«Verso San Miniato al Monte, elettrizzati dal futuro di Cristo». Omelia del padre abate Bernardo per la XXII Domenica del Tempo Ordinario
Domenica 28 agosto 2022 – XXII Domenica del Tempo Ordinario
Dal libro del Siràcide
Figlio, compi le tue opere con mitezza,
e sarai amato più di un uomo generoso.
Quanto più sei grande, tanto più fatti umile,
e troverai grazia davanti al Signore.
Molti sono gli uomini orgogliosi e superbi,
ma ai miti Dio rivela i suoi segreti.
Perché grande è la potenza del Signore,
e dagli umili egli è glorificato.
Per la misera condizione del superbo non c’è rimedio,
perché in lui è radicata la pianta del male.
Il cuore sapiente medita le parabole,
un orecchio attento è quanto desidera il saggio.
Dalla lettera agli Ebrei
Fratelli, non vi siete avvicinati a qualcosa di tangibile né a un fuoco ardente né a oscurità, tenebra e tempesta, né a squillo di tromba e a suono di parole, mentre quelli che lo udivano scongiuravano Dio di non rivolgere più a loro la parola.
Voi invece vi siete accostati al monte Sion, alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a migliaia di angeli, all’adunanza festosa e all’assemblea dei primogeniti i cui nomi sono scritti nei cieli, al Dio giudice di tutti e agli spiriti dei giusti resi perfetti, a Gesù, mediatore dell’alleanza nuova.
Dal Vangelo secondo Luca
Avvenne che un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo.
Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cèdigli il posto!”. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato».
Disse poi a colui che l’aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».
Omelia:
Cari fratelli e sorelle, sento importante che situiamo la parola che abbiamo ascoltato nella esperienza di mistero che insieme stiamo facendo, e d’altra parte è importante situare l’esperienza di mistero che stiamo facendo dentro la parola che abbiamo proclamato.
Non è un banale gioco di specchi, ma è l’accesso ad una comprensione, credo più profonda e feconda, di una parola che a prima vista potrebbe sembrare poco più che un codice di buona educazione, di cortesia, ma che in realtà la nostra perseverante attitudine al Vangelo svela essere l’indicazione di qualcosa di più profondamente esistenziale che va bene al di là della formalità di pur raccomandabili maniere con le quali essere all’altezza delle aspettative di una società, che spesso fa dell’etichetta e dei formalismi la dimensione con la quale disimpegnarci da quel lavorio insonne di conversione del cuore la cui portata di eccedenza va oltre, oltre i nostri codici di esteriori formalità.
E dunque perché non sentirci, noi, adesso, partecipi di un banchetto sponsale? Perché non sentirci invitati, proprio noi, adesso, ad una esperienza che rinnova, radica, o addirittura inaugura il proprio della sponsalità che è l’alleanza, l’alleanza dell’amore di Dio che sceglie un popolo cui legarsi per sempre nella gratuità di un amore che va oltre il nostro metodo, le nostre capacità, le nostre certezze, oltre a tutte le nostre formalità.
Sentire cioè che siamo noi gli invitati, fratelli e sorelle, da questa espansione indomita dell’amore di Dio, nella sua portata radicalmente inclusiva che finalmente, dopo tante forze contrastanti di dissipazione e frammentazione, che abbiamo dovuto subire lungo i sei giorni di questa settimana, ora finalmente, nel primo giorno della nuova settimana, sentiamo che un amore ci abbraccia, ci riconduce ad una sorgente, dalla sensazione di aver perso la direzione del nostro cammino, la possibilità di intuire un principio e un fine e questa intuizione si colloca nella consapevolezza di essere per l’appunto noi i convocati dall’amore sponsale del Signore, ovunque Egli ci abbia trovati, anzi preferibilmente egli ci cerca nelle periferie, nelle marginalità che sono i percorsi e le disavventure del nostro cuore errante, nella nostra inquietudine, nella nostra convinzione che forse l’unico modo per sfuggire alle forze di dissipazione e frammentazione sta la mia personale, soggettiva, rivendicazione di una originalità a tutti costi del mio percorso, poco importa se così dimentico gli altri, dimentico l’amore che sta come anteriorità della mia vita, poco importa se addirittura dimentico me stesso, ciò che conta è camminare attraverso un percorso di radicale assolutezza della mia pretesa di distinguermi dall’altro e per nutrire questa convinzione diventa quasi un male sociale, un’epidemia sociale, una pandemia dei nostri cuori, l’assolutizzare il mio io, sottoposto, come oggettivamente è sottoposto, a tante forze contrastanti, minacciose, distruttive.
È un tentativo di rilettura, forse discutibile di questo atteggiamento di cui ci parla così lucidamente soprattutto la grande tradizione sapienziale biblica che è riecheggiata nella prima lettura che a un certo punto pronuncia con grande chiarezza: “grande è la potenza del Signore, e dagli umili egli è glorificato”.
Ma chi oggi ha tempo per riconoscere la grandezza e la potenza del Signore? Chi ha ancora svegli i sensi spirituali per accordare al Signore questo primato?
Oso dirvi, fratelli e sorelle, senza voler scandalizzare e sconcertare nessuno, che nella nostra cultura, anche se ci diciamo e dobbiamo e possiamo, grazie a Dio, dirci credenti, anche nei nostri cuore la fede vive una dimensione di oppressione, si direbbe davvero di malnutrizione, perché ci è difficile, profondamente difficile, con un cuore libero e un’intelligenza ardente accordare nei sei giorni della nostra dispersione settimanale la potenza che Dio pure ha. E noi siamo costantemente distratti dalle mille e mille altre potenze, alternative che la fanno da padroni sullo scenario di questo mondo, la potenza dei politici, la potenza delle armi, la potenza delle grandi società che regolano il mercato, tutto quello cioè che ci sembra di fatto governare la storia, e poi scendendo nel nostro più personale questo apparentemente inarrestabile, invincibile, dispiegarsi del male, sotto molteplici forme, dal male meteorologico al male che aggredisce le nostre cellule, minaccia le nostre relazioni, disgrega i nostri progetti futuri, indebolisce la nostra speranza, indebolisce il nostro amore.
Queste sono le potenze che giorno dopo giorno ci sembrano veramente invincibili e indomite e dobbiamo fare i conti con questa percezione si direbbe secolaristica, non secolare, secolaristica, della realtà. Ve la sottopongo fratelli e sorelle proprio perché rinasca in tutti noi la percezione liberante che, anche se per sei giorni abbiamo badato molto più alle potenze di cui ci parlano i giornali, in realtà c’è uno spicchio del nostro cuore, della nostra intelligenza che lo Spirito Santo ha tenuto desto che ci fa e ci ha fatto avvicinare e torno ad usare queste meravigliose immagini della Lettera agli Ebrei : “non a qualcosa di tangibile né a un fuoco ardente né a oscurità, tenebra e tempesta, né a squillo di tromba e a suono di parole”. Qui la Lettera agli Ebrei si riferisce a tutta l’economia dell’antica e prima alleanza, quella stipulata con questi segni fortissimi attraverso i quali il Signore ribadiva a Israele quale fosse, chi fosse, la vera potenza della storia e nella storia, era necessario, Israele usciva dall’Egitto, sentiva su di sé l’oppressione subita attraverso i mattoni delle piramidi da costruire, su quella montagna, in quella esperienza fortissima pur nell’invisibilità della sorgente, si faceva esperienza di una potenza altra, liberante, in una dialettica nettissima i cui contrasti oggi però ci sfuggono.
Noi siamo in una società dalle tinte più che sfumate, dagli acquerelli ormai scialbi e dunque questi contrasti, queste dialettiche ci sfuggono, non appartengono alla nostra metodologia di analisi del reale e di sviluppo del pensiero. E quindi viviamo in questa situazione che menti astute, per governarci e mortificarci meglio, contengono in questa dimensione di melassa, ma finalmente arriva la Domenica, almeno per noi che abbiamo la fortuna di riconoscerla come un taglio netto nella successione apparentemente indomita di questo tempo che scorre senza qualità e non a caso sono le stesse astute intelligenze e potenze a fare di tutto perché non ci si accorga più della qualità altra della domenica.
E noi fratelli e sorelle invece in questa esperienza pasquale possiamo riconoscere che esiste una liberazione da questa melassa, che non è nemmeno più la liberazione potente, impetuosa, terrificante, oggettivamente sconvolgente, dell’antica alleanza: “quelli che udivano tutto questo scongiuravano Dio di non rivolgere più loro la sua parola”.
Incredibile questa affermazione, mette in luce proprio tutta una economia di potenza nella gloria di Dio, di fronte alla quale nemmeno possiamo sostenere la sua parola. Noi invece siamo qui, fratelli e sorelle, perché abbiamo ascoltato e vogliamo continuare ad ascoltare invece l’invito che il Signore ha fatto a ciascuno di noi passando di vita in vita, di cuore in cuore, di famiglia in famiglia, di casa in casa, di dispersione in dispersione, di marginalità in marginalità, chiamando ciascuno di noi, ovunque egli ci ha trovato per essere partecipi di questo movimento finalmente centripeto che riposiziona le nostre esistenze sconvolte e disperse in questo epicentro di grazia che Ebrei descrive con immagini che sono familiari, almeno per voi che frequentate San Miniato: il Monte Sion, la città del Dio vivente, la Gerusalemme celeste, le migliaia di angeli, l’adunanza festosa, l’assemblea dei primogeniti i cui nomi sono scritti nei cieli, il Dio giudice di tutti gli spiriti dei giusti resi perfetti e finalmente Gesù mediatore dell’alleanza nuova.
“Voi invece vi siete accostati al monte Sion, alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a migliaia di angeli, all’adunanza festosa e all’assemblea dei primogeniti i cui nomi sono scritti nei cieli, al Dio giudice di tutti e agli spiriti dei giusti resi perfetti, a Gesù, mediatore dell’alleanza nuova”.
Quando vi dicono: -Ma che ci andate a fare alla Messa voi? A perder tempo, a sentire le nevrosi di qualche prete arrabbiato o rassegnato.
Voi dovete rispondere: -Noi andiamo perché ci è dato di contemplare tutto questo.
Perché questo è veramente, fratelli e sorelle, il contenuto, l’esperienza che il risveglio dei nostri sensi spirituali ci permette di contemplare in quello che è questa esperienza dello Spirito che fluisce nella storia , attraverso l’amore, la grazia del Figlio per volontà del Padre celeste.
E strapparci così da questa melassa indistinta, la società liquida come i sociologi più avvertiti la chiamano, un tempo senza qualità, la dittatura dell’incerto presente, cioè tutto quello fratelli e sorelle che contribuisce, direi inevitabilmente, a ispessire e innalzare il nostro io come tentativo titanico, e dunque fallimentare, di emergere da questo senso di nientificazione della realtà. Per questo non starò a farvi la morale sui presuntuosi, sui superbi, su coloro cioè che credono di essere migliori dell’altro, certo che è una prospettiva non sapiente , certo che è una prospettiva al limite del ridicolo, certo che è preferibile la lucidità del salmista: “anche il giusto pecca sette volte al giorno”. Certo che questo nostro itinerario liturgico ed esistenziale nel farci sentire invitati, non per i nostri meriti, ma per questo scenario di grazia che si schiude prodigiosamente e con stupore ai nostri occhi, ci fa sentire tutti senza merito partecipi di questa grazia, ma quello che più mi interessa dirvi è che davvero la superbia è una malattia sociale, davvero dobbiamo sentirci tutti più o meno contaminati da questa patetico, ma comprensibile, umanamente comprensibile, tentativo di sottrarci a questa melassa indistinta.
Ed invece fratelli e sorelle ci è dato molto di più, ci è data questa festa di gratuità di cui il Signore oggi ci parla avvertendo che la priorità è data a ciechi, zoppi, a tutti coloro che niente possono darci in cambio, svelando così una verità propria del mio e del nostro cuore, cosa noi possiamo restituire al Signore di fronte a tanta grazia, dove sta la moneta di scambio che non sia l’amore stesso col quale e del quale, sentendoci amati, altro non possiamo fare che riversare a nostra volta, uscendo da categorie commerciali, mercantili, valutative, quantificate, nel segno di una incommensurabilità fratelli e sorelle che rappresenta esattamente come la liturgia uno squarcio che finalmente apre al futuro, perché questo a noi credenti nel Vangelo interessa sommamente, fratelli e sorelle, tutta la vita in Cristo se non è orientata, agguantata, calamitata dal futuro non è vita cristiana, è una vita archeologica, una vita dialetticamente e ossessivamente impegnata a fare, come ci insegna Cicerone, della storia passata la maestra della nostra vita e cercare noi di fare meglio di chi ci ha preceduto, semmai ci riusciamo e come vedete si ricasca nell’idolo della presunzione, unica via per ergerci sopra un tempo che ci consuma. E invece no. Noi siamo attratti dal futuro, senza merito perché è proprio dell’amore attrarci nel suo futuro che poi altro non è se non il Padre.
Di questa tensione escatologica la liturgia è elettrizzata fratelli e sorelle, il mistero della fede: “Annunciamo la tua morte o Signore, proclamiamo la tua resurrezione….” –diciamolo insieme: “nell’attesa della tua venuta”.
Nell’attesa della tua venuta. Un esempio tra tanti, fratelli e sorelle.
E l’altro squarcio, accanto a quello liturgico, è quello esistenziale, non meno importante, perché la liturgia non ci serve per farci fare l’esperienza nirvana del sabato sera e fumati, dopo una mattinata a letto di domenica, proviamo a rivivere di questo rimpianto onirico e chimico e affrontare i nuovi giorni. Non è questo. La liturgia non è uno sballo, è un codice simbolico dall’altissima pregnanza che è capace così di ingravidare i giorni che vengono e renderli affrontabili con quello che questo codice ci ha insegnato, in termini di gratuità, di visione, di mistero, di eccedenza, in una parola: “invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti”.
Sentite che bellezza fratelli e sorelle? Cioè nella misura in cui tu entri in questa dinamica di gratuità, tu già finalmente contempli un futuro nel quale l’amore del Padre, la forza dello Spirito e la mano forte del Cristo ti introduce, perché tu senta già il sapore del futuro del paradiso che è un sapore fatto di gratuità , è un sapore fatto di nozze di sponsalità, di festa senza fine ed è così che finalmente questi nostri poveri giorni così sfilacciati, riscoprono la bellezza dell’essere alleanza, dell’avere dall’altra parte della storia non un Dio che ci pone condizioni pesantissime da stipulare, ma che ci invita col canto melodioso di una liturgia che sgorga da una Basilica millenaria, posta su un monte, con l’attrattiva di una città bellissima dentro la quale entrare, riscoprire la radice del nostro vivere e, riscoperta la radice del nostro vivere, uscirne per essere frutto buono per la vita di molti. Amen!
La trascrizione è a cura di Grazia Collini