Omelie

«Dove muore, dove rinasce il nostro umanesimo?». Due omelie del padre abate Bernardo nel Tempo Ordinario

Kabul, Afghanistan, 20 giugno 2019 (REUTERS)

22 Agosto 2021 – XXI domenica del tempo ordinario (B)

 

Dal libro di Giosuè
In quei giorni, Giosuè radunò tutte le tribù d’Israele a Sichem e convocò gli anziani d’Israele, i capi, i giudici e gli scribi, ed essi si presentarono davanti a Dio.
Giosuè disse a tutto il popolo: «Se sembra male ai vostri occhi servire il Signore, sceglietevi oggi chi servire: se gli dèi che i vostri padri hanno servito oltre il Fiume oppure gli dèi degli Amorrèi, nel cui territorio abitate. Quanto a me e alla mia casa, serviremo il Signore».
Il popolo rispose: «Lontano da noi abbandonare il Signore per servire altri dèi! Poiché è il Signore, nostro Dio, che ha fatto salire noi e i padri nostri dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile; egli ha compiuto quei grandi segni dinanzi ai nostri occhi e ci ha custodito per tutto il cammino che abbiamo percorso e in mezzo a tutti i popoli fra i quali siamo passati. Perciò anche noi serviremo il Signore, perché egli è il nostro Dio».

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni
Fratelli, nel timore di Cristo, siate sottomessi gli uni agli altri: le mogli lo siano ai loro mariti, come al Signore; il marito infatti è capo della moglie, così come Cristo è capo della Chiesa, lui che è salvatore del corpo. E come la Chiesa è sottomessa a Cristo, così anche le mogli lo siano ai loro mariti in tutto.
E voi, mariti, amate le vostre mogli, come anche Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola con il lavacro dell’acqua mediante la parola, e per presentare a se stesso la Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata. Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo: chi ama la propria moglie, ama se stesso. Nessuno infatti ha mai odiato la propria carne, anzi la nutre e la cura, come anche Cristo fa con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo.
Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne.
Questo mistero è grande: io lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!

 

Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, molti dei discepoli di Gesù, dopo aver ascoltato, dissero: «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?».
Gesù, sapendo dentro di sé che i suoi discepoli mormoravano riguardo a questo, disse loro: «Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima? È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita. Ma tra voi vi sono alcuni che non credono».
Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito. E diceva: «Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre».
Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui.
Disse allora Gesù ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?». Gli rispose Simon Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio».

 

Omelia:

 

Fratelli e sorelle, Gesù accompagna la nostra umanità riproponendole ogni volta la possibilità di una radicale consapevolezza, di un inizio, di un nuovo inizio, di una genesi, per dirla in ebraico di un bereshit  che raccordi questo nostro fluido e logoro presente, così frammentario, così dissipante e dissipato, alla sorgente stessa della storia, della vita e dell’essere, sorgente che l”«in principio», en Archè, bereshit di cui lui ha singolare familiarità.

Ecco vorrei che questo scendesse come consapevolezza rassicurante e consolante, abbiamo veramente bisogno di essere rassicurati e consolati, fratelli e sorelle, in un tempo difficile e sofferto come il nostro, dove le magnifiche sorti e progressive di una globalizzazione che ci ha fatto sentire per un attimo cittadini del mondo, in una universalità disponibile ad essere decifrata, non con la lente parziale ma quanto meno esaltante, responsabilizzante dei diritti, ma quella molto più comoda del profitto, tutto questo è stato spazzato via dalla globalità della pandemia che ci fa sentire esposti al male, anche quello lontano, anche quello appartenente a scacchiere geopolitiche remote, come può essere Kabul, che in realtà anche in forza di questa contrazione degli scenari globali che la pandemia ha generato nei nostri cuori, la fa diventare periferia minacciosa del nostro quotidiano, sottile è sottile, ma forte forte abita in noi la paura di doverci immaginare un giorno anche noi accalcati se non a Peretola quanto meno in qualche altro aeroporto per scappare da un improvviso assalitore che ci impone le sue logiche folli di dominio, di fondamentalismo, di alterazione della nostra dignità.

Questa è la prospettiva fratelli e sorelle con cui dobbiamo serenamente fare i conti, serenità che scaturisce, e non deve più scaturire, dalla fallace idea che sono problemi lontani, la pandemia ha accorciato le distanze, davvero e dobbiamo fare tesoro di questa esperienza, nessun uomo è un’isola, ci avvertiva già la grande sapienza di cui si è fatto testimone il monaco americano Thomas Merton, ma non soltanto la mia singolarità è chiamata ad una esperienza di relazione,  di comunione, tutta la nostra comunità deve sentirsi famiglia umana, e deve trovare ragioni forti e affidabili con cui ciò che consola, ciò che rassicura non può essere soltanto l’autodifesa, ma la possibilità di scavare in profondità con tutte le risorse del nostro cuore, della nostra intelligenza, della nostra inquietudine, per tornare alle sorgenti dell’essere nella storia, al bereshit, all’archè, al principio.

Se noi fratelli e sorelle non ci assumiamo ostinatamente questa fatica, corriamo il rischio di subire le cronache, di non avere dentro di noi alcun assetto interiore, spirituale, intellettuale, psicologico con il quale contrapporci a questa frantumazione del reale, con cui sempre più dovremo misurarci e che però non vogliamo subire, siamo qui perché il Vangelo ci insegna, fratelli e sorelle,  una sorta di santo antagonismo con al fuoco la luce del discernimento, con la indagine appassionata di una memoria che sappia cogliere una porzione almeno della verità, un’esperienza almeno di affidabilità.

E allora voi avete ascoltato, bellissimo, questo momento di crisi del popolo di Israele con Giosuè che dice, siete liberissimi di scegliere l’idolo del momento, l’idolo contingente, dove vi trovate per esempio, cioè raccogliendo, si direbbe oggi, l’istanza volubile della moda, di ciò che appare dominante, accomodante, o invece fare un esercizio di memoria, capite questo tornare al principio, al bereshit, non è sterile filosofia per così dire, fratelli e sorelle, ma è questa disponibilità del nostro cuore di fare tesoro di tutta la vita, di tutta la storia, e di farlo sottoponendosi a un esercizio non soltanto umano, ma acceso dal fuoco dello Spirito, cioè da una luce che ci viene donata per non rendere frustrante questa possibilità che vorrei questa celebrazione     risvegliasse nel vostro cuore come essenziale della condizione umana, tornare all’origine.

Non subire il tempo come una corrente che ci porta inesorabilmente, come un torrente in piena verso la foce, risalire la corrente, andare alla sorgente.

E qui il popolo di Israele, almeno una porzione qualificata risponde, risponde con una memoria che lo riporta alla coscienza di una sorgente, di un bereshit, di un principio:  “Lontano da noi abbandonare il Signore per servire altri dei! Poiché è il Signore, nostro Dio, che ha fatto salire noi e i padri nostri dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile; egli ha compiuto quei grandi segni dinanzi ai nostri occhi e ci ha custodito per tutto il cammino che abbiamo percorso.”

Bellissima questa capacità di rilettura della propria storia, una rilettura che sia chiaro non accade accomodati su una poltrona, accade in un momento di prova per il popolo, ma è proprio la prova, la krisis che dovrebbe, se abbiamo questa disponibilità che stiamo cercando di recuperare con l’aiuto dell’ impianto liturgico, se noi abbiamo questa disponibilità fratelli e sorelle, è proprio la prova a suggerirci la lama con la quale dividere e separare ciò che immediatamente sembra l’idolo rassicurante, perché è l’idolo di questa terra, di questo crocicchio, di questo momento, scartato il quale andare con forza alla sorgente di quell’esperienza della quale posso oggi pagare alcune scomode conseguenze, l’esperienza della libertà, l’esperienza della responsabilità, che è esattamente quanto il popolo di Israele ha vissuto in Egitto, la fatica, guardate c’è un verbo essenziale che qualifica l’esodo nell’orizzonte lessicale e dunque esistenziale di Israele, uscire è sempre salire dall’Egitto, salire, quindi è una salita, è una fatica, noi immagineremmo, con i nostri criteri, la liberazione, l’uscita, come una grande discesa, non così Israele, per Israele uscire, vivere la libertà, è salire, ma questa è la prospettiva che in realtà in questa luce della riconquista di un bereshit, di un inizio, è una luce che ci piace, una prospettiva che ci affascina, perché solo attraverso la salita guadagniamo una vetta che mi permette uno sguardo di insieme, fratelli e sorelle, il recupero di una prospettiva qualificante dalla quale distendo lo sguardo, allargo il cuore, sviluppo i pensieri, e in un certo senso, riconquisto il futuro, sceglierò io dove scendere, valuterò io i rischi e la libertà di una potenzialità di un reticolo di sentieri.

Ecco, tutto questo fratelli e sorelle, non può e non deve accadere in una sorta di ostinata solitudine, anzi l’esercizio della memoria, della sorgente oggi, ce la propone il Signore che fin dall’inizio sa chi ha scelto il Padre e quindi ci chiede l’umiltà e la disponibilità di stargli accanto perché la sua presenza raccorda, compendia, contrae l’inizio e la fine, l’alfa e l’omega.

Abbiamo veramente bisogno del Signore Gesù, io vorrei restituirvi –perdonate la presunzione- la consapevolezza che non è, per così dire, inessenziale scegliere come compagno di viaggio il Signore Gesù, sceglierlo come compagno di salita, perché è esattamente colui che abita la terra, anzi sprofonda nella terra, per restituirci il gusto del cielo, in Lui terra e cielo per l’appunto si contrae, in una sorta di sintesi inestricabile ai nostri occhi, ma siamo qui per recuperare fiducia in quello in cui Lui è profondamente in rapporto al Padre celeste e in rapporto a noi stessi, ed è dunque questo suo esserci dal principio verso l’orizzonte estremo, verso l’omega, che lo riconsegna alla nostra consapevolezza credente come il compagno irrinunciabile, il maestro di fronte al quale possiamo dire che altre parole umane seducenti, accattivanti, non hanno la stessa portata, non hanno lo stesso scafo, la stessa stiva, lo stesso cabotaggio, non aprono a quelle prospettive aerodinamiche che, saliti finalmente in vetta, vogliamo fare nostre per un volo altrettanto esagerato, diciamo pure così, e vorrei che questa prospettiva dove l’umano e il divino e il cielo e la terra si mescolano alla finitezza e all’infinito, lo sprofondare e il risalire verso l’alto, il tutto giocato, sia chiaro, nei due poli essenziali dell’incontro col Signore Gesù, la sua carne, il suo corpo e lo Spirito, che sono i due poli che noi saremmo tentati di divaricare, Lui invece li riunisce, in questa prospettiva forte fratelli e sorelle davvero, non è affatto inessenziale decidere di stare con il Signore Gesù.

Tentazione, si diceva all’inizio di questa celebrazione, di vivere la krisis come possibilità anche per noi di allontanarci da Lui, anche per noi di tracciare percorsi individuali, costruirci in altre parole delle rivelazioni a misura delle nostre tasche, delle nostre paure, delle nostre angosce, dei nostri piccoli desideri capricciosi.

Invece oggi il Signore Gesù si presenta con questa possibilità di raggomitolare tutta la storia conoscendo intimamente i segreti del Padre dall’inizio e volendoceli proporre come parola e come Spirito, come carne di vita nella possibilità di alimentare il cielo che è in noi.

E tutto questo nella dimensione, torno a dirlo, perché è esattamente quello che spaventa i discepoli, e che invece oggi finalmente torna a sedurre i nostri cuori, la prospettiva della salita, lo avete ascoltato, quando il Signore Gesù ai suoi dice: “E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima? È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla”.

I discepoli si sono scandalizzati perché restano sconcertati dalla parola del Signore Gesù, dalla sua testimonianza di essere carne viva, pane vivo disceso dal cielo, e apre loro la possibilità liberante e qualificante, che non può e non deve scandalizzarci, di riconquistare il cielo, verso altri esodi, verso altre libertà, verso altre responsabilizzazioni della nostra esistenza.

E qui giungiamo fratelli e sorelle, in conclusione, a questa pagina bellissima di Paolo agli Efesini che, come forse sapete, è il grande documento che fa del matrimonio cristiano un sacramento: “Questo mistero è grande: io lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!”

E il mistero di cui parla Paolo è proprio la possibilità di vivere la relazione carnale, “i due diventeranno una carne sola” fra un uomo e una donna come accesso, esperienza, testimonianza e profezia dell’infinito amore del Cristo sposo per la Chiesa sposa e viceversa.

Dovessimo scendere in profondità su queste implicazioni la nostra omelia già confusa diventerebbe una riflessione sulla sponsalità, non ne abbiamo il tempo e forse oggi di altro dobbiamo parlare, cioè della possibilità che per estensione ricaviamo da questa pagina.

“Questo mistero è grande” si riferisce all’amore quotidiano, domestico, di una coppia di sposi, ma questo significa fratelli e sorelle, che questi grandi esercizi di libertà, di responsabilità, di esodo dalla paura, dalle costrizioni, dall’angoscia, di qualificazione di quello che ci rassicura e che ci consola, in una dimensione di salita per liberare le nostre ali, non ha altro scenario, non ha altro scenario, che la nostra quotidianità, che è il nostro servizio nel segno dell’amicizia, della sponsalità, della paternità, della maternità, del nostro essere, per grazia di Dio, nonni, nonne, cioè tutto quello che struttura di relazioni vitali il nostro semplice quotidiano.

Lì abita il mistero grande, che con la lente della fede, diventa l’indizio di come l’amore di Cristo sposo-Chiesa sposa abita la nostra storia, i nostri respiri, le nostre quotidianità, in un inevitabile agone con tutto quello che minacciosamente vorrebbe rompere quelle relazioni.

E allora fratelli e sorelle, abbiamo tutti negli occhi, e concludo, l’immagine di una salita paradossale, sconvolgente, questo tentativo di trovare ali e libertà aggrappandosi ad un aereo, credo che ce lo porteremo finché viviamo questo fallimento dell’umanesimo con dei ragazzi che volano da un aereo che non può assicurare loro libertà, questa immagine fallimentare non può essere banalmente smaltata con chissà quali vernici luccicanti che raccontano di paradisi artificiali, trovo che solo e soltanto l’immagine esodica e pasquale di una salita può vaccinare il nostro cuore da queste seducenti vie di fuga e delle loro risoluzioni, è un percorso difficilissimo che fa della nostra quotidianità un’unica, grande periferia metropolitana che sta al nostro discernimento, alla nostra disponibilità ad accogliere la durissima lezione dell’amore che il Signore Gesù ci consegna, per trasformare quelle città fatte solo di cemento in un giardino che riporti anche noi finalmente all’inizio degli inizi, l’Eden, il paradiso che per grazia di Dio  ci attende nel cuore della Gerusalemme celeste. Amen!

 

Domenica 12 settembre 2021 – XXIV domenica del tempo ordinario (B)

 

Dal libro del profeta Isaìa
Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio
e io non ho opposto resistenza,
non mi sono tirato indietro.
Ho presentato il mio dorso ai flagellatori,
le mie guance a coloro che mi strappavano la barba;
non ho sottratto la faccia
agli insulti e agli sputi.
Il Signore Dio mi assiste,
per questo non resto svergognato,
per questo rendo la mia faccia dura come pietra,
sapendo di non restare confuso.
È vicino chi mi rende giustizia:
chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci.
Chi mi accusa? Si avvicini a me.
Ecco, il Signore Dio mi assiste:
chi mi dichiarerà colpevole?

 

Dalla lettera di san Giacomo apostolo
A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha opere? Quella fede può forse salvarlo?
Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve? Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta.
Al contrario uno potrebbe dire: «Tu hai la fede e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede».

 

Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?». Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa e altri uno dei profeti».
Ed egli domandava loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno.
E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere.
Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini».
Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà».

 

Omelia:

 

Cari fratelli e sorelle, in questa domenica queste parole forti del Signore Gesù che ci interrogano, ci scuotono e mettono in crisi qualsiasi depotenziamento dell’adesione al Vangelo che scansi il mistero pasquale nella sua integrità, sono anche forse la migliore via per accedere ad una festa un po’ trascurata in realtà nella nostra consapevolezza e sensibilità liturgica, tra l’altro qui a Firenze è bene ricordarlo, il 14 settembre la Chiesa festeggia l’Esaltazione della Croce, in connessione anche  al ritrovamento delle reliquie della croce stessa, ma al di là di questo anche il riposizionare in una stagione dell’anno lontano ancora dalle celebrazioni dei grandi misteri, questa esperienza mortificante dell’amore di Dio, per lui anzitutto ma anche per noi che nella croce ci ostiniamo a trovare il vanto, fratelli e sorelle, niente di meno che il vanto della nostra adesione piena al mistero racchiuso nella persona del Signore Gesù.

Tra l’altro mi piace anche evocare ai miei fratelli anzitutto, ma a tutti voi come, nella consapevolezza di una variazione cromatica molto più intensa dell’anno liturgico nelle antiche tradizioni, in modo particolare senz’altro quella monastica, col 14 di settembre, Festa della Croce, iniziava un tempo assimilabile ad una sorta di quaresima estiva ed autunnale, di cui non vi è quasi più traccia e ricordo ma che ci dice un fatto importante, che è sempre bene ricordare, questa qualità del tempo liturgico funzionale ad essere come un prisma che moltiplica diversi colori dall’unica stessa luce per farci cogliere finalmente la variazione e il mutamento laddove noi non abbiamo più la strumentazione, il cristallo sufficiente per renderci conto che in realtà c’è molto più dinamismo in quello che troppe volte pensiamo, imprigionati come siamo in un tempo senza grandi qualità, senza grandi slanci, senza grandi rincorse che non siano i pur importanti, oggettivamente importanti, anniversari o stacchi e inizi dei nostri calendari civili e sociali.

Ma noi siamo qui proprio perché abbiamo veramente umanissimo bisogno di scoprire altra qualità nel nostro tempo e di lasciarsi educare da questa qualità che si misura per l’appunto scegliendo come paradossale meridiana quello strumento innalzato per ospitare la morte del Signore Gesù, che quando accade per l’appunto vede lo scomparire del sole e della luce e quindi anche un tempo, quello sì, veramente sospeso, quello sì, veramente sospeso.

Ed è questa prospettiva fratelli e sorelle che ci riporta inevitabilmente, come del resto in una pagina invece di ben altro segno, tutta luminosa, di guarigione, di rinascita, si diceva domenica scorsa di ricreazione pasquale dell’uomo ferito, il sordomuto nel quale il Signore Gesù in disparte, non esitava a specchiare e a specchiarsi, in una prospettiva che lo consolava e nello stesso tempo lo rianimava nel suo itinerario pasquale, dove avrebbe lui conosciuto la sfigurazione della malattia e del peccato e, anziché le mani che guariscono nelle orecchie, i chiodi che feriscono, per poi accedere per mistero a quella Pasqua la cui forte intensità di mistero e di sofferenza che svelava il divino era solo e soltanto intercettata alla fine del Vangelo dallo sguardo del centurione. Insisto su questi ricordi della “puntata precedente” per reimmettere la vostra attenzione in questo flusso continuo che è la parola, non solo la parola della liturgia di ogni giorno, ma la parola che di domenica in domenica ci conduce, direi proprio fisicamente, geograficamente, temporalmente, soprattutto se scegliamo come ferrovia a cremagliera il Vangelo di Marco, su quella collina del calvario dove si gioca fratelli e sorelle, un dramma veramente trinitario che è importantissimo riacquisire nella sua consapevolezza, nella sua articolazione, per restituire le nostre vite sfilacciate in quella profonda tessitura di relazione, di persone, di sangue anzitutto, quindi di amore. Sentire come rammendare le nostre stoffe sfilacciate, le nostre relazioni logore, le nostre temporalità e spazialità, segnate da consuetudini che ormai nulla di nuovo paiono dire al nostro cuore, è molto importante, non perché noi si voglia acquisire una forza che ci trasformi in superuomini e superdonne, capaci di avere una parola su tutto, capaci di prestazioni e di efficienze che ci rendano più forti, per così dire, del male e della morte, ma perché vogliamo imparare dal Signore Gesù e dalle relazioni nelle quali egli è completamente immerso, quella con Padre e con lo Spirito, come si possa anche noi nella nostra vita ospitare la morte, avere consapevolezza del peccato che dimora in noi, dell’oscurità che segna il pur insaziabile desiderio di luce, di come scoprire cioè dentro di noi una articolazione che, soltanto se distesa nell’orizzonte più vasto delle articolazioni trinitarie, finalmente ci apre a quella eccedenza, a quella ulteriorità che dilata i confini logori di quella consuetudine, che rafforza dal di dentro la tessitura del nostro esserci e lo ripropone in un quadro più vasto, in un orizzonte più ampio, in una responsabilità più ardente, in una consapevolezza più lucida del nostro niente ma anche del suo tutto, ed è proprio in questi passaggi che cerco vanamente di illustrare che, almeno spero si avverta, una qualificazione di cui ogni settimana abbiamo bisogno della nostra fede, della nostra speranza, del nostro amore, siamo veramente qui per questo fratelli e sorelle, cioè la partecipazione alla liturgia eucaristica è veramente sottoporre, per così dire, il nostro cuore, la nostra intelligenza, i nostri corpi, i nostri desideri, le nostre prospettive a quella officina delle anime, per usare l’immagine di Mario Luzi, che sola può riparare le nostre ferite, i nostri guasti e ricucire le ali che ci servono per questa prospettiva alta di vita, alla quale non intendiamo rinunciare nonostante più e più diversi segnali parrebbero indurci a doverci adattare a contingenze, provvisorietà, che esauriscano l’attimo nell’attimo, oserei dire tutto questo, una sorta davvero di esaurimento dell’attimo nell’attimo.

Per noi questo è dire una falsità sulla prospettiva alta, provvidenziale per l’appunto, nella quale si gioca la distesa della nostra vita, l’orizzonte dei nostri giorni e dobbiamo essere, per così dire, orgogliosi -una parola impropria in questo contesto ma la usiamo- di questo attaccamento ad una prospettiva alta della vita che è quella che il Signore Gesù assume, rimproverando molto severamente il divisore che è in Pietro il quale non a caso gli chiede di arrestarsi, di fermarsi, di bloccare questo suo cammino verso il mistero pasquale;  lo intende dal suo punto di vista preservare, proteggere, in un rannicchiarsi nell’istante dentro il quale dovrebbe consumarsi appunto quello nel quale abbiamo l’illusione di poter deporre la vocazione all’infinito, alla durata, all’eterno che il nostro cuore instancabilmente ripropone alla nostra logora anima, quando ci innamoriamo, quando soffriamo, quando sentiamo che qualcosa spinge la nostra vita a uscire da se stessa.

Quindi come intuite una prospettiva mi sembra molto bella e molto impegnativa, ma che intendiamo fare veramente nostra con rinnovata adesione alla prospettiva che il Signore Gesù assume con forza, chiedendo anche al satana che è in Pietro, di farsi suo discepolo, suo seguace: “Vieni dietro di me” così dice il Signore Gesù al divisore, un invito che in realtà il diavolo non si lascia riproporre due volte, effettivamente segue il Signore Gesù, ma certamente non nella conversione che ci si aspetterebbe e che spereremmo, che in obbedienza ad un filone molto esiguo, minoritario, ma che in questi giorni in comunità il teologo ortodosso Olivier Clément ha ricordato dalle pagine del suo bellissimo libro, non possiamo mai smettere di pregare anche per il diavolo, anche per il divisore, perché ritrovi le ragioni del suo esserci nell’amore di Dio e fargli finalmente obbedienza.

Ma il divisore accompagna il Signore Gesù, Pietro, fino alla croce per proporre l’esito fatale del suo stesso nome, dividere, diaballein, separando per così dire la relazione del Padre con il Figlio: “Se tu sei veramente il Figlio di Dio scendi da quella croce”,  è il cuore di una tentazione divisiva che slabbrerebbe tutta quella articolazione di amore insanguinato, ma proprio per questo reale, affidabile, della cui forza, della cui ampiezza, della cui reciproca generosità e donazione, quindi anche nel suo sfinimento, noi vogliamo potentemente ricollocare le nostre vite, ascoltando questa parola che arriva dal Padre attraverso il Figlio, nello Spirito Santo, cibandoci dell’amore del Padre comunicato al Figlio, reso nutriente dallo Spirito Santo nella nostra fame di Eucaristia cioè di vita divina, fratelli e sorelle.

E questa prospettiva è davvero il senso del nostro essere, un senso bellissimo, di elevazione con gli angeli, verso gli angeli, si diceva all’inizio di questa celebrazione, cioè la possibilità per noi di volare con loro, di contemplare un po’ meglio quelle relazioni, sentire che è in quell’amore vibrante e librante che sta il vero fondamento della nostra vita, il vero fondamento del nostro presente, la vera sostanza del nostro futuro.

Cacciando via la tentazione diabolica di fare dell’attimo l’assoluto, fare della sopravvivenza l’unica arma a nostra disposizione, l’unica risorsa per custodire questo briciolo di vitalità che è in realtà quel tempo di cui parlavamo all’inizio, senza qualità, logoro, inevitabilmente giorno dopo giorno invecchiandoci e togliendoci il fiato, il respiro, quella stessa energia vitale che invece impariamo a custodire, alimentare, rafforzare, donandoci cioè facendo vuoto dentro di noi, come ha fatto la dinamica trinitaria sulla croce, come fa la dinamica trinitaria sempre, movimenti continui dove il Padre si dona al Figlio, il Figlio dona lo Spirito, è un ruzzolare continuo che genera un vuoto che però diventa altrove pienezza di amore. Trasportata poi nel pratico, fratelli e sorelle, questa dinamica di amore significa obbedire al richiamo netto, chiaro, semplice, cristallino che ci fa San Giacomo oggi : “A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha opere? Quella fede può forse salvarlo? “

Raccontami la tua fede. E la mia fede diventeranno quelle opere che non sono, badate bene, l’esito del nostro frenetico, efficientistico, moralistico attivismo, come se più faccio, più guadagno, più mi salvo, in qualsiasi ambito da quello economico a quello spirituale, questo è un idolo, un idolo da smascherare, non funziona così.

Queste opere di cui parla Giacomo in realtà sono esattamente la disponibilità ad essere quella pienezza di amore, resa possibile dal  vuoto che patisce il mistero trinitario e che dovrò pur patire anche io, se voglio che questa pienezza di amore sia veramente quello che è l’amore, cioè relazione, uscita, guarigione, trasfigurazione, profezia, responsabilità, cura, non mancano le parole per segnalare come la dimora estrema dell’amore di Dio sia la nostra vulnerabilità, quello è il tabernacolo dove risplende la grazia di Dio, quello è il tabernacolo essenziale dove risplende la bellezza, la presenza, la forza salvifica storicamente oggettiva dell’amore di Dio.

E allora ecco in tutto questo noi riconosciamo non solo una storia che ci conduce verso quel futuro, per essere pronti, come ancora una volta non lo sarà Pietro -e il suo tradimento ce lo ricorda, raffigurato non a caso ai piedi di quella croce del tempo di Dante-  e non lo saremo nemmeno noi, però almeno proviamo ad attrezzarci per arrivare alla croce e vivere l’esperienza dello svelamento che solo il centurione, lo straniero, raccoglie, come manifestazione di quella paradossale vitalità dell’amore che sceglie la morte, l’ingiustizia, la sofferenza per esprimere lo spazio che, come amore, non poteva che desiderare, ci attrezziamo verso questo futuro per rispondere con forza a coloro che ci diranno, se tu ti sei dichiarato Figlio di Dio scansa la morte, scansa quel fallimento, continua a nutrire l’idolo di una sopravvivenza, tecnologicamente immaginabile come rafforzamento, scientifico rafforzamento delle mie pretese, delle mie presunzioni, della mia indifferenza.

Ma è anche una storia che ci invita a guardare indietro, non certo per restare prigionieri, ostaggi del passato, ieri tutto il mondo è tornato a guardare ad una vicenda simbolica di uno dei grandi fallimenti dell’umanesimo, abbiamo contemplato nei giorni scorsi quello non meno drammatico del volo di quei ragazzi dagli aerei che partivano da Kabul, ancora una volta l’esito contrario al nostro volo angelico di inizio celebrazione, era il volo di chi tentava la salvezza nel vuoto ingannevole, generato dall’altezza dei grattacieli messi a morte dal terrorismo. Sono immagini che non ricordiamo per fare colpi di scena o ubriacature emozionali, ma proprio per cogliere come ci sia una linea continua che si intreccia alla linea di luce che il Signore Gesù propone a ciascuno di noi, affrontando a viso aperto l’oscurità del male e la tensione della croce che in questa prospettiva iniziate a capire perché accolta, salvi veramente la nostra vita, in una perdizione d’amore che significa scialo dei nostri cuori, scialo del nostro tempo, scialo delle nostre pretese, scialo dei nostri diritti.

Ed è una storia che ci riporta a quella tensione che rimbalza verso il futuro e con il quale concludiamo, cioè il profeta Isaia, perché la forza dei profeti, soprattutto quando li leggiamo nella liturgia e nella lectio divina è proprio questa loro capacità di riportarci al passato e con questo movimento all’indietro acquisire l’energia per una rincorsa verso il futuro, a ricordarci che nella liturgia siamo in una meravigliosa macchina del tempo, acquisite questa consapevolezza fratelli e sorelle!

Qui è più facile a San Miniato perché è piena di simboli che si riassumono in quell’alfa e omega per dire che qui principio e fine, in Cristo, si toccano, ma si toccano veramente se non siamo schiavi dei minuti e allora vediamo col profeta a cogliere l’uomo simbolo di ogni sofferenza ingiustamente patita, e nello sguardo storico c’è la possibilità di cogliere colui di cui parla Isaia, ma anche quei due giornalisti disgraziati di Kabul, non so se vi siete resi conto cosa sta succedendo a chi prova a raccontare la verità di Kabul, nella libertà della testimonianza, lì come in tante altre parti della terra, sono testimonianze orrende di quello che hanno patito due persone che fanno lo stesso lavoro dei colleghi di Via Paolieri dove c’è La Nazione o dove ci sono gli altri giornali, e allora in questa rappresentazione che diventa veramente esemplare ed emblematica della sofferenza di ieri, di oggi e di domani, presentare il dorso ai flagellatori, questo è successo a Kabul, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba, non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi, per amore di libertà, per amore di verità, per amore di amore, ma cosa ci dice quest’uomo misterioso:

“Il Signore Dio mi assiste,
per questo non resto svergognato,
per questo rendo la mia faccia dura come pietra,
sapendo di non restare confuso.
È vicino chi mi rende giustizia:
chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci..”

Vedete come restare nella tessitura di queste relazioni, non significa scansare la violenza, il male, la morte, i martiri ci ricordano che anzi, quanto più entriamo in questa dimensione che fa l’amore con la verità e la libertà tanto più ci esponiamo all’attrito del male, ma resta vivo quello che il divisore voleva per l’appunto recidere e sfilacciare, la prossimità misteriosa, paradossalmente invisibile e oso dire, oso dire, tanto voi mi capite, per molti versi sostanzialmente inutile, di quel Dio che sceglie come suo splendido tabernacolo il riflesso di luce che brilla sul sangue versato dagli innocenti di ogni tempo. Inutile, voi capite con che senso paradossale lo dico, è l’utilità massima quella appunto di chi perde la propria vita, sapendo di ricevere in dono molto altro ancora. Amen!

Trascrizione a cura di Grazia Collini

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