«Nell’opera di Dio, nell’opera del mondo». Omelia del padre abate Bernardo per la VIII Domenica del Tempo Ordinario
«Nell’opera di Dio, nell’opera del mondo». Omelia del padre abate Bernardo per la VIII Domenica del Tempo Ordinario
3 marzo 2019 – VIII Domenica del Tempo Ordinario
Dal libro del Siràcide
Quando si scuote un setaccio restano i rifiuti;
così quando un uomo discute, ne appaiono i difetti.
I vasi del ceramista li mette a prova la fornace,
così il modo di ragionare è il banco di prova per un uomo.
Il frutto dimostra come è coltivato l’albero,
così la parola rivela i pensieri del cuore.
Non lodare nessuno prima che abbia parlato,
poiché questa è la prova degli uomini.
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, quando questo corpo corruttibile si sarà vestito d’incorruttibilità e questo corpo mortale d’immortalità, si compirà la parola della Scrittura:
«La morte è stata inghiottita nella vittoria.
Dov’è, o morte, la tua vittoria?
Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?».
Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la Legge. Siano rese grazie a Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!
Perciò, fratelli miei carissimi, rimanete saldi e irremovibili, progredendo sempre più nell’opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore.
Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli una parabola:
«Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso? Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro.
Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? Come puoi dire al tuo fratello: “Fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio”, mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo occhio? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello.
Non vi è albero buono che produca un frutto cattivo, né vi è d’altronde albero cattivo che produca un frutto buono. Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dagli spini, né si vendemmia uva da un rovo. L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda».
Omelia
Fratelli e sorelle, ci impegna e ci consola al contempo come risuoni nella esortazione di San Paolo un tratto dinamico e conseguentemente di progressiva assimilazione della nostra vita alla altissima misura di Cristo.
Vorrei proprio partire da questa espressione paolina “rimanere saldi e irremovibili progredendo sempre più nell’opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore”.
E’ molto bello riconoscere l’uomo e Dio impegnati in una fatica, si direbbe in latino in un labor, in una sorta di professione di responsabilità, di trasformazione, di cura, di impegno, per la vita del mondo.
Questa prospettiva fratelli e sorelle, suona familiare a chi frequenta la parola del Signore e in modo particolare lasciatemelo dire, ai monaci di San Benedetto: nella Regola, nel Prologo, San Benedetto si immagina il Signore alla ricerca di un operarius che intenda desiderare fortemente una piena comunione fra il suo cuore e quello del Signore. Potrebbe addirittura sembrare spregiativa questa parola, un operarius, un operaio, in realtà non lo è se ci si ricorda questa espressione che oggi Paolo impiega, riconoscendo nel tratto qualificante del nostro Dio una sua dimensione che lo accomuna alla fatica di ciascuno di noi, perché la creazione non è finita una volta per tutte,, la storia è un campo da arare dove dobbiamo essere lungimiranti per raccogliere frutti buoni, perché niente nella vita è immediato e scontato, anche se oggi le cronache e la facilità con cui ci scambiamo messaggi in qualche misura rendono i nostri cuori sempre più contratti e in qualche misura schiavi del risultato immediato, alieni da prospettive lunghe, da attese di maturazione e di fermento che invece sono implicate da questa bellissima espressione paolina: progredire sempre di più nell’opera del Signore, riconoscendo come ogni nostra fatica non è dimenticata da Dio.
Allora fratelli e sorelle, l’uomo opera perché Dio opera, questa prospettiva credo restituisca alla nostra consapevolezza un crinale nuovo e inedito, in ordine alla nostra testimonianza di fede, di speranza e di amore negli spazi e nei tempi che ci sono affidati, significa riscoprire la parola progressione, progresso, come tratto qualificante non tanto di ideologie che come esclusivamente umane sono state di fatto sottoposte all’usura di ogni pensiero esclusivamente umano -perché il pensiero esclusivamente umano in fondo, ce lo ha detto anche il Siracide, alla fine inevitabilmente, lasciandoci setacciare porta con sé dei limiti, delle durezze, delle ferite, che lo rendono inevitabilmente contingente e approssimativo.
Viceversa il pensare in Cristo restituisce ad ogni nostra parola un suo respiro che la rende valida e perennemente feconda e così la parola progresso, perché non ancoriamo tutto questo alla pretesa egoistica e presuntuosa di riuscire noi con le nostre forze a determinare il futuro, significa riconoscere nel futuro davvero il grande dono che un Dio all’opera con noi ci riserva se accogliamo il futuro davvero come uno spazio in cui la nostra laboriosità si mette in gioco, vincendo la rassegnazione, la distrazione, in qualche modo anche la nostra grande tentazione di ritenere tutto inutile e come tale non meritevole di responsabilità.
Niente affatto, questo labor comune fra Dio e l’uomo genera il futuro nel quale è possibile, insieme, riscoprire mediante la luce della speranza una linea di progresso, smentita certamente dalle cronache dei nostri giornali, ma riconoscibile nella misura in cui si attua anzitutto nella profondità del nostro cuore, senza aspettare che accada altrove, senza aspettare che accada nell’altrui cuore, il progresso che qui oggi interessa, alla luce di questa Parola, è il progresso del mio cuore, fratelli e sorelle, oggi la Parola ci impone uno sguardo, oggi assolutamente inattuale, lo sguardo introspettivo, senza il ricorso a nessun edulcorante che possa essere di ordine chimico, psicologico, nel quale tornare come sempre a darci maledettamente ragione, assolutizzando il nostro punto di vista, le nostre angolature, le nostre pretese, le nostre presunzioni, lasciando che nell’altro cuore inizi un eventuale progresso nell’ordine in cui oggi la Parola ci chiede, un progresso di carità, di giustizia, di verità, di fruttificazione buona e matura,
No! Il Signore ci chiede di valutare e di sondare le nostre profondità, le nostre viscere, il nostro cuore, e credo che questo sia un aspetto da prendere profondamente sul serio, avete ascoltato il Siracide in piena linea con la grande tradizione sapienziale, ci invita ad una visione integrale della persona, quindi il suo ragionare, che sboccerà in delle parole che saranno come le radici e il frutto di un albero capace davvero di nutrire gli altri e questo significa rimettere insieme, in una angolatura segnata dalla prospettiva della verità, della limpidezza e della luce, ciò che noi pensiamo, ciò che noi diciamo, ciò che noi facciamo: pensiero, parola, frutto, in una prospettiva che costa fatica, labor, l’immagine appunto del coltivare assieme ad altri professioni che oggi la Parola ci consegna come simbolo e metafora di una vita attiva fratelli e sorelle, una vita impegnativa e responsabile che vogliamo assumere contro ogni tentazione eccessivamente spiritualizzante del mistero, della fede e dell’amore del Signore.
E diciamo questo non per accattivarci altre mentalità, altri pensieri, peggio ancora altre ideologie, è perché, fratelli e sorelle, come ancora ci ricorda Paolo, prendiamo profondamente sul serio lo scandalo dell’incarnazione del Signore Gesù che ha questa conseguenza escatologica fortissima che si misura, ce lo ha detto Paolo con grande chiarezza, anzitutto nella consistenza della nostra figura corporea, nell’immagine bella della progressione, della maturazione, della crescita, ma anche in quella sconcertante della morte, dello sgretolarsi della nostra struttura personale che tuttavia non resta esclusa da questa dinamica dell’incarnazione. Se così fosse non saremmo autorizzati a pensare Pasqua, a vivere Pasqua, a essere Pasqua e dovremmo di fatto ridurre l’esperienza del Vangelo ad una grande lezione morale, etica, ma non spirituale, cioè estranea al vento pasquale dello Spirito Santo che ci raggiunge così come siamo, fratelli e sorelle, questo è il grande correttivo che la forza del Vangelo imprime anche, sia detto con chiarezza, a tutto il grande portato sapienziale del primo testamento, noi ascoltiamo queste monizioni, le dobbiamo ascoltare, dobbiamo, come ha detto Gesù, purificare la nostra pupilla, dobbiamo cercare di riconoscere come una grande trave ci impedisce di guardare dentro e fuori di noi, ma attenzione, fratelli e sorelle, agisce come prospettiva piena e definitiva una parola di speranza paradossalmente anch’essa inattuale per il suo tratto quasi folle: l’uomo così come è, venendo dall’amore creativo di Dio, è destinato a questo rigenerarsi pasquale, che con un linguaggio fortemente iconico, visivo, concreto, Paolo ci lascia immaginare come un restauro radicale della nostra struttura corporea e personale.
Questo è lo scandalo degli scandali che il Vangelo propone alle grandi filosofie di quel tempo, anche alle grandi tentazioni del nostro oggi, che vorrebbero in qualche mondo ricircoscrivere nella purezza del pensiero e quindi spesso e volentieri nel disimpegno dalla storia, tutto quel portato evangelico che invece ci chiede appunto la fatica dei corpi, la fatica del sentire, la fatica della relazione, la fatica della storia, la fatica cioè di anticipare la Pasqua proprio nella concretezza di quella storia dove si incontra la fatica dell’uomo e la fatica di Dio.
Credo sia una prospettiva certamente impegnativa che raccogliamo come un grande dono, vorrei dire una grande educazione, una grande, scusate la parola greca, paideia, di cui questo nostro mondo credo abbia fortemente bisogno, una grande educazione alla fatica dell’assumere con responsabilità la storia come il vero e autentico scenario della Pasqua di Cristo, introducendoci tutte le sue premesse e le sue conseguenze, premesse di speranza, conseguenze di amore, premesse cioè di leggere tutto quello che noi siamo non come caso, conseguenze di amore sentendoci responsabili di tutto quello che esiste perché esito del disegno di salvezza e cioè pasquale, per cui il Signore pone in essere le cose che sono, tutti e tutto, nessuno escluso, vicini e lontani, connazionali e stranieri, persone che la pensano come me, persone che non la pensano come me.
La Chiesa deve essere capace, e lo sarà sostenuta dallo Spirito Santo, di miscelare tutto questo in una proposta di bellezza, di persuasione e di grande speranza, ma lo deve diventare anche la città degli uomini perché brilli in una qualche misura la possibilità che tutti davvero, credenti e non credenti, ritrovino negli scenari della loro quotidianità un tratto, un indizio, un’orma della volontà creativa e salvifica del Dio che Gesù Cristo ogni giorno ci fa conoscere e amare, sempre di più. Amen.
Trascrizione a cura di Grazia Collini