Omelie

«Nell’ombra il segreto della luce per non temere più la vita». Omelia del padre abate Bernardo per la Festa della Trasfigurazione

Domenica 6 agosto 2023 – Trasfigurazione del Signore

Dal libro del profeta Danièle
Io continuavo a guardare,
quand’ecco furono collocati troni
e un vegliardo si assise.
La sua veste era candida come la neve
e i capelli del suo capo erano candidi come la lana;
il suo trono era come vampe di fuoco
con le ruote come fuoco ardente.
Un fiume di fuoco scorreva
e usciva dinanzi a lui,
mille migliaia lo servivano
e diecimila miriadi lo assistevano.
La corte sedette e i libri furono aperti.
Guardando ancora nelle visioni notturne,
ecco venire con le nubi del cielo
uno simile a un figlio d’uomo;
giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui.
Gli furono dati potere, gloria e regno;
tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano:
il suo potere è un potere eterno,
che non finirà mai,
e il suo regno non sarà mai distrutto.

Dalla seconda lettera di san Pietro apostolo
Carissimi, vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, non perché siamo andati dietro a favole artificiosamente inventate, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza.
Egli infatti ricevette onore e gloria da Dio Padre, quando giunse a lui questa voce dalla maestosa gloria: «Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio compiacimento». Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte.
E abbiamo anche, solidissima, la parola dei profeti, alla quale fate bene a volgere l’attenzione come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e non sorga nei vostri cuori la stella del mattino

Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui.
Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo».
All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete». Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo.
Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti».

Omelia:

Cari fratelli e sorelle ci vorremmo e ci dovremmo sentire anche noi in disparte, raccolti nella penombra romanica della nostra Basilica, a simboleggiare questo prodigioso effetto di un’ ombra che singolarmente scaturisce da una nube luminosa, a significare una sorta di resistenza, di attrito che la natura, i nostri sensi, la nostra intelligenza, la nostra fede, quasi inevitabilmente oppone al dilatarsi e all’espandersi della verità luminosa dello Spirito che promana dall’amore del Padre e che investe il Signore Gesù, sei giorni dopo, dopo aver manifestato la sua piena consapevolezza e disponibilità filiale ad essere un giorno il risorto dai morti, una esperienza di approdo quella della resurrezione che sfugge a Lui e dunque figuriamoci ai suoi discepoli in tutto il suo pieno significato, cioè cosa possa significare, rappresentare, la novità pasquale cui Egli si rende disponibile perché senz’altro si mostra disponibile a ciò che è la premessa della vicenda pasquale, l’appartenenza cioè alla regione, alla condizione, alla temporalità della morte ed è questo l’aspetto fratelli e sorelle, più forte, più sconvolgente che appare nella consapevolezza del Signore Gesù. Una consapevolezza che Lui desidera condividere, rafforzare, donare ai suoi discepoli sapendo che proprio attraverso questa condivisione, che è quell’assunto che inizia a farsi consapevolezza di carne, di anima e di Spirito nella sua persona, ma anche sapendo che una indebita divulgazione di tanta consapevolezza, significherebbe alterare o per lo meno esporre a grandi rischi quella sua consapevolezza, esponendosi, è facile immaginarlo, a tutti quei condizionamenti, tradimenti, contraffazioni propri del cuore dell’uomo, sempre disponibile a fare del mistero un abuso di potere, di mistificazione e di tradimento di quella che nel Signore Gesù è vita divina, solo e soltanto come donazione offerta gratuitamente.

Non ci è troppo difficile immaginare cosa avrebbe potuto diventare questa prossimità di amore nella luce e nell’obbedienza del Figlio al Padre se fosse finita nelle mani di quei soldati, di quei sommi sacerdoti che avrebbero trasformato il Signore Gesù in uno spazio di rivendicazione, di condizionamento, di mantenimento del loro potere.

Dunque recuperiamo in questa esperienza in disparte la forza ma anche la delicatezza della traiettoria verticale e discensionale che il Signore Gesù ha chiaramente assunto nel suo cuore.

Bellissimo questo invito al riserbo, alla discrezione, che il Signore pronuncia scendendo precipitosamente dalla montagna, tradendo così il desiderio di Pietro, lo abbiamo ascoltato, lo abbiamo addirittura cantato, costruire con uno sforzo di creatività umana, una dimora dentro la quale fermare il tempo, fermare lo spazio, imprigionare il divino, potremmo dire così, imprigionare il divino mostrando così davvero quale rischio poteva correre il Signore Gesù se si fosse saputo, oltre la cerchia di questa ristrettissima comunione degli apostoli prediletti, se già lo stesso Pietro, manifesta questo istintivo desiderio di procacciarsi una esperienza che venendo dall’alto, ha da essere vissuta così come ce la dona il Padre Celeste.

San Benedetto nella Santa Regola ci ricorda che la preghiera è sempre necessariamente pura e breve, una indicazione per noi monaci quasi sconcertante, avvezzi come siamo, e lo sapete molto bene, a lunghe, frequenti e insistite salmodie, ma con tale indicazione noi comprendiamo molto bene che per San Benedetto la vera preghiera non è tanto questo nostro prestare voce al Signore Gesù perché l’insistenza della salmodia manifesti nella storia il primato dell’Opera di Dio, Benedetto ci fa intendere che la vera preghiera è quando il nostro cuore è squarciato dall’alto verso il basso dalla lama dello Spirito, una lama che ci fa gemere per qualche istante appena, nella consapevolezza tipica e coerente della preghiera che è proprio la precarietà della nostra condizione umana, è incisa dalla forza dello Spirito Santo, è condotta alla sua pienezza di verità nella sua dimensione creaturale, insignificante, provvisoria e che tuttavia si lascia davvero trasfigurare da questa possibilità data in realtà anche a noi, fratelli e sorelle, di essere raggiunti da una energia, da una luce, da una grazia, da una parola, che restituisce al nostro povero cuore l’esperienza di essere nello stesso tempo niente, ma anche tutto, perché esposto, nella fede e con la fede, all’intuizione che esiste, esiste davvero un portato vorrei dire simbolico che riconnette i fili altrimenti dispersi della nostra vicenda temporale, riconnette gli spazi che noi abitiamo altrimenti condannati ad essere una matassa insolubile.

E noi abbiamo fratelli e sorelle un criterio cui addestrarci per essere pronti ad accogliere il dono della vera preghiera, la consapevolezza sofferta, piangente, ma liberante che non siamo soli, non siamo condannati all’oscurità, non siamo condannati al niente, non siamo condannati alla morte, ma al contrario, certi della nostra nientità, consapevoli come Gesù della nostra morte, rendiamo disponibile con l’umiltà il nostro cuore ad essere raggiunto dalla mano del Signore Gesù che, come avete ascoltato, solleva i discepoli, li rassicura, li persuade a non avere timore.

Capite molto bene come in questa epifania pitagorica, è condensato e non potrebbe essere diversamente, nel grande codice della parola rivelata e più ancora nel grande codice suscitato dalla parola che è liturgia, si condensa la vita intera, l’esistenza intera, la storia intera e voi avete fratelli e sorelle, per la vostra perseveranza domenicale, la chiave, il registro, il codice per comprendere questo. Lo avete perché siete avvezzi ad ascoltare l’ascolto del Figlio, ad obbedire all’obbedienza del Figlio e a condividere con Lui il compiacimento del Padre, lasciando anche voi investire la vostra nientità dalla luce sorgiva del Padre Celeste. E l’ombra che essa produce, perché d’altra parte nulla esiste su questa terra fratelli e sorelle, nulla esiste anche di più bello, santo, puro, giusto, che non produca ombra su questa terra, ma quest’ombra ci spaventerà sempre di meno nella misura in cui, almeno per un’ora alla settimana, in questa domenica di Pasqua, sentiamo che è bello, giusto, vero, ragionevole accedere alla tenda che non costruiamo noi, come l’istintività presuntuosa di Pietro vorrebbe fare, ma entriamo nella tenda di luce, sollevata dalla grazia del Padre e che ha per perimetro temporale e spaziale l’esperienza immersiva della liturgia nella quale, domenica dopo domenica, impariamo a maneggiare la chiave che svela il codice unitivo e coesivo che tiene insieme l’essere del Signore Gesù nella morte e nello stesso tempo l’essere il Signore Gesù risorto dai morti, gli estremi, gli estremi fratelli e sorelle, gli estremi.

Questa dimensione unitiva, coesiva, simbolica appunto, symballein, metto insieme, ci insegna il greco, contro diaballein, contrappongo, divido, separo ed è bellissimo rileggere a questo proposito la grande scena di Daniele, questa visione che si pone come annunzio profetico dell’esperienza taborica, questo figlio dell’uomo che compare al cospetto di un vegliardo tutta albescenza, tutto biancore, tutta luce, e come avete ascoltato il profeta ci dona un versetto chiaro che vorrei fosse per voi la consapevolezza di quello che noi adesso stiamo vivendo, ognuno di voi, con la regalità, la profezia e il sacerdozio del vostro Battesimo, fratelli e sorelle, la regalità il sacerdozio e la profezia del vostro Battesimo e le conseguenti dignità:

“La corte sedette e i libri furono aperti”

Bellissimo questo versetto fratelli e sorelle, viviate sempre, questo vi chiedo, la liturgia, domenicale in modo particolare, come un’esperienza che ci vede tutti insieme corte regale davanti al vegliardo sul trono e in questa esperienza rivelativa epifanica in cui un fiume di luce scaturisce dall’anziano vegliardo….Chiudete gli occhi e immaginate fratelli e sorelle, chiudete gli occhi e immaginate, vi prego, chiudete gli occhi e immaginate questo fiume di luce.

La nostra regalità condivisa col sovrano ci permette di stare a sedere come i dignitari più importanti, e tutti i libri vengono aperti.

Cosa significa? Significa che viene svelato il simbolo che tiene insieme tutte le cose e che nella nostra percezione quotidiana, quella che inizia vorrei dire quando usciamo da qui e siamo riprecipitati nell’attrito del quotidiano, nelle disgiunzioni del quotidiano, nelle contraddittorietà della nostra anima, questa difficilissima avventura del simbolico noi qui, per grazia, in questa tenda di luce dove scaturisce un fiume di fuoco ecco che i libri si aprono, comprendiamo.

Cosa comprendiamo in massima sintesi? Che intorno al Signore Gesù, intorno alla sua donazione che passa attraverso l’offerta del corpo, quindi niente di astratto, niente di surreale, la concretezza personale, dinamica, di un corpo, c’è spazio anche per noi, per condividere quest’esuberanza di luce, di verità, di sapienza, di consapevolezza.

Lui lo dice, Lui mette in scena, performativamente questa possibilità data a noi attraverso l’ascolto umile della parola, attraverso il lasciarsi intridere dall’Eucaristia, queste mani che ci sollevano, questa parola che ci invita a non temere la vita, a non temere la storia, a non temere l’ombra della creazione e a ricordare la vera vocazione della nostra avventura di libertà e nello stesso tempo di sequela umile e obbediente al Vangelo del Signore Gesù, che è proprio la vocazione alla luce inestinguibile che brilla, dice Pietro, e concludiamo, “brilla come lampada in un luogo oscuro finché non spunti il giorno e non sorga nei vostri cuori la stella del mattino”.

Sentite che anche il linguaggio fondamentalmente umile del Nuovo Testamento, anche il greco povero del Nuovo Testamento sa essere poesia, semplice, poesia semplice, incomparabile alla raffinatezza bizantina delle liriche che si componevano in quel tempo altrove.

Ma noi abbiamo bisogno di questa semplicità e tuttavia abbiamo anche fame e sete di poesia per vivere, testimoniare e restituire bellezza di luce a questo nostro mondo disabitato ed esiliato dall’armonia, dalla misura e dalla proporzione.

È bello per noi stare quassù, portate in città questa bellezza fratelli e sorelle, lasciatevi potenziare come avvertono i Padri della Chiesa non diversamente dagli apostoli i vostri sensi, crescete in percezione, ascolto, visione, fantasia, immaginazione, questa pagina fratelli e sorelle, questa liturgia è costitutiva dell’umanesimo in Cristo, costitutiva.

Se volete almeno un riscontro andate in una delle celle più belle di San Marco e vedrete come il Beato Angelico abbia sapientemente riletto l’uomo vitruviano ponendo il Signore Gesù in quella forma che è tuttavia anche la forma della donazione, della gratuità, dell’annuncio, dell’offerta, la forma crocifissa appunto.

Colui che per fede obbediente è entrato nella regione della morte, in forza della luce dello Spirito è colui che dalla morte esce per essere Pasqua per tutti noi.

E allora questo chicco di luce che oggi la liturgia ha saputo ravvivare perché abbiamo esposto i nostri sensi al fiume di fuoco che promana dal vegliardo tutta albescenza, sia luce che illumini la notte, annunci la mattina e profetizzi quella verità cui nessuno o quasi più crede ma che il Signore, con grande investimento di misericordia, comunica a noi, piccolo gregge disperso fra monti e colline, stamani raccolto qui, ma così desideroso di nutrire di grazia e di bellezza le città del mondo. Amen!

Trascrizione a cura di Grazia Collini

La fotografia è di Mariangela Montanari

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