pentendosi di ogni pentimento di averci voluto, di fronte a sé, altro da sé, liberi rispetto alla sua libertà, ma mai “altro” rispetto a questa dinamica di amore, che ci riporta a Lui, nel momento in cui si ridesta nel nostro cuore – con l’ausilio della Parola ascoltata dall’intelligenza della fede, con un cuore che finalmente si lascia tostare dall’amore bruciante del Signore – che siamo cosa preziosa e irrinunciabile alla sua volontà di volerci una sola cosa con Lui e in Lui; ma nello stesso tempo, cari fratelli e sorelle, questa grande assemblea, indetta sui tetti della nostra distratta città, che ha riscoperto di essere amata dal Signore quando, nel cuore della notte, come incanto nuziale, la nostra campana, che guarda la città – la quarta campana fusa nel 1929 e dedicata, cinque anni dopo il nostro ritorno (che ormai è di 101 anni fa), alle anime del Purgatorio – ha iniziato a danzare, nella notte oscura, perché col suo rintocco regolare e la sua ritmica pulsazione, la città avesse l’avvertenza di essere cara, preziosa al cuore, agli occhi, alle orecchie del Signore: “Destati Firenze! Ama l’Amore!”, come già urlava Santa Maria Maddalena de’ Pazzi, dai tetti del suo asceterio, sul Lungarno, liberando le sue campane, nella notte, perché lo stesso avvertimento scuotesse l’indolenza, l’indifferenza, l’accidia dei suoi concittadini di allora, e questa nostra campana, da mezzanotte, salutando l’avvio della Santa Quaresima ci ricorda, cari fratelli e sorelle, l’urgenza di questa assemblea, che risponda all’appello dell’amore del Padre Celeste che ci rivuole una cosa sola con Lui, in una dimensione di strettissima unità, appartenenza e comunione, tanto gelosa è la vampa del fuoco del suo amore, cari fratelli e sorelle. Ma questo amore, cari fratelli e sorelle, non ci vuole in una generica indistinzione, in una massificazione che trasformi l’andamento libero e intelligente della nostra fede in un gregge di pusillanimi, di pecore che obbediscono all’esteriorità del comando, senza qualità, senza inquietudine, senza passione, senza esporsi al rischio, necessario nell’orizzonte della fede e della vera vita, che è il rischio anche di smarrirsi. E allora stasera risuona, cari fratelli e sorelle, accanto alla grande convocazione assembleare di questa divina liturgia, sui tetti della nostra città distratta, la possibilità di accedere, ancora una volta, per incanto, per meraviglia, per stupore, per eccedenza di mistero, da questa grande basilica e dalla sua grande assemblea, alla camera nuziale, al talamo intimo e riservato, dentro il quale solo lo sguardo del Padre appunta, con intimità e discrezione, le sue pupille, per compiacersi, cari fratelli e sorelle, di questa ritrovata intimità con Lui, questo segreto più segreto del mio cuore, dentro il quale si sposa, finalmente, la nostra anima col suo Assoluto, col suo Eterno, col suo Infinito, intuendo, forse, finalmente, cari fratelli e sorelle, la natura necessariamente ambigua, per tanti versi intralciante, con i suoi incantesimi seduttivi, delle innumerabili realtà quintultime, quartultime, terzultime, e vorrei anche dire penultime, e in modo tutto speciale questo demone che intendiamo, con forza e sistematica strategia tattica, neutralizzare in questi bellissimi, gioiosi, stupendi giorni di Quaresima, che oggi lo Spirito Santo inaugura per ciascuno di voi: il demone del compiacimento, il demone di tutto quello che gonfia questo nostro “io” insaziabile, che assume, assimila le cose dintorno, per saturarsi di una postura e di una potestà con la quale renderci alternativi al Padre Celeste, arroccando su di noi, sulle nostre presunte facoltà, ogni strategia di sopravvivenza, tanto illusoria quanto fallace; e allora, con l’arma della carità, della preghiera e del digiuno, con tutto quello che spoglia progressivamente, ma anche sistematicamente, questo cortocircuito dell’autoreferenzialità, ecco che, varcando la soglia della porta celeste in questa grande basilica, nella nostra grande assemblea, chiudendo gli occhi, possiamo scoprirci, ognuno di noi (fatelo questo esercizio, serrando le palpebre!), nudi nell’abbraccio intimo e sponsale della nostra anima con il Verbo Incarnato, il dono supremo del Padre Celeste, che ancora abbiamo nel cuore, nelle sue fattezze, con le quali e per le quali abbiamo fatto tepore, calore e accoglienza nei santi giorni di Natale, che stendono fin qui la luce auto-rivelativa del Padre Celeste, che si manifesta come il Dio geloso, onnipotente, innamorato della sua giustizia, ma più ancora innamorato della nostra salvezza: un Dio che, come arriva a dire Papa Benedetto, fa violenza alla sua giustizia, pur di espandere il suo amore e la sua misericordia; un Dio che si ravvede, in una dialettica tutta intima al suo cuore, per estendere i confini del suo regno e trovarci arresi alla sua grazia, a quel “kairòs” di cui noi, per il mondo intero, siamo e dovremmo essere ambasciatori (ce lo ha detto, con grande chiarezza, Paolo, cari fratelli e sorelle), restituendo al giorno dopo questo ius primae noctis – oso chiamarlo così l’amore appassionato di Dio per la sua creatura – il compito di non restare oziosi fra le lenzuola, in una sorta di gola spirituale, giustamente rimproverata dalla grande tradizione mistica; dobbiamo metterci, invece, in corse e rincorse, per svegliare, nel cuore del giorno, se necessario con altrettante campane, il torpore di chi si ritiene sazio delle cose penultime, di chi si ritiene adempiuto, contemplando narcisisticamente la sua forma umana, di chi ritiene, col solo esercizio del potere, di mettersi al servizio di quanto è ben altro, ovvero la giustizia del Padre Celeste, di chi confonde la propria tranquillità psicologica con l’urgenza di una pace che nessuna ideologia al mondo saprà donarci, se non la nostra conversione risoluta a Colui che della pace è la sorgente e il massimo e supremo, incontrovertibile instauratore, Gesù Cristo nostro Signore, unico salvatore. Cari fratelli e sorelle, si delinea, così, a tinte molto forti (ed è per questo che perdonerete il tono enfatico, necessariamente enfatico, della mia parola), un combattimento che non può e non deve mai trovarci indisponibili ad una tensione che risvegli, anzitutto nel nostro cuore, la consapevolezza di essere stati immersi, per grazia, in un vortice d’amore, cari fratelli e sorelle, che deve farci girare la testa, deve farci perdere l’equilibrio, deve scombinare i nostri piani di giustapposizione, con la quale il nostro soggetto pretende di colonizzare, in modo banalmente geometrico, la realtà tutto intorno. A noi non ci interessano molto, da questo punto di vista, le dotazioni e le strumentazioni che l’intelligenza artificiale possono arrecarci; ci va benissimo, cari fratelli e sorelle, che l’uomo sia sempre più ricco di risorse, che lo aiutino a fare di questa terra un luogo dove si metta al sicuro il dono della vita, ma nessuna tecnologia potrà mai tranquillizzare la nostra coscienza, anestetizzare quella inquietudine che, in braccio alla fede, accesa dalla carità e smossa dalla speranza, ha da tracciare una via nuova alla nostra umanità; ne sentiamo l’urgenza, la consapevolezza e la responsabilità. Poco importa, cari fratelli e sorelle, se siamo un pugnello di pochi uomini e di poche donne; poco importa se le nostre grida, da fuori, possono parere i versi di un esaltato; a noi basta il calore che accende lo Spirito Santo, nel cuore della nostra intelligenza: senza lasciarsi amare, perdonare, nutrire dal Padre Celeste, nulla vale la nostra umanità, che consiste nelle cose penultime; tutto può, se osa – illuminata dalla sapienza celeste – sconfinare in quella regione della somiglianza dove, inevitabilmente, la forza di gravità venendo meno, cammineremo come a tentoni, saremo quasi simili a quegli astronauti, persi nel mare infinito dello spazio, ma non importa! Avremo ritrovato, finalmente, la consapevolezza di essere stati fatti, desiderati, amati, dall’Infinito, per tornare a sconfinare nell’Infinito Amore, che oggi ci chiede di dare in elemosina nient’altro che il nostro cuore perché, uccidendo, così, l’ “io” e il suo calcare, il fiume della grazia torni a bagnare i recessi più intimi del nostro cuore e fare della nostra vita il Tabor dove sposare il Verbo Incarnato e fare delle nostre grandi assemblee e della nostra grande basilica la finestra che apre sulla penombra della storia la luce intramontabile della Pasqua di Cristo. Amen!
Domenica 9 marzo 2025 – I domenica di Quaresima (anno C) Liturgia eucaristica del mattino Prima lettura Dal libro del Deuteronomio (Dt 26, 4-10)
Mosè parlò al popolo e disse: «Il sacerdote prenderà la cesta dalle tue mani e la deporrà davanti all’altare del Signore, tuo Dio, e tu pronuncerai queste parole davanti al Signore, tuo Dio: “Mio padre era un Aramèo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa. Gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione; il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente e con braccio teso, spargendo terrore e operando segni e prodigi. Ci condusse in questo luogo e ci diede questa terra, dove scorrono latte e miele. Ora, ecco, io presento le primizie dei frutti del suolo che tu, Signore, mi hai dato”. Le deporrai davanti al Signore, tuo Dio, e ti prostrerai davanti al Signore, tuo Dio». Seconda lettura Dalla lettera san Paolo apostolo ai Romani (Rm 10, 8-13)
Fratelli, che cosa dice [Mosè]? «Vicino a te è la Parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore», cioè la parola della fede che noi predichiamo. Perché se con la tua bocca proclamerai: «Gesù è il Signore!», e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia, e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza. Dice infatti la Scrittura: «Chiunque crede in lui non sarà deluso». Poiché non c’è distinzione fra Giudeo e Greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano. Infatti: «Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato». Vangelo Dal Vangelo secondo Luca (Lc 4, 1-13) In quel tempo, Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo. Non mangiò nulla in quei giorni, ma quando furono terminati, ebbe fame. Allora il diavolo gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane». Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo”». Il diavolo lo condusse in alto, gli mostrò in un istante tutti i regni della terra e gli disse: «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo». Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”». Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù di qui; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo affinché essi ti custodiscano”; e anche: “Essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”». Gesù gli rispose: «È stato detto: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”». Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato. OMELIA Cari fratelli e sorelle in Cristo, è veramente domenica, Pasqua della settimana, ma come accade alla nostra basilica, abbiamo la percezione che su di essa, sul suo fulgore, memore e grato della risurrezione del Signore Gesù, si allunghi un’ombra che ne condizioni tale luce, tale forza, tale ragione di speranza; un fulgore attenuato dalla consapevolezza di essere, con il Signore Gesù, nella narrazione della sua vita, che la liturgia propone alla nostra consapevolezza di fede, come Lui e con Lui, messi alla prova, in un’esperienza di privazione che, ridestando in noi la atavica ed ancestrale esperienza di un’indigenza, di una fame, di un bisogno (ognuno di noi, cari fratelli e sorelle, nasce urlando, in forza di un trauma), passando anche noi ad un’altra riva, lasciando alle nostre spalle il Giordano rassicurante, simbolo di quel grembo uterino, in questa novità tutta sconosciuta, tutta incommensurabile, tutta imprevedibile, noi sentiamo e vogliamo sentire, almeno per questa stagione di Quaresima, se non l’assenza, quantomeno l’offuscarsi della rassicurante presenza del Padre, la sua certezza di fede, che risulta come opacizzata dalla desolazione incommensurabile, anch’essa, del deserto e dei suoi paesaggi infiniti, la sua desolazione, e vogliamo restare qui, anche di domenica, con il Signore Gesù. Certo non si attenua, direi, dottrinalmente e dogmaticamente, la nostra fede nel Signore risorto, ma accogliamo fino in fondo l’indicazione esistenziale che ci è offerta dal credo proposto dalla prima lettura che abbiamo ascoltato, un credo che scaturisce da un piano diverso da quello cognitivo e dottrinario: il piano della storia, il piano dell’esperienza, il piano della vicenda temporale, che Israele ha conosciuto nella grande prova d’Egitto e in quella liberazione lenta, sofferta, come vorrebbe essere lenta e sofferta anche la nostra liturgia odierna, i minuti che passano scanditi da una clessidra dalla sabbia interminabile come le dune del deserto: un’esperienza così anomala e straniante, per noi che siamo ormai immersi nella cultura della rapidità e della simultaneità! Ma voi siete scolta scelta dallo Spirito Santo, che vi pone in prima linea, fra tutto il popolo di Dio, per lasciarsi ammaestrare, voi, gente rarissima, alla scuola inattuale della liturgia. E dunque mi sento di dirvi tutto questo, di lasciarvi vivere tutto questo, sapendo che i vostri cuori sono duttili ad un magistero che, anzitutto, vuole lasciarsi educare dalla storia, dalla vita così come è, nella certezza che la vita così come è, resta magistero di fede, di speranza e di amore, perché è la vita così come è vissuta dal Signore Gesù, nel suo farsi storia nella nostra storia. E dunque prima ancora della certezza geometrica della dottrina e del dogma, la storia nella sua brutalità, e la storia nella sua brutalità, oggi ci vede, cari fratelli e sorelle, con il Signore Gesù, nel deserto; ben venga, dunque, lo dobbiamo dire ancora una volta, l’effetto straniante di tutte queste impalcature e tralicci che offendono l’armonia e la geometria della nostra basilica; ben venga anche questo impiantino, che sembra davvero sabbia ai nostri piedi, questo compensato condensato, che cancella le mirabili geometrie duecentesche, che ci fanno volare su un tappeto altrettanto volante, un tappeto siderale che ci solleva e ci conduce in Cielo. Noi oggi calpestiamo questa sorta di legno sabbioso. A che ci serve oggi? Per dare consistenza storica all’esperienza che i tempi giusti e sapienti della liturgia vogliono farci vivere, per condividere la fame del Signore Gesù, il suo esporsi alla separazione dal Padre, in una solitudine estrema, che diventa il grande apprendistato di una fede che da Lui vogliamo ricevere, nella consapevolezza che il suo amore, il suo dono, il suo essere con noi storia nella nostra storia, ha pienamente chiara una esperienza che è al cuore, ancora una volta, della prima lettura. Questa parola, che è la ragione del nostro essere qui, cari fratelli e sorelle: una parola decisiva, nella consapevolezza sapiente del nostro essere vivi non in forza di una autodeterminazione, ma di essere vivi per tutto quello che abbiamo ricevuto, senza il quale non saremmo qui: la vita biologica, ricevuta dai nostri genitori, il nutrimento, generalmente da essi ricevuto, la fede, sempre più raramente da essi ricevuta, e via di seguito, e la parola che ne consegue, ponendo tutti noi, in obbedienza allo Spirito Santo, davanti al Padre, origine della vita, è la parola: “restituzione”. Una parola decisiva e anch’essa inattuale, come è inattuale tutta la sapienza del magistero liturgico che fa della restituzione è uno dei suoi principali movimenti e ragioni. Ma lo ripeto: voi siete la scolta scelta del popolo di Dio, e non lo dico per compiacervi, tantomeno per esaltarvi, sarei diabolico in questo; lo dico, cari fratelli e sorelle, per ringraziarvi e incoraggiarvi una volta di più in questa vostra santa perseveranza al magistero liturgico, alla lentezza liturgica, al distillato liturgico, a tutto quello che ripugna alla nostra fame e sete di acquisizioni rapide e simultanee, necessariamente digitalizzate, ma sempre costrette, per forza di cose, a fermarsi all’esteriorità del dato che si sovrappone, iconicamente, solo e soltanto a ciò che vi corrisponde nella sua immediata evidenza: noi no! Siamo chiamati allo scavo e, attraverso lo scavo, addirittura oggi – in questa landa sabbiosa che è diventata, anche, come fosse un’installazione d’arte contemporanea, la nostra basilica – alla dispersione, alla dissipazione, allo smarrimento. Valorizziamo quello che sta accadendo intorno a noi, cari fratelli e sorelle, fra sbarre e assi di legno, così offensivi: è la figura simbolica della nostra condizione storica, quella che il Signore Gesù attraversa nel deserto, ma attraversa colmo dello Spirito Santo. Allora, cari fratelli e sorelle, è questo il nostro domandare oggi, è questa la bussola che ci viene offerta, se valorizziamo questa dispersione e dissipazione: non tratteniamo nulla di noi, sapendo che, in questo vuoto, si insedia l’amore del Padre Celeste, invisibile, ma riconoscibile dall’indizio del suo Spirito, il vento invisibile ma reale del suo amore, che è un tutt’uno con questa nostra residua vitalità, che consegniamo al Signore Gesù, sapendo che Lui, colmo di Spirito Santo e, dunque, amato dal Padre invisibile, più di noi e meglio di noi, nulla trattiene per sé. E dunque siamo certi di essere qui con Lui – lasciatemi usare questa espressione importante, forte, ancora una volta psicologicamente espressiva di una dimensione ancestrale della nostra condizione umana: siamo qui a succhiare la sua fede dai capezzoli delle sue ferite, del suo lasciarsi crettare dal sole del deserto, dai sassi aguzzi del deserto, dalle grinze che la fame e la sete del deserto procurano alla sua pelle, perché si prepari, essa, a ricevere le ferite della crocifissione. E noi con Lui avvertiamo che questo corpo, strapazzato dalla storia e dalla sua inospitale geografia, è un corpo tutto per noi, cari fratelli e sorelle, fecondo di Spirito Santo, che lo rende come la pietra e la roccia del deserto, dalla quale scaturisce, su comando di Mosè, l’acqua che disseta il popolo. Allora voi capite, cari fratelli e sorelle, che la liturgia, questa liturgia, se da un lato ci impone di vivere questa Pasqua attenuata, quale non può non essere la prima domenica di Quaresima, se accogliamo il segno penitenziale del viola sulla luce bianca della risurrezione del Signore Gesù, se dobbiamo accontentarci (e dom. Benedetto sa quale sofferenza gli comporti rinunciare alla musica dell’organo), noi sentiamo che queste privazioni, queste economie del limite, se da un lato ci fanno sentire un poco più distanti dal “Logos”, dall’armonia, dalla sapienza del Padre Celeste, dall’altro lato ci fanno diventare ancora di più storia nella storia sofferta del Signore Gesù, imparando a riconoscere, cari fratelli e sorelle, come un discernimento di amore, che la parola che salva, il nutrimento che dà vita, non è altro che il suo corpo donato per questo estremo di amore, che è lo Spirito Santo, e che ci fa avvertire, nel suo essere ridotto, come già Giovanni Battista, a pelle ed ossa, la riserva inesauribile di quella linfa che ci educherà ad essere nutriti, quando non ci basterà – e questo capita, in realtà, assai spesso – il pane e il companatico delle nostre abbondanti credenze, quando non ci basterà il potere di cui siamo, tutti noi, detentori, nell’esperienza umiliante di certi passaggi della nostra vita, in cui tutto quello che abbiamo, tutto quello che sappiamo, tutto quello di cui disponiamo a nulla serve nel limite estremo della vita e della storia: la malattia imprevista, la perdita inattesa, il capovolgimento delle fortune, tutto quello che altre nobili tradizioni ci educano a riconoscere come indifferente per la quiete imperturbabile della nostra anima, noi invece proviamo a sperimentarle in questa landa deserta, per riconoscerci che, attaccandoci a questa pietra scava, disidratata, che è il corpo del Signore Gesù, la sorgente zampillante di un nutrimento che intende agire non sulla nostra presunta e presuntuosa imperturbabilità, ma su questa nostra vocazione alla gioia, alla relazione, alla pienezza sorridente della vita, che sa e vuole disporre dei beni creati, per fare di tutto quello che ci circonda un riflesso, se possibile, ancora più ricco e variopinto dell’infinito cielo di Dio, perché la nostra vocazione è circondarci di bellezza, è riempirci di gioia, è credere davvero, educati dalla storia e dalla Pasqua del Signore Gesù e dalla credenza dogmatica in essa, che la vita della vita non può e non deve conoscere ipoteca sulla nostra letizia, sulla nostra gioia, sui nostri amori, sui nostri abbracci, sul nostro ritrovarci, avendo nel cuore la sensazione dolcissima e bellissima che niente e nessuno potrà mai dividerci da Colui che dell’amore è origine e fra di noi, che questo amore ci scambiamo, perché, cari fratelli e sorelle, se è vero che la Quaresima è il laboratorio che ci toglie qualcosa, in questi giorni di opacità, lo è per educarci a non mettere limite alla nostra speranza, a non lasciarci condizionare in nulla nella nostra fede e, nello stesso tempo, imparare ad amare di una passione così bruciante che dissolve lo spauracchio della morte, che allontana dai nostri cuori la minaccia della malattia e di quei mille e mille condizionamenti che vorrebbero dirci: “Ama meno, se vuoi restare in pace!”. Ecco perché, cari fratelli e sorelle, è bellissimo oggi essere qui, disorientati, nella nostra basilica trasformata con queste impalcature, che non sono più il cielo stellato che ci faceva sentire lontano e vicino il Padre Celeste; tutto è così assurdamente brutto e anomalo, ma forse in questa bruttezza risorge nel cuore la consapevolezza che, se tutto questo limite è abitato dal discernimento di Cristo, che respinge la tentazione per essere Figlio del Padre Celeste, con Lui la linfa di una bellezza disposta a nutrirci, giorno e notte, anche nel più solitario deserto, non verrà meno e arriveremo anche noi, con Lui, alla Pasqua che fa risorgere la letizia, la gioia e la pienezza del creato. Amen!
Domenica 30 marzo 2025 – IV domenica di Quaresima (anno C) Liturgia eucaristica del mattino Prima lettura Dal libro di Giosuè (Gs 5, 9. 10-12)
In quei giorni, il Signore disse a Giosuè: «Oggi ho allontanato da voi l’infamia dell’Egitto». Gli Israeliti rimasero accampati a Gàlgala e celebrarono la Pasqua al quattordici del mese, alla sera, nelle steppe di Gerico. Il giorno dopo la Pasqua mangiarono i prodotti della terra, àzzimi e frumento abbrustolito in quello stesso giorno. E a partire dal giorno seguente, come ebbero mangiato i prodotti della terra, la manna cessò. Gli Israeliti non ebbero più manna; quell’anno mangiarono i frutti della terra di Canaan. Seconda lettura Dalla lettera san Paolo apostolo ai Corinzi (2 Cor 5, 17-21)
Fratelli, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove. Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio. Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio.
Vangelo Dal Vangelo secondo Luca (Lc 15, 1-3. 11-32) In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa. Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”». OMELIA Cari fratelli e sorelle, per noi che abbiamo smarrito il senso della qualità del tempo e di ogni istante, per noi che abbiamo, generalmente, disatteso alle aspettative che lo Spirito Santo ha della nostra misurazione del tempo invitandoci, ogni domenica, alla divina liturgia, non è forse facile cogliere tutto l’annuncio di consolazione, di meraviglia e di stupore inscritto in questa quarta domenica di Quaresima, che porta con sé i cromatismi e le parole che attenuano, come già annunziato all’inizio di questa liturgia, il rigore e l’austerità del non breve cammino quaresimale; una disaffezione dalla qualità del tempo assai diffusa, ma che, in realtà, – va detto – vede in voi una singolare e preziosa eccezione, perché voi, in realtà, venendo qui ogni domenica, sapete di questo modo alternativo con cui misura il tempo la divina liturgia, e lo misura, cari fratelli e sorelle, per trasformare la sabbia di qualsivoglia clessidra in quelle che, vorrei dirvi senza sconcertare nessuno, diventa per noi il sangue del Signore Gesù. Ecco, noi, forse, acquisiremmo una migliore consapevolezza del tempo che passa se, con la fantasia illuminata dallo Spirito Santo, immaginassimo che la verità del tempo non è misurabile dalla sabbia, inerte e incolore, della clessidra, ma da quelle gocce di sangue che potremmo raccogliere in una preziosissima ampolla, anzi, partecipando alla divina eucarestia, come ci insegna la grande tradizione dei Padri, in particolare un padre orientale, Nicola Cabasilas, siamo noi a diventare la fiala che custodisce il sangue di Cristo; e diventare noi, cari fratelli e sorelle, la custodia del sangue di Cristo che scorre, così, nella nostra realtà organica, può e deve trasformare la percezione del tempo, senza la quale tutto quello che noi viviamo, anzitutto nella divina liturgia, ogni singola domenica e, in particolare, questa domenica, e le conseguenze di quello che noi viviamo e impariamo dalla divina liturgia, in ogni singola domenica e in questa domenica in particolare, corre il rischio di impoverirsi, depauperarsi, squalificarsi nella ennesima ricezione moralistica di una Parola che sembra volerci incoraggiare ad avere una certa qual confidenza con una probabile benevolenza del Signore (non sarebbe poco, questo, sia ben chiaro!), una benevolenza che viene incontro ad un nostro moto di consapevolezza del nostro limite, del nostro peccato, della nostra miseria, trasformando il ritorno verso il Padre in quel punto di merito assente nella pagella esistenziale del figlio minore, rendendo, così, questa vicenda molto meno di quello che, invece, per Luca, io credo, voglia diventare, e cioè, cari fratelli e sorelle, un grande annuncio pasquale, un grande manifesto di autoconsapevolezza spirituale e, direi proprio per questo, dal nostro punto di vista umano, un grande manifesto antropologico, cioè rivelativo del mistero inscritto nella nostra condizione umana, esposta allo stesso fatale destino del tempo, se lo si lascia misurare soltanto con la inerzia gravitazionale, insapore e insignificante, della sabbia nella clessidra e, lo stesso tempo, questa nostra consapevolezza, assimilabile a tutto quello che dell’umano possiamo dire, limitandoci ad una lettura esclusivamente fisiologica, organica, minerale, molecolare, disponibile a riscattarsi soltanto attraverso una auto-elevazione, ancora una volta, morale ed etica, che lavorerà, conseguentemente, sulla qualificazione della nostra volontà e possibilmente, se esiste, della nostra libertà. Ma tutto questo, cari fratelli e sorelle, appare, direi, sostanzialmente, niente rispetto al grande annuncio pasquale che oggi, secondo un procedimento, io credo, tipicamente lucano, in almeno due passaggi, viene ad accendere il nostro cuore di incontenibile gioia e speranza, di più, di ebbrezza! Un’ebbrezza che, non a caso, è il senso della festa, dove si mangia, si beve, si danza, perché questo, cari fratelli e sorelle, accade per la volontà del Padre, ebbro di gioia per la Pasqua che contempla nel suo figlio. Dunque, un movimento di esultanza che, si direbbe, rompe le righe, rompe le regole, rompe il buonsenso, rompe la ragioneria del merito, dal suo punto di vista, giustamente annotato dallo sguardo obliquo e in tralice del figlio maggiore; entrambi, in realtà, nonostante le assicurazioni del Padre, lontani da quella casa, simbolo di quella reciprocità di comunione e di libertà, se anche per il figlio maggiore il Padre deve uscire dalla casa per invitarlo ad entrare. Certo, pochi metri lo dividono rispetto all’enorme distanza che il figlio minore aveva scelto per andare alla ricerca di una sua libertà che, totalmente autoreferenziale, si era rivelata (lo avete ascoltato) infruttuosa e addirittura controproducente. Dunque, la parola chiave, cari fratelli e sorelle, è l’avventura della nostra qualificazione umana come persone fatte a immagine e somiglianza di Colui che vuole, desidera, brama vedere riflessa nella prediletta creatura che siamo noi, la sua libertà, la sua iniziativa, la sua eccedenza. Non è un caso, cari fratelli e sorelle, che la cattiva libertà del figlio minore si rivela sterile e infruttuosa; la libertà del popolo messo finalmente in salvo dall’ignominia e dall’obbrobrio dell’Egitto, lo colloca, per forza di quella libertà riacquisita, in una terra che produce frutti, che nutre, dunque, quel popolo che non ha più bisogno della manna che scende misteriosamente e prodigiosamente dal cielo; è una terra che dovrà essere di nuovo, come era accaduto all’inizio in Genesi, coltivata e custodita dal popolo; è la terra della libertà, della responsabilità, della relazione, della costruzione, di tutto quello che ci qualifica nel nostro essere a immagine e somiglianza di Dio, nella consapevolezza, memore e grata, che la nostra esistenza non sorge da sé, per sua auto-iniziativa, ma ci è donata, per mistero di grazia. Ed è esattamente quello che il popolo di Israele torna a sperimentare, vivendo la liberazione pasquale dall’ignominia e dall’obbrobrio dell’Egitto; una liberazione che, non a caso, è indicata a Mosè come il preludio di ciò che dovrà diventare festa nel deserto, di ciò che dovrebbe diventare, anche per noi, la divina liturgia, in particolare nella sua capacità di essere un compendio simbolico e reale dell’ebrezza che noi riceviamo nel cuore quando, nonostante le fatiche della settimana, nonostante le orrende notizie che giungono dalla terra squarciata dell’Estremo Oriente, nonostante le dure notizie che alcuni di voi, anche prima di questa divina liturgia, hanno deposto nel mio cuore, lasciandomi intuire le loro sofferenze nel corpo e nell’anima, questo nostro sentirci amati, liberati in modo incondizionato dal Padre Celeste, senza alcun calcolo di merito, riafferma questo primato della vita sulla vita, della libertà dell’amore su qualsiasi altra libertà d’amore e, direi, il primato del futuro su qualsiasi presente, inevitabilmente già logorato da questo tempo che si sbriciola, come sabbia inerte nelle clessidre che ne misurano una scansione gravitazionale e che, però, rende questo nostro trascorso tempo privo di tutta quella fecondità che, invece, la Pasqua nella divina liturgia, facendoci celebrare il memoriale di cose già accadute, fa irrompere, scaturire nel nostro cuore, trasformandolo, cari fratelli e sorelle, in fiala di vita eterna, perché questa è la buona notizia: si logora l’uomo, come il tempo, si sciupa l’uomo, come tutto ciò che è questa nostra vicenda temporale, ma l’uomo Dio Gesù Cristo è stato reso dal Padre niente di meno che peccato, per diventare questo straordinario, inimmaginabile scambio: Lui, l’agnello innocente reso peccato e, come tale, crocifisso e sollevato come obbrobrio sul legno della croce, noi, liberati, salvati, guariti – lasciatemi usare questa espressione – “eternizzati”, “infinitizzati” – mi perdonerà il filologo Michele di queste mie coniazioni – dall’infinito ed eterno amore del Padre, cosicché la consapevolezza di vivere, in questa celebrazione, questa esperienza qui, attraverso la mediazione simbolica della liturgia, dopo la fatica che voi conoscete (perché venite qui) di queste settimane di Quaresima, è davvero, cari fratelli e sorelle, il rosaceo che con i fiori sull’altare, ieri per l’onomastico di Costantino, oggi per la nostra Pasqua, e questo colore rosaceo, vengono ad esprimere, in un sussulto ematico e nello stesso tempo pneumatologico di vita eterna, che dal profondo delle nostre viscere, finalmente rese misericordiose perché a loro volta già perdonate, questa nostra relazione interpersonale e la rendono molto di più, cari fratelli e sorelle, che una società ecclesiastica che si raduna per obbligo di precetto, no! Noi siamo comunione ecclesiale, popolo nuovo, arca di salvezza, novello Israele, chiamato ad attraversare il deserto del nostro oggi, per raccontare al mondo intero la novità pasquale di una liberazione che è iniziata esattamente nell’intimo del nostro cuore, che noi, in questo primo momento lucano, andiamo a visitare, rientrando in noi stessi: ciò che abbiamo fatto quando avete obbedito all’invito di fare memoria del nostro peccato, cioè, al di là del linguaggio fatalmente moralistico, fare memoria del nostro limite, della nostra creaturalità, delle nostre innumerevoli morti, già attraversate e vissute in questa settimana: un passaggio primaverile e pasquale, che canta mirabilmente Patrizia Cavalli, riconoscendo nella primavera “un sospetto di Paradiso” (vedete che cito anche qualcun altro, oltre Mario Luzzi e Mariangela Gualtieri, ogni tanto, rare volte, ma qualche volta capita, è il caso di stamani!). “Il sospetto di Paradiso” e, in un verso ancora più bello, “la nostalgia di cose mai accadute”: bellissimo! Si può avere nostalgia di cose mai accadute, nella realtà ordinaria? Certo che no! Ma nella divina liturgia sì, perché, in realtà, ognuno di noi è invitato ad avere nostalgia di quanto vivremo in pienezza soltanto nella espansione escatologica che trasformerà, dopo averlo disteso bene, questo nostro mondo e questo nostro cielo, in “terra nuova e in cieli nuovi”. Ma già assaporiamo, cari fratelli e sorelle, cosa possa significare, da parte di un Padre che ha reso peccato il figlio innocente per donarci la sua innocenza, ricevere un anello al dito, nonostante tutto quello che possono aver compiuto le mie mani, una veste bianca, nonostante le macchie che le mie vesti possono aver subìto per tutto quello che ho compiuto, e in questa trasfigurazione sentire, cari fratelli e sorelle, che davvero il dinamismo della Pasqua opera già nel cuore desertico e sabbioso della Quaresima, che ci ha condotto su questo orrendo pavimento scricchiolante, che vorremmo levarci di torno nella festa di Pasqua e che, invece, dovremmo tenere anche, forse, dicono (speriamo di no!), per tutta l’estate e magari anche un po’ d’autunno, ma faremo memoria della sabbia che la grazia e la misericordia del Padre, liberando Israele, trasforma in una terra che non produce morte e distruzione, come in Birmania, ma frutti, con i quali, chinandoci per terra, possiamo raccogliere quello che quel figlio non aveva raccolto, invidiando le carrube dei maiali, ai quali era sottoposto. E dunque, cari fratelli e sorelle, (e chiudo) questa progressione lucana che mi trovavo a citare già domenica scorsa, perché ho la sensazione, davvero, che una volta sola non basti, per la nostra durezza, per la complessità e indisponibilità della nostra superficialità a cogliere e propiziare l’integrazione dei molteplici piani che la nostra verità trinitaria, antropologica, implica (spirito, anima e corpo), e dunque non basta rientrare in se stessi, come non era bastato ai pellegrini sulla via di Emmaus essere scaldati nel cuore da tutte le volte in cui il Signore Gesù, lungo la via, spiegava ed evangelizzava la sua sofferenza, così quel cuore diventava occhio che contemplava e riconosceva il Cristo allo spezzare del pane. E noi, stamani, contempliamo e riconosciamo l’amore del Padre in quel Cristo che riveste della sua luce e dona il suo anello sponsale alla nostra carne ferita, alla nostra psiche indebolita e, in una vampa e in un impeto di luce dello Spirito, in piena Quaresima, fra dune di deserto e terre spaccate, generose soltanto di morte, ci fa gustare la grande liberazione pasquale e il manifesto di bellezza e dignità umana che niente e nessuno può togliere dall’orizzonte della nostra fede e dai contenuti innamorati della nostra speranza. Amen!
Domenica 6 aprile 2025 – V domenica di Quaresima (anno C) Liturgia eucaristica vespertina Prima lettura Dal libro del profeta Isaia (Is 43, 16-21)
Così dice il Signore, che aprì una strada nel mare e un sentiero in mezzo ad acque possenti, che fece uscire carri e cavalli, esercito ed eroi a un tempo; essi giacciono morti, mai più si rialzeranno, si spensero come un lucignolo, sono estinti: «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa. Mi glorificheranno le bestie selvatiche, sciacalli e struzzi, perché avrò fornito acqua al deserto, fiumi alla steppa, per dissetare il mio popolo, il mio eletto. Il popolo che io ho plasmato per me celebrerà le mie lodi». Seconda lettura Dalla lettera san Paolo apostolo ai Filippesi (Fil 3, 8-14)
Fratelli, ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui, avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede: perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti. Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù.
Vangelo Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 8, 1-11) In quel tempo, Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e si mise a insegnare loro. Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo. Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più». OMELIA Cari fratelli e sorelle, continuando insistentemente a decifrare i giorni che viviamo, attraverso la mente perspicua di questo specialissimo osservatorio che è la specula liturgica, noi avvertiamo l’imminente compiersi del tempo quaresimale, di questo deserto, che abbiamo deciso di attraversare tutti, in umile e consapevole obbedienza allo Spirito Santo, che ci ha condotto su questo monte, stasera, per vivere, attraverso i dispositivi efficaci, oggettivi e spirituali, della divina liturgia, qualcosa che riporti la nostra fragile umanità alla feconda temporalità nella quale continua ad inscriversi il mistero della vita incarnata del Signore Gesù, e andrà sottolineata l’espressione “vita incarnata”, perché quello di oggi pomeriggio non è un generico commemorare: la Chiesa non commemora, la Chiesa vive e, per tanti versi, è costretta a subire, nonostante la sua oggettiva fragilità, la forza, per tanti versi deformante, del peso dell’amore del Padre, che sottopone la Chiesa stessa ad un continuo riformarsi, per avere il coraggio di guardare senza vergogna il suo sposo Gesù, e lasciarsi guardare dal Suo volto di luce. Pertanto la prima immagine che suggerisco alla fantasia del vostro spirito è quella propizia a questa penombra: sentirci tutti noi entro il bulbo oculare della madre Chiesa, disposti a lasciarci guardare dallo sguardo di luce tagliente del suo sposo, il Signore Gesù, e vivere l’ebrezza della loro sponsalità. Qui accediamo, cari fratelli e sorelle, attraverso l’altra necessaria acquisizione, che sempre la fantasia dello Spirito, sollecitata dai dinamismi della liturgia, avrà certamente attivato nel vostro cuore, perché Isaia (lo avete ascoltato) continua a parlarci di sabbia, di dune, di deserto, di smarrimento, di fatica, ma anche, e finalmente, di una strada che l’amore del Signore ha deciso di tracciare per il nostro essere carovana, esposta ad uno smarrimento insuperabile, tra queste dune che sono la nostra vita, le nostre fragilità, la nostra indisponibilità, propria della sabbia, ad assumere una forma concreta che restituisca a tutti noi la consapevolezza di essere stati desiderati a immagine e somiglianza di Colui che ci ha creati. Ben venga, dunque, questo nostro smarrirci qui, in queste dune che sono ai nostri piedi, questi provvisori impiantiti, sui quali scorre la strada che inizia a farci gustare l’imminenza e la prossimità del grande evento celebrativo che anche quest’anno capovolgerà i nostri provvisori punti di vista, le nostre parziali prospettive, i nostri presunti bilanci, fatti, come sempre, mettendo insieme, da un lato, l’orgoglio e l’insensibilità, con la quale discolparci in ogni occasione, e l’altra voce, quella dei sensi di colpa, che paralizzano il nostro futuro. Su tutto questo si apre, cari fratelli e sorelle, per noi, carovane nel deserto, il grande accesso pasquale, e a questo grande accesso siamo indirizzati riscoprendo anche l’arte della sete, una sete da elogiare, finalmente, nella misura in cui ci toglie da questo orizzonte vanitoso e superficiale, emotivo ed epidermico, del benessere, del culto del benessere, che ormai è la nostra piatta e misera liturgia, con la quale sottrarci al sudore e alle fatiche del quotidiano, riparandoci chissà in quale nicchia artificiosa dove, naturalmente, non gratuitamente, avremo un qualche contingente beneficio, invece no! Cari fratelli e sorelle, qui, in questo cantiere, tutto è gratuito, ma non per ottenere un generico benessere, ma per imparare ad ascoltare la nostra sete, la nostra fame, a mettere a fuoco, attraverso l’indigenza della nostra creaturalità, la verità di ciò per cui noi siamo stati desiderati e cogliere che c’è sempre uno scarto fra le dinamiche istintive del nostro sfamarci, dissetarci e tutto quello che ancora resta come incontenibile e insaziabile desiderio di una pienezza, per la quale è il Signore stesso, quale ingegnere dell’amore, ad aprire, in questo deserto, un canale il cui alveo (sia Lui benedetto con la sua misericordia!) dovrà diventare (pensate un po’!) il nostro cuore, che tanto assomiglia a un pozzo screpolato, le nostre arterie, le nostre vene, perché è quest’acqua buona, cari fratelli e sorelle, che è il segno semplice ed elementare grazie al quale accorgerci di essere importanti per Qualcuno, e questo Qualcuno ci dona ben poca cosa, che basti, tuttavia, a risvegliare questa consapevolezza qui. In questa esperienza tutta pasquale, cari fratelli e sorelle, Isaia non teme di associarci, niente di meno, che a sciacalli, struzzi e bestie selvatiche! Straordinaria, direi, la sfacciataggine di questo profeta, e tuttavia, se guardiamo in profondità nel nostro cuore, beato lo struzzo, beato lo sciacallo, beato l’animale selvatico che è nel mio cuore e che si prepara ad essere addomesticati da questa grazia, che non ci vorrà vedere addormentati in qualche gabbia, ma ristabiliti nella nostra pienezza, anche istintiva (sia chiaro), perché al Signore interessa la salvezza integrale del nostro essere persona umana. Ma questa grazia aprirà ogni gabbia, risveglierà ogni nostra tensione, ogni nostro desiderio, ogni nostra intelligenza e, finalmente, spalancandosi ogni cancello, cari fratelli e sorelle, disporrà tutto di noi ad una grande e irrefrenabile rincorsa verso il futuro. Così che ancora una volta mi piace dire queste cose in questa basilica oltraggiata da queste impalcature che, tuttavia, oggi mi ricordano le grate di una gabbia in cui ci siamo voluti conficcare nel laboratorio liturgico di San Miniato al Monte, per essere partecipi di una energia che l’amore del Padre, attraverso Gesù, dona alla nostra fame, alla nostra sete, ma finalmente queste gabbie si apriranno e comincerà quella che Paolo, con il suo lessico olimpionico, parla e definisce una corsa irrefrenabile: bellissimo, cari fratelli e sorelle, l’Apostolo!. Io me lo immagino come un uomo certamente di una certa età, ma ancora dalla muscolatura possente, dalla pelle provata dalla navigazione, dalle prove, dal carcere, con una fisicità che, come questo tempo che viviamo insieme nella divina liturgia, continua ad essere il luogo dell’esperienza teologica del mistero di Dio che parla anche attraverso i muscoli di Paolo, questo suo desiderio di rincorrere Cristo, proteso verso il futuro e, soprattutto, cari fratelli e sorelle (ed è qui che si gioca tutta la potenza già pasquale di questa divina liturgia), questa sua radicale disponibilità non ad una generica amnesia, che è l’altra faccia della stessa medaglia del benessere: le nostre amnesie, cari fratelli e sorelle, sono narcotizzare la memoria, in un certo senso depotenziarla, smontarla, depauperarla, per una sorta di narcosi, che renda sostenibile questo presente (il futuro neanche lo prendiamo in considerazione!); invece no! La dimenticanza di cui parla Paolo è funzionale allo stupore, alla meraviglia con la quale è, ancora una volta, Isaia a preparare il nostro sguardo a cose nuove, mai viste prima, che Lui prepara, indicando, così, nell’amore di Dio questo laboratorio portentoso di un tempo inimmaginabile, cari fratelli e sorelle, percepibile (torno a dirlo), da questa speciale specula, non perché noi siamo migliori dell’altro, ma perché qui, come accade in certe strumentazioni ottiche, accade il miracolo per cui torna ad essere visibile e desiderabile il futuro e, per accostarci, o meglio, lasciarci accostare al tempo che verrà, eccome se abbiamo bisogno di un altro capitolo della esigente ascesi quaresimale, quella che ci chiede di non restare immobilizzati in un ricordo ossessivo, maniacale, attraverso il quale pensare di poter tenere vivo ciò che ormai è passato, cercare di tenere attivi tutti i conti, tutti i registri, tutti i diritti e, conseguentemente, tutti i risentimenti e le rivendicazioni del passato: nulla di tutto questo! L’evento Pasquale, al quale ci stiamo ormai preparando, è davvero una strada che spiana tutto questo, ma lo spiana, cari fratelli e sorelle, non perché al Signore interessi che si sia persone di corte memorie, insensibili, al contrario, perché quello che a Lui preme è che il nostro cuore, cessando di essere pozzo screpolato, si prepari ad accogliere questa sovrabbondanza di grazia, questa novità, che la fede, che alimentiamo col dono dello Spirito, che l’amore, che corroboriamo lasciandoci perdonare nel conteggio mnemonico di tutte le nostre colpe fatte e subite, con la stessa misericordia del Padre, ci ridoni l’esperienza rinnovante, dissetante della gratuità del Suo amore, della Sua capacità di rimetterci in piedi, di trasformarci (lo abbiamo contemplato domenica scorsa col figliolo prodigo) da persone morte, che rinascono, e come oggi, da persone escluse, stracciate, vilipese per lo sguardo obliquo e in tralice di chi è stato abile a nascondere sotto la corteccia della propria insensibilità il proprio peccato, ed è pronto a proiettarlo su chi invece ha avuto la sventura di essere stato colto in fragrante, ed è questa sua esposizione ad attirare questo istintivo desiderio di vendetta, che vorrebbe vanamente trasformare la nostra debolezza in potenza, il nostro risentimento in affermazione di chissà quale ragione, la nostra inconsistenza in chissà quale retta giustizia. E su tutto questo, cari fratelli e sorelle, invece, l’ammirabile solitudine di Colui che resta solo con una donna alla quale restituisce la dignità di una parola e, soprattutto, come a noi stasera, una porta spalancata e una strada verso il futuro: “Va’, vai e non peccare più!”. Si inaugura oggi, per te e per noi, un tragitto che, come quello di Paolo, certamente non farà, per forza di cose, rotta attraverso la perfezione, ma riscopre la grazia di sentirci importanti per Colui che non desisterà mai dal lavorare sul nostro cuore, sui nostri pensieri e sui nostri desideri. Lo annuncia così Gesù, in questo dinamismo che lo porta dal monte degli Ulivi al cuore del tempio, di fronte al tempio, in un movimento che fu quello di Mosè sul monte, per poi scendere dal popolo e scrivere, su delle pietre, parole di una legge che, per la sua estrinsicità rispetto al nostro cuore, non è bastata a convertirlo. Oggi il Signore, per noi, scrive sulla sabbia, questa sabbia qui, parole che hanno un supporto dinamico e inconsistente, parole che però, proprio per questo, avranno la grazia di diventare vento col vento, e diventando vento col vento, mescolarsi con quello Spirito che, suggerendoci dal profondo del nostro cuore, avranno la possibilità, finalmente, di convertire i nostri cuori e di spalancare il nostro oggi al futuro della vita della vita, verso la morte della morte, nella gioia senza fine del suo regno. Amen!
Domenica 13 aprile 2025 – Domenica delle Palme (anno C) Liturgia eucaristica del mattino Prima lettura Dal libro del profeta Isaia (Is 50, 4-7)
Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo, perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato. Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come i discepoli. Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro. Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso.
Salmo Responsoriale Dal Salmo 21 (22) RIT: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Si fanno beffe di me quelli che mi vedono, storcono le labbra, scuotono il capo: «Si rivolga al Signore; lui lo liberi, lo porti in salvo, se davvero lo ama!». RIT: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Un branco di cani mi circonda, mi accerchia una banda di malfattori; hanno scavato le mie mani e i miei piedi. Posso contare tutte le mie ossa. RIT: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Si dividono le mie vesti, sulla mia tunica gettano la sorte. Ma tu, Signore, non stare lontano, mia forza, vieni presto in mio aiuto. RIT: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea. Lodate il Signore, voi suoi fedeli, gli dia gloria tutta la discendenza di Giacobbe, lo tema tutta la discendenza d’Israele. RIT: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
Seconda lettura Dalla lettera san Paolo apostolo ai Filippesi (Fil 2, 6-11)
Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre. Vangelo Dal Vangelo secondo Luca (Lc 22, 14 – 23, 56)
Passione di nostro Signore Gesù Cristo secondo Luca
– Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione Quando venne l’ora, [Gesù] prese posto a tavola e gli apostoli con lui, e disse loro: «Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, perché io vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio». E, ricevuto un calice, rese grazie e disse: «Prendetelo e fatelo passare tra voi, perché io vi dico: da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non verrà il regno di Dio».
– Fate questo in memoria di me Poi prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: «Questo è il mio corpo, che è dato per voi; fate questo in memoria di me». E, dopo aver cenato, fece lo stesso con il calice dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che è versato per voi». – Guai a quell’uomo dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito! «Ma ecco, la mano di colui che mi tradisce è con me, sulla tavola. Il Figlio dell’uomo se ne va, secondo quanto è stabilito, ma guai a quell’uomo dal quale egli viene tradito!». Allora essi cominciarono a domandarsi l’un l’altro chi di loro avrebbe fatto questo. – Io sto in mezzo a voi come colui che serve E nacque tra loro anche una discussione: chi di loro fosse da considerare più grande. Egli disse: «I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno potere su di esse sono chiamati benefattori. Voi però non fate così; ma chi tra voi è più grande diventi come il più giovane, e chi governa come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve. Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove e io preparo per voi un regno, come il Padre mio l’ha preparato per me, perché mangiate e beviate alla mia mensa nel mio regno. E siederete in trono a giudicare le dodici tribù di Israele. – Tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli Simone, Simone, ecco: Satana vi ha cercati per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli». E Pietro gli disse: «Signore, con te sono pronto ad andare anche in prigione e alla morte». Gli rispose: «Pietro, io ti dico: oggi il gallo non canterà prima che tu, per tre volte, abbia negato di conoscermi». – Deve compiersi in me questa parola della Scrittura Poi disse loro: «Quando vi ho mandato senza borsa, né sacca, né sandali, vi è forse mancato qualcosa?». Risposero: «Nulla». Ed egli soggiunse: «Ma ora, chi ha una borsa la prenda, e così chi ha una sacca; chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una. Perché io vi dico: deve compiersi in me questa parola della Scrittura: “E fu annoverato tra gli empi”. Infatti tutto quello che mi riguarda volge al suo compimento». Ed essi dissero: «Signore, ecco qui due spade». Ma egli disse: «Basta!». – Entrato nella lotta, pregava più intensamente Uscì e andò, come al solito, al monte degli Ulivi; anche i discepoli lo seguirono. Giunto sul luogo, disse loro: «Pregate, per non entrare in tentazione». Poi si allontanò da loro circa un tiro di sasso, cadde in ginocchio e pregava dicendo: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà». Gli apparve allora un angelo dal cielo per confortarlo. Entrato nella lotta, pregava più intensamente, e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadono a terra. Poi, rialzatosi dalla preghiera, andò dai discepoli e li trovò che dormivano per la tristezza. E disse loro: «Perché dormite? Alzatevi e pregate, per non entrare in tentazione». – Giuda, con un bacio tu tradisci il Figlio dell’uomo? Mentre ancora egli parlava, ecco giungere una folla; colui che si chiamava Giuda, uno dei Dodici, li precedeva e si avvicinò a Gesù per baciarlo. Gesù gli disse: «Giuda, con un bacio tu tradisci il Figlio dell’uomo?». Allora quelli che erano con lui, vedendo ciò che stava per accadere, dissero: «Signore, dobbiamo colpire con la spada?». E uno di loro colpì il servo del sommo sacerdote e gli staccò l’orecchio destro. Ma Gesù intervenne dicendo: «Lasciate! Basta così!». E, toccandogli l’orecchio, lo guarì. Poi Gesù disse a coloro che erano venuti contro di lui, capi dei sacerdoti, capi delle guardie del tempio e anziani: «Come se fossi un ladro siete venuti con spade e bastoni. Ogni giorno ero con voi nel tempio e non avete mai messo le mani su di me; ma questa è l’ora vostra e il potere delle tenebre». – Uscito fuori, Pietro, pianse amaramente Dopo averlo catturato, lo condussero via e lo fecero entrare nella casa del sommo sacerdote. Pietro lo seguiva da lontano. Avevano acceso un fuoco in mezzo al cortile e si erano seduti attorno; anche Pietro sedette in mezzo a loro. Una giovane serva lo vide seduto vicino al fuoco e, guardandolo attentamente, disse: «Anche questi era con lui». Ma egli negò dicendo: «O donna, non lo conosco!». Poco dopo un altro lo vide e disse: «Anche tu sei uno di loro!». Ma Pietro rispose: «O uomo, non lo sono!». Passata circa un’ora, un altro insisteva: «In verità, anche questi era con lui; infatti è Galileo». Ma Pietro disse: «O uomo, non so quello che dici». E in quell’istante, mentre ancora parlava, un gallo cantò. Allora il Signore si voltò e fissò lo sguardo su Pietro, e Pietro si ricordò della parola che il Signore gli aveva detto: «Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte». E, uscito fuori, pianse amaramente. – Fa’ il profeta! Chi è che ti ha colpito? E intanto gli uomini che avevano in custodia Gesù lo deridevano e lo picchiavano, gli bendavano gli occhi e gli dicevano: «Fa’ il profeta! Chi è che ti ha colpito?». E molte altre cose dicevano contro di lui, insultandolo. – Lo condussero davanti al loro Sinedrio Appena fu giorno, si riunì il consiglio degli anziani del popolo, con i capi dei sacerdoti e gli scribi; lo condussero davanti al loro Sinedrio e gli dissero: «Se tu sei il Cristo, dillo a noi». Rispose loro: «Anche se ve lo dico, non mi crederete; se vi interrogo, non mi risponderete. Ma d’ora in poi il Figlio dell’uomo siederà alla destra della potenza di Dio». Allora tutti dissero: «Tu dunque sei il Figlio di Dio?». Ed egli rispose loro: «Voi stessi dite che io lo sono». E quelli dissero: «Che bisogno abbiamo ancora di testimonianza? L’abbiamo udito noi stessi dalla sua bocca». – Non trovo in quest’uomo alcun motivo di condanna Tutta l’assemblea si alzò; lo condussero da Pilato e cominciarono ad accusarlo: «Abbiamo trovato costui che metteva in agitazione il nostro popolo, impediva di pagare tributi a Cesare e affermava di essere Cristo re». Pilato allora lo interrogò: «Sei tu il re dei Giudei?». Ed egli rispose: «Tu lo dici». Pilato disse ai capi dei sacerdoti e alla folla: «Non trovo in quest’uomo alcun motivo di condanna». Ma essi insistevano dicendo: «Costui solleva il popolo, insegnando per tutta la Giudea, dopo aver cominciato dalla Galilea, fino a qui». Udito ciò, Pilato domandò se quell’uomo era Galileo e, saputo che stava sotto l’autorità di Erode, lo rinviò a Erode, che in quei giorni si trovava anch’egli a Gerusalemme. – Erode con i suoi soldati insulta Gesù Vedendo Gesù, Erode si rallegrò molto. Da molto tempo infatti desiderava vederlo, per averne sentito parlare, e sperava di vedere qualche miracolo fatto da lui. Lo interrogò, facendogli molte domande, ma egli non gli rispose nulla. Erano presenti anche i capi dei sacerdoti e gli scribi, e insistevano nell’accusarlo. Allora anche Erode, con i suoi soldati, lo insultò, si fece beffe di lui, gli mise addosso una splendida veste e lo rimandò a Pilato. In quel giorno Erode e Pilato diventarono amici tra loro; prima infatti tra loro vi era stata inimicizia. – Pilato abbandona Gesù alla loro volontà Pilato, riuniti i capi dei sacerdoti, le autorità e il popolo, disse loro: «Mi avete portato quest’uomo come agitatore del popolo. Ecco, io l’ho esaminato davanti a voi, ma non ho trovato in quest’uomo nessuna delle colpe di cui lo accusate; e neanche Erode: infatti ce l’ha rimandato. Ecco, egli non ha fatto nulla che meriti la morte. Perciò, dopo averlo punito, lo rimetterò in libertà». Ma essi si misero a gridare tutti insieme: «Togli di mezzo costui! Rimettici in libertà Barabba!». Questi era stato messo in prigione per una rivolta, scoppiata in città, e per omicidio. Pilato parlò loro di nuovo, perché voleva rimettere in libertà Gesù. Ma essi urlavano: «Crocifìggilo! Crocifìggilo!». Ed egli, per la terza volta, disse loro: «Ma che male ha fatto costui? Non ho trovato in lui nulla che meriti la morte. Dunque, lo punirò e lo rimetterò in libertà». Essi però insistevano a gran voce, chiedendo che venisse crocifisso, e le loro grida crescevano. Pilato allora decise che la loro richiesta venisse eseguita. Rimise in libertà colui che era stato messo in prigione per rivolta e omicidio, e che essi richiedevano, e consegnò Gesù al loro volere. – Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me Mentre lo conducevano via, fermarono un certo Simone di Cirene, che tornava dai campi, e gli misero addosso la croce, da portare dietro a Gesù. Lo seguiva una grande moltitudine di popolo e di donne, che si battevano il petto e facevano lamenti su di lui. Ma Gesù, voltandosi verso di loro, disse: «Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli. Ecco, verranno giorni nei quali si dirà: “Beate le sterili, i grembi che non hanno generato e i seni che non hanno allattato”. Allora cominceranno a dire ai monti: “Cadete su di noi!”, e alle colline: “Copriteci!”. Perché, se si tratta così il legno verde, che avverrà del legno secco?». Insieme con lui venivano condotti a morte anche altri due, che erano malfattori. – Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno Quando giunsero sul luogo chiamato Cranio, vi crocifissero lui e i malfattori, uno a destra e l’altro a sinistra. Gesù diceva: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno». Poi dividendo le sue vesti, le tirarono a sorte. – Costui è il re dei Giudei Il popolo stava a vedere; i capi invece lo deridevano dicendo: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto». Anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell’aceto e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». Sopra di lui c’era anche una scritta: «Costui è il re dei Giudei». – Oggi con me sarai nel paradiso Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». L’altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male». E disse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso». – Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito Era già verso mezzogiorno e si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio, perché il sole si era eclissato. Il velo del tempio si squarciò a metà. Gesù, gridando a gran voce, disse: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». Detto questo, spirò. Visto ciò che era accaduto, il centurione dava gloria a Dio dicendo: «Veramente quest’uomo era giusto». Così pure tutta la folla che era venuta a vedere questo spettacolo, ripensando a quanto era accaduto, se ne tornava battendosi il petto. Tutti i suoi conoscenti, e le donne che lo avevano seguito fin dalla Galilea, stavano da lontano a guardare tutto questo. – Giuseppe pone il corpo di Gesù in un sepolcro scavato nella roccia Ed ecco, vi era un uomo di nome Giuseppe, membro del Sinedrio, buono e giusto. Egli non aveva aderito alla decisione e all’operato degli altri. Era di Arimatèa, una città della Giudea, e aspettava il regno di Dio. Egli si presentò a Pilato e chiese il corpo di Gesù. Lo depose dalla croce, lo avvolse con un lenzuolo e lo mise in un sepolcro scavato nella roccia, nel quale nessuno era stato ancora sepolto. Era il giorno della Parascève e già splendevano le luci del sabato. Le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea seguivano Giuseppe; esse osservarono il sepolcro e come era stato posto il corpo di Gesù, poi tornarono indietro e prepararono aromi e oli profumati. Il giorno di sabato osservarono il riposo come era prescritto.
OMELIA Cari fratelli e sorelle, mai come in questa domenica la liturgia slabbra sé stessa per arrivare a includere ciascuno di noi, il nostro stato d’animo, le nostre emozioni, l’intelligenza della nostra fede, nel cuore del suo mistero, per arrivare a donarci la percezione che questa nostra lacerata storia è letteralmente circondata dalla storia di lacerazione del Signore Gesù. Tutto di noi, oggi, è autenticamente racchiuso nello svolgimento misterioso, lento, solenne e sofferto, di parole, di movimenti, di tributi, ma anche di tradimenti, di rassegnazioni, di paure, di infingimenti, di affettività epidemica, di fedeltà negata, di assopimenti, di bruschi risvegli: una serie incalcolabile di dinamiche, cari fratelli e sorelle, che voi avete accolto, lasciandovi accogliere dal cuore performante della divina liturgia, avendo ognuno di noi subìto, a fronte di questo lungo ascolto così esigente, una vera e propria guarigione del nostro orecchio, come l’ha ricevuta colui al quale era stato staccato, in un gesto di banale vendetta, che l’amore e la misericordia del Padre Celeste, attraverso Gesù, non potevano certo sopportare. A nessuno il Signore nega la possibilità di tornare in ascolto della Sua Parola, anche dall’estremo della sua abiezione, della sua distanza, della sua durezza, della sua indisponibilità, sempre lo Spirito è pronto a circoncidere l’orecchio del nostro cuore, perché si riapra a uno spiraglio di fede, e cioè di relazione, con un amore che attende solo e soltanto di essere amato e riconosciuto, come accade attraverso questa divina liturgia, quale il vero protagonista della storia del Signore Gesù. Ed è per questo che la liturgia ci accoglie, cari fratelli e sorelle, per qualificare la nostra contemplazione della storia, quella che, altrimenti, è realmente costretta a lamentare una costante crisi, un depotenziamento, uno squalificarsi di tutto quello che si oppone alle, per altro, ragionevoli e legittime aspettative di tutti noi e, soprattutto, dei nostri giovani, in particolare (lasciatemelo dire), ai pochi ma, proprio per questo, preziosissimi giovani in mezzo a noi: a loro una parola di incoraggiamento a non allinearsi alle fosche diagnosi che paiono sancire, senza appello, lo squalificarsi della nostra vicenda umana e il suo folle consegnarsi a logiche di guerra. Per questo avrà, credo, ben interpretato l’invito del Signore Gesù: chi non ha mantello se lo procuri e chi non ha spada pure ne prenda possesso, ma attenzione a quanti, immediatamente, offrono addirittura due spade al Signore Gesù. Subito la sua risposta: “Non voglio quella spada lì!”. Ma allora di quale spada ci chiede il Signore Gesù di dotarci? Qual è l’esperienza con la quale essere con Lui, obbedienti alla Sua parola, che pure (ormai lo sappiamo e oggi lo verifichiamo) è parola tagliente, che scuce, che separa, che ferisce? Io credo sia quella spada che diventa lo stesso corpo del Signore Gesù, un corpo che si rende disponibile, cari fratelli e sorelle, a diventare, dopo tanta esperienza, donazione e magistero di coesione, di unificazione, di correlazione, quel corpo, da stamani in poi, per tutta questa settimana, è disponibile a diventare luogo di lacerazione lui stesso, di ferita, di separazione, di rottura delle relazioni, anzitutto col Padre Suo Celeste, con la forza dirompente dello Spirito Santo, dal quale Egli si allontana, non certo per sfiducia, non certo per disobbedienza, ma per vivere fino in fondo quello che abbiamo tentato di evocare, velando i corpi crocifissi delle nostre croci, cioè entrando Lui stesso, sole, datore di vita, in un’eclissi, per vivere, fino in fondo, l’oscurità delle nostre separazioni, delle nostre lacerazioni, degli effetti delle nostre spade, delle nostre contrapposizioni, lì si immerge il Signore. E vi si immerge, cari fratelli e sorelle, per concludere, in un’esperienza che pure questa liturgia ha tentato di comunicare ai nostri cuori: direi una doppia tempistica, difficile da percepire, ma credo necessaria da cogliere: anzitutto, torno a dirlo, questa lentezza, anche la sceneggiatura di questa lunga passione ha contribuito a centellinare, distillare questi tempi lenti (lo ritorno a dire) di tradimento, di separazione, di infedeltà, di ferita, di morte; una lentezza che corrisponde, in pienezza, cari fratelli e sorelle, alla nostra decifrazione sofferta di una storia che sembra non condurci verso alcun luogo di salvezza. E il Signore, eclissandosi nell’oscurità del nostro male, sembra acconsentire a tanta lentezza, ma non ci dimentichiamo, d’altra parte, come Egli abbia esordito coi suoi parlando di desiderio e di desiderio incontenibile, e di desiderio di celebrare qualcosa di quella Pasqua che troverà, attraverso l’Eucaristia, il suo pieno compimento alla fine dei tempi, immettendo così, con la forza del suo desiderio, una propulsione incontenibile di amore che, come fiume carsico, attraversa, cari fratelli e sorelle, purificandoli come linfa intatta e verginale di bellezza, di innocenza e di bontà, i tempi lenti, ripetitivi, massacranti, che in superficie avviluppano di sé la nostra libertà, la nostra coscienza, la nostra dignità. Anche per questo è fondamentale (torno a dirlo), cari fratelli e sorelle, la nostra vita liturgica, questo nostro lasciarci scuotere, domenica dopo domenica, dalla propulsione che scaturisce, direi, quasi da sottoterra, come scossa sismica che non distrugge, ma, anzi, restituisce a noi la percezione di una amabilità, senza la quale, davvero, dovremmo dare ragione a chi sfigura in un “tanto peggio, tanto meglio” la dignità della nostra condizione umana, il suo ineliminabile e difficile, ma nello stesso tempo, responsabilizzante proscenio storico, dove ciascuno di noi è chiamato a fare la sua parte. Ed è questa l’ultimissima considerazione: è soprattutto Luca l’Evangelista, che insiste con quel greco de^î, “occorre”, “bisogna che”, “è scritto che”: uno svolgimento dentro il quale il Signore Gesù pone la sua vita, la sua libertà, il suo corpo, la sua anima, i suoi desideri, ma attenzione, cari fratelli e sorelle, non per soggiacere a una cieca fatalità, a un cieco destino: è quello che a noi sembra quando, inconsapevolmente, bestemmiamo la libertà di Dio e la nostra libertà, arrivando a dire: “Era scritto così, è fatalità che accada questo”. Ma dove, ma quando, se noi crediamo al Cristo morto e risorto per libertà di amore, immettendo nella nostra storia una libertà inaudita? Nessun libro scritto da alcuno, cari fratelli e sorelle, è il copione cui soggiacere, ma solo e soltanto sentirci parte di una storia di liberazione e, dunque, di amore protagonista di una Pasqua che costa carissima al Signore, arrivando a spezzare con il suo sangue, con i suoi denti, non con spada umana, quelle catene che tengono noi prigionieri delle nostre anguste visuali, dei nostri piccoli conti, delle nostre modestissime letture provvidenzialistiche. Allora, cari fratelli e sorelle, davvero, anche grazie a questa lunga partecipazione a una liturgia che scuce se stessa per sentirci parte di questa libera storia di un amore incondizionato e incondizionabile, pronti tutti noi, lo dicevo all’inizio, a far gridare le pietre, a far rincorrere i puledri, ad invadere, per ben altro palio, le strade della nostra città, portando in corsa il trofeo di una liberazione che ha per protagonista l’amore del Signore Gesù, che sembra, sembra contrarsi nelle maglie strette della nostra sofferenza, ma al contrario, esattamente per divaricarla, scucirla e scatenarla! Ci sia dunque nel nostro cuore questo impeto di libertà e di amore, senza il quale non gusteremmo, non assaggeremmo, non digeriremmo e, soprattutto, non metabolizzeremmo tutto il succo di vita, di libertà e di amore che questi santissimi giorni, che stanno iniziando col frutto buono del Signore appeso sull’albero della vita, stanno per donarci, perché quando arriverà l’ora della nostra tenebra, la luce incontenibile dell’amore del Padre saprà spaccare quelli che saranno i nostri sepolcri e quello che, fin d’ora, è già il condizionamento del male e del peccato che la misericordia del Signore dissolve, per darci via libera a tutto quello che ancora riconduce i nostri cuori, la nostra intelligenza, alla libera e liberante libertà del suo amore. Amen!
Trascrizione a cura di Stefania Ruggiero Obl OSB
La fotografia è stata scattata in Kuwait nel 1991 da Sebastião Salgado
24 Febbraio 2025 Omelia del padre abate Bernardo per le esequie di Cristina, oblata benedettina secolare Dal Vangelo secondo Giovanni In quel giorno Gesù, portando la croce, si avviò verso il luogo del Cranio, detto in ebraico Golgota, dove lo […]
Lunedì 6 gennaio 2025 Epifania del Signore – Solennità (anno C) Celebrazione eucaristica delle ore 11:30 Professione monastica solenne di dom. Colombano Maria e di dom. Fernando Maria Prima lettura Dal libro del profeta Isaia (Is 60, 1-6 ) Àlzati, rivestiti […]
25 dicembre 2024 – Natale del Signore – Messa della Notte – Solennità – Prima lettura Dal del profeta Isaia (Is 9, 1-3. 5-6) Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce; su coloro che abitavano […]