Omelie

«Per “un cuore più luminoso di ogni ombra”: perdono, umiltà, obbedienza alla sinfonica armonia del cosmo». Omelia del padre abate Bernardo per la XXIV Domenica del Tempo Ordinario

Domenica 17 settembre 2023 – XXIV Domenica del Tempo Ordinario

 

Colletta

O Dio, che ami la giustizia e ci avvolgi di perdono,
crea in noi un cuore puro a immagine del tuo Figlio,
un cuore più grande di ogni offesa,
più luminoso di ogni ombra,
per ricordare al mondo il tuo amore senza misura.

 

Dal libro del Siràcide
Rancore e ira sono cose orribili,
e il peccatore le porta dentro.
Chi si vendica subirà la vendetta del Signore,
il quale tiene sempre presenti i suoi peccati.
Perdona l’offesa al tuo prossimo
e per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati.
Un uomo che resta in collera verso un altro uomo,
come può chiedere la guarigione al Signore?
Lui che non ha misericordia per l’uomo suo simile,
come può supplicare per i propri peccati?
Se lui, che è soltanto carne, conserva rancore,
come può ottenere il perdono di Dio?
Chi espierà per i suoi peccati?
Ricòrdati della fine e smetti di odiare,
della dissoluzione e della morte e resta fedele ai comandamenti.
Ricorda i precetti e non odiare il prossimo,
l’alleanza dell’Altissimo e dimentica gli errori altrui.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore.
Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore.
Per questo infatti Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi.

Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.
Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito.
Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito.
Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto.
Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».

Omelia:

“Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”.

Credo che questa affermazione che più che una preghiera è una sorta di illusoria promessa, ci aiuti a cogliere il contesto esistenziale, si direbbe così oggi, di questa pagina di Vangelo, a fronte di questo debito iperbolico, diecimila talenti, una cifra  che a noi non dice molto, ma che dovremmo immaginare, per obbedienza alla lettera di questa pagina evangelica, una cifra appunto iperbolica, oltre ogni oltre, e che segnala che qui non è in gioco una quantità, più o meno misurabile, dunque più o meno restituibile ma qui è in gioco fratelli e sorelle, il mistero stesso della vita

Dunque ancora una volta siamo invitati dallo Spirito ad accogliere il Vangelo, non in una prospettiva semplicemente morale, pratica, etica, certo una pagina di questa portata ha ovviamente e deve avere delle conseguenze comportamentali, ma anzitutto è illuminazione del mistero del nostro esserci, così credo debba essere sempre letto il Vangelo, in modo particolare quando lo si legge in questa accelerazione dei tempi, degli spazi e di tutto quello che si sperimenta nel dinamismo liturgico, il momento in cui tutto acquisisce una intensità straordinaria che non possiamo attenuare quasi difendendoci da questo irrompere della verità come amore che chiede di essere accolta nella consapevole coscienza del nostro cuore di una indigenza strutturale di verità e di amore.

Solo così vorrei quasi dire, il gioco funziona, noi mai abbastanza cogliamo come la premessa effettiva dell’esperienza liturgica, in modo particolare della Pasqua della domenica, è quel denudamento dei nostri corpi e dei nostri cuori che facciamo con l’atto cosiddetto penitenziale che oggi è stato arricchito del simbolo dell’acqua.

Io vi ho parlato di rugiada, liberando io spero la vostra fantasia perché si adoperasse a lasciare immaginare il vostro cuore come una terra, una terra nuda, riarsa, alla fine di questa estate, una terra infeconda, polverizzata, resa sabbiosa, resa dura, ovviamente insisto in modo quasi ossessivo, ma nello stesso tempo poetico, cioè immaginifico, perché senza questa portata estetica del nostro vivere la liturgia, noi fratelli e sorelle per forza di cose alla fine diserteremo questo momento pure qualificante, così qualificante, della liturgia, perché saremo quasi inevitabilmente distratti dalle luci variopinte e cangianti che offrono prospettive estetiche che smaltano il nostro cuore, senza invitarlo a quella decostruzione radicale quale invece ci invita la liturgia. Per acconsentire a tale decostruzione fratelli e sorelle, che non è una decostruzione fine a sé stessa, noi dobbiamo essere perfettamente consapevoli, o meglio il più perfettamente possibile consapevoli che qui davvero ci viene tolto tanto, tantissimo delle nostre sicurezze, delle nostre certezze, delle nostri acquisizioni morali, culturali, sociali, di qualsiasi genere, ma perché ci viene dato molto altro fratelli e sorelle, molto altro.

Pertanto è bene tutti noi riconoscerci in quello che rassicura il Signore di essere in grado di restituirgli diecimila talenti cioè, detto in termini esistenzialmente più chiari, dire al Signore io ti restituirò tutta la mia vita che tu mi hai dato, nella pretesa assurda che la mia vita sia diventata davvero mia proprietà, arrivando a disporre di essa così come io voglio, gestendola come un oggetto del mio avere che penso così di poter restituire, quando e come voglio, a questo padrone, riposizionando me stesso al suo livello in una situazione di oggettiva parità.

Dietro queste mie parole voi cogliete perfettamente fratelli e sorelle, la grande seduzione della modernità, l’elaborare una sorta di Dio spersonalizzato, Dio ragione, Dio natura, tutte le qualificazioni che dalla modernità in poi noi diamo di un Dio che di fatto è il prodotto della nostra intelligenza, che io posso estendere, placare, governare, diffondere, attraverso l’esercizio di una ragione autoreferenziale che arriva a disporre delle cose, del tempo e dei rapporti come la possibilità accordatami, in nome di questo Dio razionale, di fare sostanzialmente quello che io voglio, con strumenti che la modernità mi può conferire sempre più raffinati.

Questa fratelli e sorelle è, detta in termini un po’ semplici, l’evoluzione del pensiero che ha governato le grandi rivoluzioni industriali, le grandi rivoluzioni delle comunicazioni, ovvero tutta questa possibilità data all’uomo e alla donna di fare del mondo una estensione razionale di una divinità che pretendo di conoscere e che in questa prospettiva inevitabilmente declina, non essendo più persona ma soltanto esigenza concettuale, inevitabilmente declina, e soprattutto sparisce l’urgenza di una relazione vitale con quel Dio che invece noi oggi, denudati dalla liturgia, spogliati delle nostre certezze dalla stessa liturgia, scopriamo essere quel Dio al quale noi non possiamo certo restituire diecimila talenti. Capite il passaggio?

Perché è in gioco questo passaggio qui, non si tratta di ricevere una buona lezioncina per cui dobbiamo perdonarci a vicenda, certo che ci dobbiamo perdonare a vicenda, ma noi siamo qui, alle dieci del mattino, sfidando la stanchezza, le mille distrazioni della domenica, perché abbiamo bisogno di capire che l’avere non basta di fronte al mistero della vita, ma non l’avere tante o poche cose, l’avere in quanto avere e la vera sfida è piuttosto porre la consapevolezza della nostra vita nel dinamismo sofferto, friabile, dell’esserci.

Siracide ce lo ha detto in termini che se vogliamo ascoltare sono davvero sconcertanti “Ricòrdati della fine e smetti di odiare,
della dissoluzione e della morte e resta fedele ai comandamenti”.

Capite su cosa si radica l’invito di Siracide a non essere vendicativi, a non essere persone di odio, a essere persone di comunione, non dicendoci banalmente, è giusto far così, ce lo dice perché ci mette brutalmente in faccia la consapevolezza, lo si voglia o no, che noi di fatto siamo niente.

Siamo niente fratelli e sorelle.

È inattuale doverci ricordare di domenica mattina che siamo niente.

Per questo queste esperienze di autenticità, nel nome e attraverso il metodo dell’umiltà, non possono che essere disertate dai più perché noi fratelli e sorelle invece, invece, anche grazie alla tecnologia che ormai si è sostituita all’idea della divinità, in questo fatale esito della post modernità, noi invece pensiamo ormai di essere capaci di tutto iniziando proprio dal nostro corpo, smettendo di ascoltare, in una prospettiva di mistero che rivela l’intima e friabile natura del nostro esserci, anche quella fondamentale fonte della rivelazione che è la stessa natura che noi deformiamo, mancando di coscienza ecologica non soltanto quando non chiudiamo il rubinetto mentre ci laviamo i denti, ma anche quando facciamo del nostro corpo un gioco di apparenze, di verità, di contraddizioni, dimenticando l’alito di mistero che vi abita e che vi abita fin da quando un grumo di cellule è abitato dall’amore che le rende promessa di vita fino all’estremo rantolo di quel grumo di cellule che, essendo in questo orizzonte dell’esserci, fratelli e sorelle, avrà comunque un suo mistero intangibile se ci ricordiamo che la nostra dignità non è in rapporto all’avere, al potere, al riuscire, al fare, ma al semplice esserci, per cui  non potrò mai osare di manomettere un corpo, anche se all’estremo dei suoi giorni, perché il suo esserci è comunque qualcosa di inalienabile.

Allora queste prospettive noi le recuperiamo per che cosa?

Per questa grazia importantissima che ci risveglia il dinamismo liturgico al quale, obbedienti allo Spirito Santo, voi vi sottoponete, con questa lucidità sempre più coraggiosa, sempre più inattuale ma anche sempre più profetica, quella che oggi ci fa dire, in un’ebrezza di speranza pasquale che anche se il nostro corpo è scalfito, anche se viviamo in questo progressivo sfibrarsi della nostra consistenza individuale nella sua pretesa di esserci da se stessa avendo ogni risorsa necessaria per ciò, noi oggi da Paolo accogliamo questa espressione interessantissima e importantissima: “nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore”.

E ancora: “Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore”.

Capite il nucleo veritativo da cui scaturisce questa mia povera parola, fratelli e sorelle, che è detta però con grande passione perché ogni qualvolta riduciamo il Vangelo a lezione di morale, di etica, è inevitabile la frustrazione nello scoprirci sempre inadeguati, sempre uno, due, tre, quattro, cinque passi indietro perché anche se è bellissima l’idea che dobbiamo perdonare perché siamo stati perdonati basta un po’ di nervoso, basta un po’ di stanchezza, basta un poco di risentimento, basta anche qualche oggettiva ragione di ingiustizia subita, per dimenticarci rapidamente questo che, letto di domenica mattina, può sembrare qualcosa di talmente bello, semplice e vero da non poter non diventare la mia prassi.

E invece no, non lo diventa.

Ma quello che resta vero, a prescindere da come io riesca a interpretare, decifrare e soprattutto testimoniare l’invito a perdonare perché perdonato, quello che resta vero, e lo dico soprattutto a chi si misura con la sofferenza dentro il proprio corpo, con la sofferenza nelle relazioni con altri corpi amati, desiderati, dai quali non si riceve più desiderio e più amore, e tante altre situazioni in cui si misura questo sfibrarsi della nostra consistenza personale, è vero, resta verissimo che noi, sia che viviamo sia che moriamo, viviamo e moriamo per il Signore, ovvero esiste e resiste questo aggancio pasquale della nostra vita fratelli e sorelle, questo ci interessa sommamente riacquisire come consapevolezza che ci impedirà di dire con presunzione dell’avere, ti restituisco diecimila talenti.

Possibile fratelli e sorelle restituire la vita al Signore che ce l’ha donata come se questa fosse oggetto dell’avere? Capite il passaggio? Ma noi potremmo invece vivere in comunione per il Signore, vivendo e morendo nella consapevolezza che la vita non è oggetto del nostro avere ma dinamismo dell’esserci che scaturisce da una grazia, da un amore, da un’anteriorità del Dio creatore, senza calcolo, di pura libertà, di pura donazione, di pura generosità, nessuno ha meritato fra di noi il dono della vita, nessuno, nessuno, ci possono essere esistenze che riescono a fare qualcosa di più bello di altri ma in sé il dono della vita, fratelli e sorelle, anche da un punto di vista biologico ci raggiunge, non perché c’è una consistenza preliminare che lo meriti più di altre, e questo come vedete quanto spoglia di presunzione il nostro io! Quanto spoglia di calcoli, di aspettative, di ambizioni, di giudizi e pregiudizi questo nostro strutturarci e ancorarci in una verità incallita su se stessa, che ci fa dire con presunzione e ardimento : Te li restituisco i diecimila talenti.

E tanto è più vera questa presunzione quanto poi con quell’io incallito non hai orecchie e cuore per ascoltare quello che ti chiede il perdono per i pochissimi spiccioli che ti deve.

E allora fratelli e sorelle, si tratta –e questo è il frutto della liturgia- di crescere in una consapevolezza veritativa della nostra vita, non si tratta, lasciatemelo dire banalmente di imparare a comportarci nella storia, l’ho già detto, certo è una conseguenza, ma quello che dovete aver chiaro è che la liturgia apre il sipario ai vostri occhi perché illuminati dall’amore, imparino che la vocazione del vostro cuore, come ci ha fatto pregare all’inizio questa mirabile colletta, è essere luce e come tale contrarre l’ombra che inevitabilmente la nostra creaturalità produce, anche San Francesco faceva ombra, ma come l’ha saputa depotenziare, assimilare, affilare per essere trasparenza di questa grazia ricevuta e come tale resa in grado di rifrangersi attraverso i suoi grandi gesti di perdono, di comunione, di amicizia, di unità, di sinfonia.

Oggi la Chiesa ricorda una grande santa mistica benedettina, Ildegarda di Bingen, nelle sue straordinarie visioni lei immagina la storia, il cosmo, l’umanità come espressione di un’armonia che qui a San Miniato abbiamo nel grande zodiaco.

Siate tutti e tutte umilmente obbedienti a questa sinfonia di amore che gratuitamente vi ha chiamato all’esserci e fate così in modo che il vostro essere, in armonia con la sua più autentica vocazione,  sia sorgente di luce come le stelle obbedienti a forze reali ancorché invisibili.

E la testimonianza della Chiesa, oggi più che mai, in tempi di contrasto, di attrito e peggio ancora di incalzante e anticipata entropia, sarà in obbedienza alle attese del Vangelo di Matteo, manifestazione che esiste un’armonia che effonde la luce e l’amore del Padre, senza tradirlo, senza filtrarlo, senza attenuarlo, senza ombreggiarlo. Amen!

Trascrizione a cura di Grazia Collini

L’immagine: Trinità che abbraccia l’Universo con al centro l’Uomo. Miniatura dal Liber Divinorum Operum di Ildegarda di Bingen

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