«Eclipse». Omelia del padre abate Bernardo per la XXVI Domenica del Tempo Ordinario
25 settembre 2022 – XXVI Domenica del Tempo Ordinario
Colletta
O Dio, che conosci le necessità del povero
e non abbandoni il debole nella solitudine,
libera dalla schiavitù dell’egoismo
coloro che sono sordi alla voce di chi invoca aiuto,
e dona a tutti noi una fede salda nel Cristo risorto.
Egli è Dio, e vive e regna con te,
nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli.
Dal libro del profeta Amos
Guai agli spensierati di Sion
e a quelli che si considerano sicuri
sulla montagna di Samaria!
Distesi su letti d’avorio e sdraiati sui loro divani
mangiano gli agnelli del gregge
e i vitelli cresciuti nella stalla.
Canterellano al suono dell’arpa,
come Davide improvvisano su strumenti musicali;
bevono il vino in larghe coppe
e si ungono con gli unguenti più raffinati,
ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano.
Perciò ora andranno in esilio in testa ai deportati
e cesserà l’orgia dei dissoluti.
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo a Timòteo
Tu, uomo di Dio, evita queste cose; tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza. Combatti la buona battaglia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede davanti a molti testimoni.
Davanti a Dio, che dà vita a tutte le cose, e a Gesù Cristo, che ha dato la sua bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato, ti ordino di conservare senza macchia e in modo irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo,
che al tempo stabilito sarà a noi mostrata da Dio,
il beato e unico Sovrano,
il Re dei re e Signore dei signori,
il solo che possiede l’immortalità
e abita una luce inaccessibile:
nessuno fra gli uomini lo ha mai visto né può vederlo.
A lui onore e potenza per sempre. Amen.
Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù disse ai farisei:
«C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe.
Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”.
Ma Abramo rispose: “Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”.
E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».
Omelia:
Fratelli e sorelle, il rischio di leggere, di ascoltare, questa parola in una modalità che solleciti un generico senso di colpa e infonda in noi una conseguente, tutto sommato labile e provvisoria, volontà di sentirci sollevati nella coscienza con qualche temporanea buona azione, è rischio grande.
E di fatto costringerebbe la pregnanza di questa parola, a posizionarsi solo e soltanto nella pellicola psicologica della nostra configurazione personale, senza di fatto scendere in un ambito molto più profondo, nello stesso tempo liberante, costringente e qualificante, l’ambito dell’uomo spirituale, della dimensione pneumatologica con la quale la rivelazione del Cristo ci dona una coscienza di noi molto più ricca, profonda e articolata che avvicina e approssima il nostro sentirci all’orizzonte infinito dell’amore del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
Con questa premessa che è imparentata con i guadagni più preziosi della grande rilettura antropologica che della rivelazione della fede ci ha donato il Concilio Vaticano II, noi fratelli e sorelle possiamo posizionare il nostro ascolto e la nostra ricezione di questa parola non su un piano genericamente morale, o psicologico, o esortatorio, o consolatorio, ma molto più coraggiosamente fratelli e sorelle, come ci invita a fare il tratto misterioso della liturgia, a sprofondare insieme, letteralmente sprofondare insieme, nella inaccessibilità del Re dei re, del Signore dei signori, colui che nessun uomo ha mai visto, in una penombra abissale, fratelli e sorelle, nella quale ha una sua sapienza, una sua bellezza, una sua estetica avventurosa perderci.
E lo facciamo, e lo possiamo fare, fratelli e sorelle, perché insieme, convocati dallo Spirito Santo, attraverso il codice simbolico della liturgia, possiamo e dobbiamo farlo, senza paura, senza presunzione, direi senza titanici sforzi individualistici che vorrebbero quasi mettere alla prova l’innominabile Dio, la sua alterità per dare magari ragione alla nostra tentazione di sentirci soli e disperati nell’orizzonte di questa nostra tortuosa storia, per dare ragione così a questo senso di estraneità della singolarità del nostro cuore rispetto a tutto l’esistente, maledicendo gli altri, maledicendo le relazioni, di fatto chiudendoci nell’indifferentismo in rapporto alla grande impresa che San Benedetto sintetizza nel Quaerere Deum, nel cercare Dio.
E io partirei con voi proprio da questa penombra mistica, fratelli e sorelle, so che se siete qui così presto è perché avete consapevolezza di quanto fruttuosa sia per voi questa ora trascorsa insieme, arricchita e trasfigurata dai grandi contenuti simbolici dell’agire liturgico, sui quali ormai da diverse domeniche sento di dovere insistere, fratelli e sorelle, quasi fosse un ritornello incalzante di cui io per primo, ho bisogno per rendere ragione, per rendere logos, vorrei dirlo senza nessun cedimento autobiografico, al mio essere monaco, al mio essere fratello e padre in una comunità ritmata ogni giorno dalla liturgia, al mio volervi e dovervi accogliere col cuore in mano, in questo spazio temporale segnato dalla dinamica liturgica, a suggerirmi e a suggerirvi che non è tempo perso, che non è prospettiva segnata e mortificata dall’obbligatorietà, ma è evento di liberazione, perché tutto di noi ritrova una sua configurazione dinamica, generata e propiziata dallo Spirito che si lascia riconoscere come il dono che proviene dall’inaccessibilità ombrosa del Padre che nessuno ha mai visto.
Come se ci disponessimo fratelli e sorelle, volutamente in attesa attenta e impaziente di una eclissi che ci dona, oltre il suo contorno, la possibilità di vedere, nell’astro oscurato, un alone che prima non potevamo vedere, e che ci obbliga a riconoscere in quella paradossale assenza, la presenza, che davamo per scontata o che al contrario maledicevamo perché indisponibili ad avere fiducia in ciò che i nostri sensi non avvertono e non vogliono avvertire.
E sempre in questa prospettiva che fa esattamente dell’alone la ricchezza rivelativa della sostanza dell’essere, è l’esperienza pasquale di colui che ci ha donato il suo Spirito per tornare ad essere in sintonia, in accordo, fratelli e sorelle, come se fossimo -e di fatto siamo nel canto- strumenti musicali che devono risuonare, concertare, armonizzarsi, con il dono che, attraverso lo Spirito, giunge ai nostri sensi, assetati finalmente di relazione perché nello sgomento di quell’eclissi, ed è proprio il Cristo risorto.
Colpisce fratelli e sorelle nella splendida colletta con cui abbiamo iniziato questa celebrazione liturgica come il tema della povertà e della solitudine, che sono la sintesi oggettiva di questa parola di Dio, si trasfiguri nella richiesta preziosissima che si rinsaldi la nostra fede nel Cristo Risorto.
Non è un caso fratelli e sorelle, proprio perché si esca dall’ambito di una morale comportamentale, la liturgia ci invita a mettere a fuoco il cuore del mistero, ovvero non cedere alla tentazione di maledire la luce, perché vittima di un eclissi e di sforzarci, attraverso questa inquietudine ricettiva di riscoprire, attraverso la parola e lo Spirito che la fa giungere al nostro cuore in ascolto, colui che la pronuncia, il Signore Gesù, il Cristo risorto, la parola, il logos, il verbo, pronunziato dal Padre, dalla sua inaccessibile dimora, oltre lo spazio, oltre il tempo.
Se noi fratelli e sorelle, perdonatemi, ma non recuperiamo direi questa sorta di scenografia teologale del mistero trinitario, e di come la nostra storia sia in questa scenografia di mistero, la nostra vita di fede credo possa correre il rischio di stemperarsi, impoverirsi, ridursi lo ripeto, all’impeto volontaristico che ha una sua nobiltà, un suo valore, del buon agire, del bene agire, ma di fatto sganciarsi da questa prospettiva che proprio la liturgia nella sua apparente inutilità propizia per sentire come il nostro bene-agire sia solo una conseguenza di un accesso del nostro cuore, della nostra intelligenza, alla sapienza stessa di Dio, al suo mistero, al suo stemperarsi come inaccessibilità nella rivelazione del Figlio risorto, nel respiro del suo Spirito che fa giungere al nostro cuore la sua parola, il suo comandamento, come Paolo dice a Timoteo, custodisci, sii fedele, resta nel suo comandamento.
E questa prospettiva fratelli e sorelle, è la prospettiva qualificante cui accediamo proprio in questo nostro apparente convenzionale, precettistico obbedire all’invito fortissimo della Chiesa a santificare la domenica, partecipando all’Eucaristia, e io sento la necessità, per me, per voi, per i miei figli e fratelli, di risignificare sempre di più, magari facendovi venire il mal di capo, questa ora insieme perché la trovo una sfida meravigliosa, bellissima, che fa bene alla nostra fede, fa bene alla nostra umanità, fa bene alla nostra intelligenza, fa bene alla nostra estetica, alla nostra sensorialità, fa bene allo sforzo difficile, sofferto di volerci un pochino più bene, un pochino più bene, non si chiedono grandi cose fratelli e sorelle.
E chi dall’altare fa grandi proclami di beni assoluti, spesso li fa proprio perché la morale ha questa possibilità, di espandersi in sistemi normativi meravigliosi, assoluti, contemplabili dalla contorta vicissitudine delle nostre storie e poi se uno c’entra davvero tutto sommato non ha grande importanza.
Il Vangelo invece ci chiede quello che Paolo non a caso definisce –portatevelo a casa, conoscete questa espressione, ma quando ricapita nella liturgia è come la gemma “il buon combattimento della fede”, la buona contesa, il buon agone della fede e basta questo fratelli e sorelle, per cogliere tutta la complessità, in realtà semplice e liberante, di questo approccio, vorrei dirlo forse un po’ presuntuosamente tridimensionale, a questo mistero che si consegna attraverso la liturgia, tridimensionale, Padre, Figlio e Spirito Santo, non nella dimensione univoca del foglio di carta su cui è stampata la legge che però fratelli e sorelle, Paolo ci avverte, è buona a generare il peccato ma non a salvarci, ci salva proprio lo scoprirsi immersi in questo volume dinamico, tridimensionale, dentro il quale è bellissimo sentirsi perdonati, perché raggiunti dalla parola che ci ha cercato, che ci ha scomodato chiedendoci di venire qui, che ci ha chiesto di disarmarci dei nostri punti di vista, delle nostre certezze, ci ha invitato a scoprirci, fratelli e sorelle, neanche troppo diversi da quel Lazzaro che è senz’altro e prima di tutto il povero che scansiamo nelle strade delle nostre città, ma nel codice simbolico della liturgia se lo usiamo con intelligenza, noi non dovremmo faticare a cogliere che il Lazzaro sul quale i cani vanno a leccare le ferite, avendo un nome, che significa “il Signore si avvicina, il Signore è prossimo, il Signore aiuta, salva” -questo vuol dire in ebraico Lazzaro- siamo noi fratelli e sorelle, con i nostri nomi, le nostre ferite, le nostre storie, le nostre insufficienze, ma anche l’unica vera grande ricchezza di Lazzaro, il restare in relazione, lo schiudersi, l’aprirsi, alzando le braccia, invocando, attendendo, aspettando, questa è la differenza fondamentale, questa è la vera ricchezza di cui siamo consapevoli esattamente quando, a prima vista solo convenzionalmente, ritualmente nella liturgia, ci esponiamo e esponiamo i nostri corpi esattamente a questa sollecitazione incessante della rivelazione attraverso la quale il Padre attenua la sua inaccessibilità donandoci la parola, esponendoci all’intuizione di essere vivi, perché in comunicazione con Lui, immersi nella tridimensionalità storica, incontenibile dell’amore del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
Noi viviamo esattamente in queste coordinate, esattamente in questi filamenti di luce fratelli e sorelle, concretizziamo i contenuti della nostra fede con tutto lo sforzo immaginifico che lo Spirito può e deve e vuole destare in noi, nella nostra intelligenza, nella nostra fantasia, nella nostra sensorialità, usciamo dalla cerebralizzazione della nostra fede.
E questa prospettiva fratelli e sorelle, è esattamente tutto il contrario di quello che nella prima, ma anche nel Vangelo vengono evocati alla nostra intelligenza come quei tratti di disimpegno, assuefazione, saturazione, narcosi, necrosi del nostro cuore, dei nostri sensi, della nostra intelligenza, della nostra sensibilità, della nostra sollecitudine, in una parola della nostra umanità, stando sdraiati su quei triclini che nell’orizzonte della cultura ebraica, cultura, fratelli e sorelle, che nasce nel deserto, una cultura seminomade che cammina e che vede con orrore, con orrore, questi ricchi romani, greci, che mangiano semisdraiati, credo sia davvero una costumanza orribile, meno male scomparsa dalle nostre consuetudine antropologiche, doveva essere veramente una cosa oscena mangiare semisdraiati.
E ricordatevi fratelli e sorelle come mangia Israele la notte di Pasqua, in fretta, in fretta, perché la storia fratelli e sorelle, incalza, il bisogno, il limite, la necessità, l’oppressione, la cattività, l’indifferenza, incalzano e rendono la testimonianza del Cristo risorto, ricevuta attraverso gli ingranaggi della comunicazione trinitaria che sfondano i nostri cuori, in modo tutto speciale, qui e ora, rendono la nostra vita un meraviglioso, indifferibile e ineludibile combattimento della fede, della speranza e dell’amore. Amen!
La trascrizione è a cura di Grazia Collini
La fotografia è stata scattata da Samrang Pring in Cambogia, a Phnom Penh, il 9 marzo 2016 e ritrae un’eclisse parziale di sole