Omelie

«Le beatitudini del futuro. Il futuro delle beatitudini». Omelia del padre abate Bernardo per la VI Domenica del Tempo Ordinario

«Le beatitudini del futuro. Il futuro delle beatitudini». Omelia del padre abate Bernardo per la VI Domenica del Tempo Ordinario

 17 febbraio 2019

Dal libro del profeta Geremìa
Così dice il Signore:
«Maledetto l’uomo che confida nell’uomo,
e pone nella carne il suo sostegno,
allontanando il suo cuore dal Signore.
Sarà come un tamarisco nella steppa;
non vedrà venire il bene,
dimorerà in luoghi aridi nel deserto,
in una terra di salsedine, dove nessuno può vivere.
Benedetto l’uomo che confida nel Signore
e il Signore è la sua fiducia.
È come un albero piantato lungo un corso d’acqua,
verso la corrente stende le radici;
non teme quando viene il caldo,
le sue foglie rimangono verdi,
nell’anno della siccità non si dà pena,
non smette di produrre frutti».

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi
Fratelli, se si annuncia che Cristo è risorto dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non vi è risurrezione dei morti?
Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto; ma se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. Perciò anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti.
Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini.
Ora, invece, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti.

Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù, disceso con i Dodici, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidòne.
Ed egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva:
«Beati voi, poveri,
perché vostro è il regno di Dio.
Beati voi, che ora avete fame,
perché sarete saziati.
Beati voi, che ora piangete,
perché riderete.
Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i profeti.
Ma guai a voi, ricchi,
perché avete già ricevuto la vostra consolazione.
Guai a voi, che ora siete sazi,
perché avrete fame.
Guai a voi, che ora ridete,
perché sarete nel dolore e piangerete.
Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti».

 

Omelia:
Fratelli e sorelle, domenica difficilissima e esigentissima nell’ascoltare, recepire, testimoniare la parola che ci viene donata nel ritmo della liturgia.

Una parola anzitutto segnata da questa duplice e complementare opposizione, da un lato quasi una radice fortemente antiumanistica “maledetto l’uomo che confida nell’uomo”, la percezione di una sostanziale inguaribile inaffidabilità della nostra consistenza umana nel poterci costruire una dimensione esistenziale veramente affidabile.

Risuona l’etimo della parola Amen che in ebraico significa proprio tutto questo: consegnarci, appoggiarci, che è il confidare in una esperienza che ci fa prorompere.

Noi monaci la mattina, quando ascoltiamo nelle vigilie molto presto il Vangelo, si deve rispondere, non semplicemente “Parola del Signore” come si fa nella liturgia eucaristica, ma Amen, perché sentiamo, intuiamo, come voi del resto intuite molto bene, che in questo Vangelo, in questa buona notizia qui, possiamo riporre al sicuro tutta la nostra umanità perché lì vi trovi quella piattaforma solida dalla quale spiccare un lancio, elastico, verso gli estremi confini delle nostre speranza e dei nostri desideri.

Ma l’uomo in sé stesso non offre questa prospettiva, questa consistenza, questa dinamica, alle nostre attese.

Si impone di conseguenza l’esercizio illuminato dalla Fede e dallo Spirito che è il discernimento, cioè riuscire ad attraversare tutto quello che è umano per ritrovare le radici del divino, perché questo è l’altro aspetto: Dio si degna di attecchire in questa nostra contraddizione, Dio si degna di attraversare queste nostre tortuosità, Dio si degna, ed è questo un tema sul quale desideriamo insistere alla luce del Natale appena trascorso, il Signore si degna di visitare questa nostra umanità, la riconosce comunque visitabile, insegnandoci un rapporto verso l’uomo che non sia il confidare idolatrico dell’uomo in qualcuno inevitabilmente simile a sé stesso.

Non basta questo fratelli e sorelle, è importantissima questa dimensione con la quale la Parola oggi ci invita a non fare dell’altro un idolo nel quale riporre ogni mia certezza, ogni mia sicurezza, nel quale fondare ogni mia speranza, questo è un aspetto molto importante oggi che in ogni ambito del vivere umano siamo così pronti a consegnare la nostra intelligenza, la nostra volontà le nostre aspettative, i nostri desideri al primo che ci sembra parlar bene, che ci sembra avere argomenti convincenti, che ci sembra avere già il futuro in tasca.

Quindi la Parola oggi è un esercizio di grande discernimento, fratelli e sorelle, senza nessun riferimento preciso, dico questo perché noi vogliamo confidare non nell’uomo, ma in Dio ed essere testimoni di questo limite invalicabile che è la misura che il Vangelo oggi propone al nostro sguardo sugli altri. Naturalmente è patologico l’estremo opposto, sia ben chiaro, la diffidenza assoluta e radicale verso l’altro, considerato disprezzabile perché non può avere tutto quello che ho io, non può avere tutte le competenze che ho io o, al contrario, perché si proietta anche sugli altri le mie insicurezze, le mie fragilità, i miei fallimenti.

Allora in queste doppie prospettive, oggi emerge dove l’uomo può fondare uno sguardo affidabile sulla nostra condizione umana, ed è il senso della riflessione paolina: “Fratelli, se si annuncia che Cristo è risorto dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non vi è risurrezione dei morti?” – ci dice Paolo, lasciandoci intendere che all’uomo è dato un percorso, un esito, un approdo, radicalmente pasquale dove per risurrezione non è semplicemente l’accesso all’immortalità, come se fossimo altrettanti eroi del mondo pagano, per dinamica pasquale, per risurrezione si deve già intendere con molta chiarezza tutto quello che è nel nostro quotidiano, la vittoria della luce sulle tenebre, del bene sul male, della vita sulla morte, del perdono sul risentimento. Questa prospettiva autenticamente pasquale restituisce, fratelli e sorelle, alla nostra condizione umana una immagine senz’altro più luminosa, limpida, si direbbe affidabile. Come è possibile?
E’ possibile perché l’uomo è stato appunto visitato da Cristo, trasfigurato da Cristo, l’uomo è stato assunto nella consistenza corporea da Cristo, per cui dell’uomo abbiamo un’immagine, un’idea, una possibilità radicalmente nuova e inedita che fonda e apre, inaugura, questo crinale che si tiene lontano, lo abbiamo detto prima, tanto da una diffidenza radicale, tanto da una esaltazione altrettanto radicale e totale e siamo alla ricerca del volto, dell’immagine, del riflesso, della filigrana che Cristo lascia in noi in ogni persona, e vedete che in questa prospettiva è abbandonata per sempre la scorciatoia dell’idolatria, di quella che si fermi inevitabilmente allo smalto luccicante.

Il Signore ci chiede di andare in profondità nel discernimento, nella valutazione, con un’idea, una prospettiva, di grande speranza perché davvero se Cristo è risorto, questo evento pasquale è per tutta l’umanità in forza della radicale partecipazione del Signore Gesù alla vicenda umana, l’ha visitata, ha preso dimora, ha piantato le sue tende nella condizione umana, ci insegna la liturgia del Natale.

Questa prospettiva apre, fratelli e sorelle, prospettive di grande responsabilità per ciascuno di noi, né liquidatorie e nello stesso tempo né falsamente e vanamente assolutorie e capaci dunque di esaltare tutto quello che noi non riusciamo ad avere e proiettiamo sull’altro, non è banale psicologia questa, è responsabilità nella storia di essere testimoni dell’amore esigente del Signore Gesù che oggi si declina peraltro come in una sorta di cantico severo, austero, esigente, nella meravigliosa partitura delle beatitudini dove, come voi avete ascoltato, il Signore Gesù va proprio alla ricerca nel nostro cuore, di tutto quello che ci manca, che riconosciamo finalmente mancante nel nostro cuore, per farlo diventare quel vuoto che solo la forza dello Spirito Santo riesce a colmare nei tempi che solo il Padre conosce, così abbiamo anche cercato di delineare una articolazione trinitaria, dunque relazionale, dunque dinamica, alla nostra vita in Cristo, una prospettiva cioè che non si esaurisce in una semplice assimilazione del Signore Gesù, ce lo ha detto Paolo avvertendoci di un dato importante, se la nostra speranza in Cristo si limitasse a questo mondo egli nient’altro sarebbe che una sorta di mito o per lo meno di eroe del passato da imitare il più possibile perché qualcosa di lui attecchisca in me.

Non è così fratelli e sorelle!

Il Signore Gesù pianta la sua presenza di amore e di luce esattamente in quel vuoto che, con umiltà, gli lasciamo scoprire perché dal Padre arrivi lo Spirito Santo e ci trasfiguri, in una dinamica che trasformi la fame in sazietà, il pianto in sorriso, il dolore in gioia, questa radicale povertà esistenziale nella sovrabbondante ricchezza di consolazione che nessun bene di questa terra potrà mai fino in fondo donarci, fratelli e sorelle, e vedete come in questa dimensione l’uomo ritrovi per sé stesso dei confini inevitabilmente dinamici, mai fino in fondo valicabili, si apre cioè una prospettiva di crescita incessante, di sana, si direbbe, inquietudine, di pellegrinaggio sconfinato e sconfinante perché, come non riconoscersi nell’intimità della propria notte, della propria nudità, fratelli e sorelle, bisognosi di una consolazione che nessun altro può darci se non quell’infinito da cui noi veniamo?

Bene lo sa chi ha perso un figlio, bene lo sa chi si scopre dimenticato dalla persona amata, bene lo sa chi perde dall’oggi al domani le proprie sicurezze, anche quelle economiche, il Vangelo non disprezza questo mondo e dunque non disprezza i beni di questo mondo, il nostro non è un facile moralismo per cui puntiamo il dito contro chi ha, per capacità e tante volte per buona fortuna, molte risorse, non riduciamo il Vangelo a un moralismo sociologico, ma certamente ad un grande appello a riconoscere questo deficit interiore che si lascia visitare dalla dinamica dello Spirito Santo, inviato dal Padre, che riceve la segnalazione del Signore Gesù: Qui c’è un uomo ferito!

Il Padre non resta indifferente e dona quello Spirito che ci dovrebbe educare ad un senso più forte, cordiale, fraterno, che riconosca nell’altro, non qualcuno da idolatrare in una confidenza sostanzialmente ingiustificabile, ma un altro a cui tendere la mano perché, fratelli e sorelle, in questa vicenda umana siamo tutti davvero, e perdonate la banalità dell’immagine, in una stessa scialuppa, tutti riceviamo onde che ci squilibrano, tutti riceviamo momenti in cui effettivamente tutto quello che ci sembrava certo e sicuro si sgretola, si allontana, si dilegua e poi financo il grande interrogativo degli anni che scorrono, questo nostro corpo che non può più corrispondere alle attese, ai desideri, alle potenzialità della nostra gioventù. Perché non riscoprirci solidali di fronte al grande interrogativo della debolezza della nostra condizione umana e della nostra stessa storia?

Perché non allargare l’invocazione e farla diventare evento corale? Noi ci proviamo, la liturgia è questo, fratelli e sorelle, non tante Messe moltiplicate quanti noi siamo, ma evento corale di grande importanza anche se siamo in pochi, perché per un giorno almeno alla settimana in qualche angolo, a Firenze ancora abbastanza fitto, ma non così in tante altre metropoli del mondo, una coralità di uomini e donne tendano la mano l’uno all’altro nella reciproca scoperta della propria debolezza, trasfigurata da una invocazione, perché lo Spirito ci inabiti e rafforzi i nostri migliori desideri e i nostri più grandi propositi.

Questo è l’invito che viene dalle beatitudini, dove viene quasi da pensare che molti lì siano, come succederebbe oggi, perché attratti dal predicatore del momento, forse Luca insiste su questo gran numero di persone in una situazione pianeggiante proprio per farci capire quanto Gesù intenda educare loro e noi a non rivestire di luce contingente e variopinta le nostre persone, ma a farci scavare dentro il riflesso, il riverbero di quella grazia che venendo da Dio è mistero, e come tale non cerca la facile via dell’evidenza, ma la grande avventura di quel nascondimento, perché tutto di noi rinasca dai crepacci più difficili e vertiginosi dei nostri cuori feriti. Amen!

Trascrizione a cura di Grazia Collini

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