Omelie

«Dall’ordinario allo straordinario». Quattro omelie per il Tempo Ordinario e una per il Mercoledì delle Ceneri

Domenica 28 gennaio 2024 – IV Domenica del tempo ordinario

 

Dal libro del Deuterònomio
Mosè parlò al popolo dicendo:
«Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto.
Avrai così quanto hai chiesto al Signore, tuo Dio, sull’Oreb, il giorno dell’assemblea, dicendo: “Che io non oda più la voce del Signore, mio Dio, e non veda più questo grande fuoco, perché non muoia”.
Il Signore mi rispose: “Quello che hanno detto, va bene. Io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò. Se qualcuno non ascolterà le parole che egli dirà in mio nome, io gliene domanderò conto. Ma il profeta che avrà la presunzione di dire in mio nome una cosa che io non gli ho comandato di dire, o che parlerà in nome di altri dèi, quel profeta dovrà morire”».

 

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi
Fratelli, io vorrei che foste senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso!
Così la donna non sposata, come la vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito; la donna sposata invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere al marito.
Questo lo dico per il vostro bene: non per gettarvi un laccio, ma perché vi comportiate degnamente e restiate fedeli al Signore, senza deviazioni.

 

Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, [a Cafàrnao,] insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi.
Ed ecco, nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spirito impuro e cominciò a gridare, dicendo: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!». E Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!». E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui.
Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!».
La sua fama si diffuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea.

 

Omelia

 

“Che io non oda più la voce del Signore, mio Dio, e non veda più questo grande fuoco, perché non muoia”.

Così Mosè rievoca le parole del popolo rivolte a Dio, parole che segnalano come posizionarsi davanti a Dio significhi subire una ferita, uno strazio, una rovina, cari fratelli e sorelle, significa esporsi all’incontenibile eccedenza del mistero che trascendendo tutto supera  anche la nostra umanità, la dilania con le esigenze taglienti di una parola che riconduce tutto di noi all’assoluto di Dio, alla sua dimensione sorgiva della realtà stessa, una realtà che non può risolversi, meno ancora rappacificarsi nella realtà stessa, ma trovare il suo compimento, il suo superamento nell’assoluto stesso di Dio.

Ed è davvero fratelli e sorelle quasi motivo di inquietudine che la difficilissima liturgia della parola di questa domenica ci mostri una sorta di analogia fra lo strazio inferto alla nostra condizione umana, una analogia fra lo strazio che subisce il popolo al cospetto del suo Signore che sa di esporsi alla morte, posizionandosi davanti al fuoco della parola di Dio, ma la liturgia della parola oggi ci illumina anche circa lo strazio subito da questo disgraziato che ospita, suo malgrado, nel proprio cuore la presenza di spiriti immondi, divisivi, spiriti che dilaniano con la loro forza disgregante quella consistenza personale resa di fatto, rovinata, da quella immonda presenza.

Oggi siamo dunque invitati credo, questo è lo sforzo interpretativo, a dover fare di fatto i conti circa l’indisponibilità della nostra condizione umana riportata al suo mistero, al suo profondo, alla sua radice, ad una esperienza generica di tranquillità, di pace, di benessere. Capisco di scomodarvi molto con queste parole, capisco di gettare la vostra sete comprensibilissima e ragionevolissima di serenità in una sorta di inquietudine sottolineando questi due aspetti oggi, così analogici, né lo spirito del male può darci pace ma vorrei anche dirvi con forza che neppure lo spirito di Dio ci dà pace, ma è anche vero che il nostro Padre, lo abbiamo detto all’inizio di questa celebrazione, è Padre di misericordia, Padre di amore, convoca Mosè e gli ricorda che quell’esperienza dilaniante subita dal popolo sarà risparmiata al popolo stesso perché egli susciterà, lo avete ascoltato, un Profeta che faccia quasi da intercapedine vivente fra il suo assoluto, la sua trascendenza, il suo essere incandescenza generativa di verità, di amore, di giustizia, dobbiamo veramente fare uno sforzo di immaginazione, ma facciamolo davvero, questo nostro Dio non è un ente geometrico, metafisico, il nostro Dio creatore è un Dio che assomiglia tantissimo, vorrei dire così, a un buco nero, tanta è l’energia creativa, tanto l’amore, tanta la forza plastica che pone altro da sé con uno sforzo creativo immane distanziandosi peraltro da ciò che ha creato per lasciarlo nella totale libertà, che questo Dio si consuma e consumandosi si rende incandescente, insostenibile al nostro sguardo e d’altra parte fratelli e sorelle proprio per questo dona il Figlio che porti la sua parola nel cuore del popolo e questo popolo finalmente, che siamo noi, sostenga e possa sostenere la parola, la rivelazione, l’amore, la creatività stessa del Dio che pone in essere le cose, avendo addirittura bisogno, pensateci, del sabato per riposarsi. Pazzesca questa immagine, questo significa che lo sforzo creativo di Dio in quei sei giorni operosi e laboriosi, deve essere stato davvero tremendo se il nostro Dio ha avuto bisogno di riposarsi, e non possiamo leggere queste parole come se fossero raccontini, narrazioni favolose che ci lasciano immaginare puerilmente un Dio che si mette a cuccia perché è stanco, questo significa davvero l’emorragia di energia che consuma il nostro Dio così da aver bisogno di un giorno di riposo e queste sottolineature ci pongono di fronte davvero all’insostenibilità dell’assolutezza trascendente di Dio ed è anche una mano tesa, una mano tesa ai fratelli, alle sorelle, “nobilmente pensosi”, diceva così in un suo mirabile verso Fra Davide Turoldo, che faticano a credere in Dio e che forse lo sentirebbero molto più vicino e credibile se recuperassero anche grazie alla nostra inquietudine, alla nostra sofferta mediazione, che il nostro Dio non è una astrazione intellettuale e cerebrale, non è una ragione d’essere del nostro esserci, la causa delle cause e tante altre pur raffinate speculazioni. No, questo nostro Dio è passione, è consunzione, è continua donazione che investe pienamente, vorrei dirlo anche qui oggi, vi chiedo pazienza per il mio linguaggio misticamente analogico dunque da non accogliere nella sua brutale letteralità, questo Figlio rovinato dall’amore del Padre, rovinato dall’amore del Padre, pieno di amore e nello stesso tempo consegnato, gettato, nella nostra laboriosa storia. Ed è bellissimo alla fine pensare questo, abbiamo da un lato l’immagine del Dio che si riposa di sabato e cosa fa il Figlio di sabato? Affronta gli spiriti immondi nella sinagoga, in un luogo che dovrebbe essere assimilabile a quello che pure è anche la nostra divina liturgia, un momento tante volte lo dico, di comunione, di pace, di ricostruzione di questa nostra configurazione umana attraverso il cantiere della parola che ci guarisce, della Eucaristia che ci nutre, certo è tutto questo, ma in questo contesto il Signore Gesù entra nel cuore di questa persona dilaniata dal male e faticosamente costringe all’obbedienza quei disobbedienti, quelle forze disgreganti che si sono staccate dalla economia di amore fra il Padre e il Figlio, quella circolarità di cui dicevo all’inizio di questa divina liturgia, dentro la quale questo momento di grazia insieme ci inserisce prodigiosamente, facendoci vivere nello stesso tempo il riposo del Padre nel nostro sabato che è la domenica, ma anche lasciandoci contemplare lo sforzo, la fatica, il dolore, la sofferenza, l’empatia del Signore Gesù con questo disgraziato, dentro il quale il Signore Gesù entra, così come era entrato, pensateci, nella terra per nascere dalla terra nella cavità della grotta, della mangiatoia di Betlemme, così come era entrato nella fanghiglia del fiume Giordano, nel letto del fiume per emergere da esso, ricevendo il compiacimento del Padre, lassù, che contempla come noi contempliamo oggi l’operosità del Figlio, la sua disponibilità ad affrontare, per restaurarli tanto gli elementi fisici della materialità del cosmo quanto le forze dinamiche, vibranti, disobbedienti del male, sprofondando il Signore Gesù nelle viscere del cuore di quel disgraziato.

Allora noi veramente fratelli e sorelle, siamo ancora una volta nel crinale, perché la liturgia è e deve essere un momento di unzione delle nostre ferite, di restauro, di riconfigurazione verticale di noi appiattiti su questo mare confuso, limaccioso della nostra storia e qui sentiamo che lo spirito su questo monte poi al massimo raddrizza tutto di noi, restituisce la dignità, non dell’uomo vitruviano come ci ha insegnato Leonardo e ci ricorda nella sua logica di profitto, l’euro che teniamo in tasca. Ma la verticalità del Signore Gesù che dopo la fatica del Giordano si erge per ricevere umilmente lo spirito, ma nello stesso tempo possiamo pensarci dispensati noi che osiamo per grazia, per mistero, per libertà, per chiamata, contemplare qui, ora la parola del Signore, il suo fuoco divampante? Possiamo pensare di poterci rivestire di una pellicola di amianto che ci risparmi dallo strazio, dalla rovina, che il Signore Gesù subisce per mandare in rovina il male che aggredisce quell’uomo? Pensiamo di poter essere intercessori, testimoni, mediatori della grazia cui qui assistiamo, ricevendo in dono tanta pace, consolazione, speranza, ed è veramente a piene mani tale dono del Padre celeste in questa divina liturgia. Ma pensiamo che tutto questo ci dispensi poi fuori dall’agone della storia in cui è chiesto anche a ciascuno di noi di immergerci sapendone lo strazio e la rovina, nei gorghi malefici che ostacolano, arginano, come dighe presuntuose il flusso di amore del Padre che Egli, con la sua emorragia di Padre riversa sulla storia attraverso la mediazione del Figlio, la luce dello spirito.

Ed è esattamente in queste dinamiche che sono nello stesso tempo geometricamente date, quassù in una astrazione che restaura il nostro sguardo ma anche misteriosamente contorte nel loro avvilupparsi fra le spire della storia, dove anche noi siamo gettati dalla libertà del Padre, dal suo affidamento di quanto ha creato con fatica, per consegnarlo alla nostra libertà, alla nostra responsabilità.

Ma il Signore Gesù, e questo è l’essenziale, questo è il frutto della nostra restaurata consapevolezza domenicale attraverso la liturgia, il Signore Gesù è con noi, la forza del suo spirito ci accompagna nello strazio, nella rovina, nella consunzione delle nostre piccole, povere, fragili certezze, nelle dialettiche delle contrapposizioni cui sembra irreparabilmente condotto questo nostro mondo, sempre di più ho la percezione, tutto diventa motivo di contrapposizione politica, sociale, culturale, non fai in tempo a dire da una periferia della città, bianco, che dall’altro si grida nero. Rosso e verde, i riferimenti non sono politici, sono per questa netta, sistematica volontà di estendere nei gangli vitali del tessuto organico della nostra vita di comunione e di socialità quello che questi spiriti immondi, prima di incontrare lo sguardo unificante e liberante del Signore Gesù, compiono, straziando quel corpo che è figura sia chiaro, della nostra socialità la quale potrà anche riconoscere chi sia veramente il santo dei santi, i demoni lo riconoscono ma non credono a lui, questa è la differenza, non basta conoscere, non basta riconoscere, occorre fratelli e sorelle che la conoscenza diventi fondamentalmente la ragione e l’effetto di quello strazio di passione che è l’amore. Si può amare senza consunzione, si può amare senza coinvolgerci in uno sforzo empatico che assorbe l’amato, perché l’amato assorba noi e questo verbo assorbire non è mio, è di Ireneo quando ripensa al Natale, il momento in cui egli dice, l’incorruttibile assorbe il corruttibile perché il corruttibile diventi incorruttibile. Pensate che questi passaggi fratelli e sorelle siano senza strazio, senza rovina, senza fatica? E dov’è il sabato del Signore Gesù se non in una sinagoga lottando contro il male, dov’è la sua domenica se non in quella faticosa risurrezione come ce la dipinge Piero, con quello sguardo stanco, il volto pallido, i muscoli flaccidi, consegnati alla gravità di una morte che tenterebbe ancora di ricondurre giù sotto terra, il Signore Gesù. Ma non può perché questo domenica dopo domenica la liturgia ci insegna, alla fine dei tempi, come quel sabato in sinagoga, anche il male e la morte dovranno obbedire all’amore del Padre. Amen.

 

Domenica 4 febbraio 2024 – V domenica del tempo ordinario (B)

 

Dal libro di Giobbe
Giobbe parlò e disse:
«L’uomo non compie forse un duro servizio sulla terra
e i suoi giorni non sono come quelli d’un mercenario?
Come lo schiavo sospira l’ombra
e come il mercenario aspetta il suo salario,
così a me sono toccati mesi d’illusione
e notti di affanno mi sono state assegnate.
Se mi corico dico: “Quando mi alzerò?”.
La notte si fa lunga e sono stanco di rigirarmi fino all’alba.
I miei giorni scorrono più veloci d’una spola,
svaniscono senza un filo di speranza.
Ricòrdati che un soffio è la mia vita:
il mio occhio non rivedrà più il bene».

 

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi
Fratelli, annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo!
Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato. Qual è dunque la mia ricompensa? Quella di annunciare gratuitamente il Vangelo senza usare il diritto conferitomi dal Vangelo.
Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero. Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno. Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch’io.

 

Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù, uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva.
Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano.
Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava. Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero: «Tutti ti cercano!». Egli disse loro: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!».
E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni.

 

Omelia:

Cari fratelli e sorelle condividiamo stamani con Giobbe questa drammatica diagnosi della nostra condizione esistenziale che con sofferta lucidità  la liturgia della parola osa donarci, anzitutto per lasciarci comprendere una volta di più che l’impianto di luce costruito dallo spirito sulla nostra umile ricezione del Vangelo di Cristo non è esperienza  religiosamente consolatoria, ma al contrario è un accesso al cuore della verità dell’amore trinitario e al cuore dell’amore trinitario si giunge, cari fratelli e sorelle, come ben sapete, attraverso l’assunzione libera e consapevole di quel travaglio pasquale che l’uomo Dio Gesù Cristo è venuto a vivere fino in fondo nella nostra terra, nella nostra storia, nella nostra carne, assorbendo la nostra fragilità per trasfigurarla nell’eterno amore di quel Padre verso il quale si orienta, nell’oscurità notturna della sua preghiera, per ricondurre anche i nostri passi, sedotti dalle luci cangianti della notte urbana, in quel monte deserto, simbolo di una immersione, anche per noi pasquale, nella silenziosa espressione della volontà salvifica del Padre.

Dunque movimento, itinerario, spazio, direzione, smarrimento, immersione, emersione, ancora una volta sono i verbi di movimento a tracciare percorsi che il Signore Gesù assume come direttrice esistenziale, ben lontana dall’essere un percorso trionfale ma al contrario cari fratelli e sorelle, un movimento che Egli assume tenendo per mano questa immagine bellissima che il Libro di Giobbe offre alla nostra consapevolezza di fede : “I miei giorni scorrono più veloci d’una spola, svaniscono senza un filo di speranza”.

Il Signore Gesù in quella immersione notturna nell’amore del Padre attraverso la sua preghiera, nella consapevolezza della sua precarietà, è la ricerca e il ritrovare un filo di speranza e questo filo di speranza per noi veramente necessario per affrontare sulle sue orme il suo itinerario pasquale, ci è dato attraverso l’esperienza rivelativa della sua amorosa presenza nel cuore delle nostre parole, dei nostri gesti, dei nostri silenzi, della nostra umiltà, della nostra obbedienza.

Non mi stanco di ripeterlo per appassionarvi ad essa, della liturgia stessa.

È esattamente in questo nostro ritrovarci insieme, come abbiamo cantato, che la nostra consapevolezza umana, altrimenti sfilacciata e disorientata, è restituita mediante la malta dello spirito, alla sua consapevolezza di essere costruzione voluta, progettata, dalla sapienza del Padre perché conformata intorno al modello dei modelli che è Cristo Gesù, sulla sua pietra si edifichi questa nostra ritrovata consapevolezza estetica che ci rende belli nella bellezza di Dio, che ci rende splendore nella luce di Dio, che ci rende armonia nell’equilibrio del suo mistero.

E dunque cari fratelli e sorelle, lo dico con grande rispetto per la ministerialità feriale e domenicale dei vostri parroci, oso dirvi che fate veramente bene a celebrare la domenica su questo monte, la cui vera diocesi, direbbe il monaco trappista Thomas Merton, è la notte, la penombra, il mistero, una appartenenza universale al cuore del Padre che almeno per un attimo si sgancia dalla territorialità per rapirci tutti in una dimensione di più intensa comunione, torno a dirlo, estetica, con il cuore dell’amore trinitario, tenendo stretto fra le mani questo ritrovato filo della speranza, espressione cari fratelli e sorelle, di una relazione possibile, sperimentabile, restituita a tutto quello che invece nel caos e nel dedalo del nostro procedere senza faro, sembra ormai sfilacciato per sempre, l’arte della relazione, l’arte di riscoprire, custodire, intessere il filo che restituisce a tutti noi una duplice consapevolezza, l’esposizione alla fragilità della vita, al rischio della storia ma nello stesso tempo la chiarissima e netta consapevolezza che in questo rischio, in questa vulnerabilità, non siamo lanciati senza che il Padre non si ricordi di noi, e l’espressione della memoria del Padre celeste è questo filo di relazione che noi ritroviamo, annodiamo, pettiniamo, esattamente in questo telaio, in questa orditura, in questa spola che è la divina liturgia, cari fratelli e sorelle, in tempo, in tempo di consunzione del mistero, in tempo di erosione della fede, in tempo di affievolirsi della speranza, in tempo di liquefarsi dell’amore, come possiamo pensare amatissimi figli e figlie in Cristo, di essere partecipi di questo filo sottile della relazione trinitaria, senza doverlo e poterlo alimentare in quest’esperienza che ci inserisce nei dolcissimi e tenerissimi ingranaggi dell’amore per trasformare le nostre vite in uno splendido arazzo, appeso dalla maestria di Dio alle infinite pareti del cielo, perché orni di bellezza e di significato e di verità la nostra città, non diversamente dalla facciata della nostra Basilica, frontespizio senza il quale non prenderebbe inizio e compimento la vicenda temporale della nostra città.

E allora, lasciamoci tessere come fili di speranza da questo telaio della relazione, e vi sarete accorti di cosa compie la suocera di Pietro, appena è stata guarita dalla febbre, ella si mette al servizio di colui che l’ha liberata dalla sofferenza e di coloro che lo hanno accompagnato. Non è questo un segnale di soggezione servile, nulla di tutto questo, mettersi al servizio dell’ospite, soprattutto nell’orizzonte medio orientale è davvero tornare a sperimentare la bellezza, la grazia, la libertà dell’ospitalità, dell’accoglienza, dell’intuizione che siamo visitati nel tempio del nostro amore da un amore ancora più grande perché sollecita gesti ancora più generosi, la guarigione, forse ancora più importante di quella del corpo del nostro cuore che senza paura e senza riserve e senza condizioni, accogliendo, dimostra di essere libero dall’essere ostaggio della paura, del sospetto, dell’indifferenza, vere paralisi del nostro cuore, vere anticipate necrosi dei nostri tessuti vitali.

Ed in questa bellissima prospettiva avvertiamo anche noi come quel popolo che cammina in mezzo a noi, colui che porta in mano un gomitolo di luce, pronto a diventare filo di speranza se ci lasciamo toccare nelle nostre ferite, nelle nostre vulnerabilità, nelle nostre fragilità, il Signore Gesù  soprattutto in Marco non opera con lo sguardo con la semplice parola, con la distanza, il suo processo kenotico cioè il suo processo di svuotamento è tale da chiedere ospitalità nella ferita del nostro corpo, raggiunto dal suo corpo, in una dimensione di contatto che ancora una volta ci segnala questa ipersensorialità tutta estetica che restituisce al nostro corpo la sua più vera vocazione, essere ancora una volta filo e strumento di relazione, con abbracci dati bene, forti e stretti, con sguardi sinceri che mettono a nudo l’intimo del nostro cuore mendicando l’intimità del cuore che guardiamo, con un ascolto radicale capace di ascoltare la parola nella parola, il canto nel canto, come dice in versi Mariangela Gualtieri.

In un’espressione cioè di pieno rafforzamento e trasfigurazione della nostra esperienza corporea che è il segno della nostra verità e che noi accogliamo come un dato di fatto senza lasciarlo immergere in quella dinamica pasquale dello spirito che invece è segno della guarigione che il Signore fa, attenzione, non di tutti ma di molti perché anche su questo Marco nel suo linguaggio scabro ed essenziale, quasi cronachistico ci avverte di dati teologici estremamente importanti per avventurarci nella ricerca del mistero di chi sia veramente colui che tutti cercano e lo cercano perché hanno la persuasione, illusione che tutti possano essere guariti da colui che a prima vista sembra davvero un guaritore sensazionale, un prestigiatore insuperabile, un mago capace di risolvere i problemi della nostra esistenza. Ed è per questo importante lo scarto fra il tutti e il molti e fra questi molti ci siamo noi, ognuno con le sofferenze, le piaghe spirituali, psicologiche, ahimè spesso anche fisiche, minacciosamente corporee che ci assimilano a quel Giobbe esistenzialista poeta di altri tempi che passa la notte rigirandosi, insonne enumerando le sue sofferenze, le sue paure, le sue angosce, incapace senza quel filo di speranza di sognare,  immaginare un qualsiasi futuro per lui.

Noi siamo fra questi molti non perché l’energia efficace del guaritore si è posata chissà se per caso o per qualche sortilegio su di noi rendendoci i fortunati di quella giornata, ma perché la nostra consapevolezza di umiltà toccata dalla misericordia, dalla grazia del Signore ci ha fatto finalmente intuire che senza entrare in una comunione profonda e perseverante con l’amore che ci precede, l’amore che ci sovrasta senza schiacciarci ma solo e soltanto per illuminarci, l’amore che ci converte, l’amore che ci orienta al compimento pieno, impossibile in questo orizzonte esclusivamente spaziale e temporale, la nostra vita resterebbe di fatto malata, se non fosse davvero toccata in profondo da quella mano, da quei gesti, da quegli sguardi, da quella comunione che inaugura cari fratelli e sorelle una Pasqua che non è magia, non è un salto acrobatico che ci risparmia dal male mediante chissà quale sortilegio e acrobazia, ma è davvero l’immergerci con il Signore Gesù in questa notte di preghiera, di vocazione, di montagna, di salita, di sudore, di silenzio nel cuore del Padre e questo Padre se tace non tace perché è cattivo, perché è indifferente, perché va convinto, va persuaso,  ma perché davvero il Padre è garante e sorgente di una libertà che lasciata a sé stessa sono le mille e mille variabili del nostro vivere contingente, nelle sue qualità ma anche nelle sue fragilità, nelle sue ricchezze ma anche nei suoi fallimenti, nella sua gloria ma anche nella sua mortificazione.

Ma non siamo soli cari fratelli e sorelle! Il Signore Gesù, Pasqua vivente come filo di luce è con noi introducendosi in questa verità scomoda che destabilizza perché destabilizza rivolgerci a un Padre nel silenzio della notte aspettando quando lui vorrà, l’orlo di un’aurora che segnala l’espandersi di un amore più forte delle nostre presuntuose libertà, ma nello stesso tempo è la certezza di un limite, di un orlo, di un confine varcato il quale attraverso le ferite della croce entriamo in una gloria senza fine.

Paolo ce lo dimostra, lo avete ascoltato, per lui obbedire al Vangelo significa farsi debole per i deboli, fragile per i fragili, povero per i poveri, farsi tutto per tutti ed è in questo scavo che egli si procura, intuendo la forza davvero portentosa della sofferta Pasqua di Cristo che egli diventa Vangelo vivente, che egli sperimenta un’eccedenza, un riconfigurarsi della sua persona , sciolta dagli antichi obblighi della legge per diventare nello spirito, libertà della libertà, verità della verità, amore dell’amore e lanciando anche a noi con la sua predicazione un filo di luce che in questa divina liturgia ci è dato di agguantare perché trascinati dalla forza dell’amore assunta con pienezza, perché nutriti dalla divina Eucaristia, condurrà anche noi sul monte santo, non più di notte ma in pieno giorno e il volto del Padre avrà la bellezza del Cristo e la bellezza del Cristo avrà il fuoco dello spirito e il fuoco dello spirito ci introdurrà in una vita senza più limite, senza più confine, in un perenne allelujare. Amen

Domenica 11 febbraio 2024 – VI Domenica del tempo ordinario (B)

 

Dal libro del Levìtico
Il Signore parlò a Mosè e ad Aronne e disse:
«Se qualcuno ha sulla pelle del corpo un tumore o una pustola o macchia bianca che faccia sospettare una piaga di lebbra, quel tale sarà condotto dal sacerdote Aronne o da qualcuno dei sacerdoti, suoi figli.
Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: “Impuro! Impuro!”.
Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento».

 

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi
Fratelli, sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio.
Non siate motivo di scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla Chiesa di Dio; così come io mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare il mio interesse ma quello di molti, perché giungano alla salvezza.
Diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo.

 

Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato.
E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito e gli disse: «Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro».
Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte.

 

Omelia

Cari fratelli e sorelle, oggi il Vangelo inscritto nella dinamica liturgica, ci fa letteralmente contemplare, come se noi fossimo davvero presenti a quella scena, attualizzata con potenza dalla forza dello Spirito Santo, ad un gesto di autentica ricreazione della realtà personale di quel lebbroso con una incisività, una nettezza, una essenzialità che tanto mi pare assomigli ai gesti creativi compiuti dal Padre celeste quando ha iniziato a porre in essere le cose che sono, un gesto anche allora segnato da una concreta fisicità, quasi demiurgico, questo confrontarsi con la materia appena creata, separandola, arricchendola, ornandola. Così ha fatto Dio creando le cose e non diversamente, come avete ascoltato e sottolineo contemplato, il Signore Gesù pronuncia delle parole, stende la mano, tocca ciò che intende risanare in un coinvolgimento in primissima persona nella concreta materialità di quanto si vuole attraversato dalla stessa energia creativa, e ora ricreativa, che scaturisce -viene davvero da pensare- non soltanto dal cuore, della volontà del Figlio, ma la volontà del Figlio indica ed esprime, manifesta e per tanti versi porta a pieno compimento l’intento creativo del Padre celeste che oggi ci viene comunicato in pienezza a noi che siamo spesso consunti, logorati, interrogati, sciupati, dall’attrito che la creazione sembra autonomamente, consapevolmente opporre a quella che è la volontà non solo del Figlio ma anche del Padre di accedere ad una esperienza piena, totale, di verità, di salvezza, di comunione, così che questa risposta del Signore Gesù, questo intento del Signore Gesù, questa manifestazione del Signore Gesù vorrei la riportassimo a casa cari fratelli e sorelle, non soltanto come il ricordo di un passaggio di una sceneggiatura bella, emotiva, consolante, cui abbiamo assistito, come si assiste ad un momento particolarmente intenso di un film, di un romanzo, di qualcosa che ha agito di fronte alla nostra intelligenza, ai nostri sensi, portandoci almeno per un momento in una realtà tanto affascinante e seducente quanto oggettivamente virtuale.

Non è così, la liturgia, con la forza dello Spirito Santo, mi verrebbe da dire, ci imprigiona, ci cattura, ci innesta nella verità performativa attuale, efficace dell’amore di Dio, trascinandoci in una realtà che nello stesso tempo si lascia decostruire dalla forza del carburante dell’amore del Padre e nello stesso tempo si lascia ricostruire da quello che quel carburante accende come forza, energia che su quella decostruzione agisce per restaurare, riconfigurare accomodare.

E noi siamo entrati in questo dinamismo altro rispetto a quello che succede fuori dal perimetro della ecclesialità liturgica dentro la quale siamo letteralmente precipitati  per renderci conto, cari fratelli e sorelle, che non abbiamo assistito e non assistiamo ad una sceneggiatura estrinseca alle esigenze profondissime del nostro cuore, ma direi di più alle potenzialità di coinvolgimento del nostro cuore che diventa veramente se stesso ascoltando, più ancora lasciandosi toccare dall’azione concreta, materica, oggettiva del Figlio che toccando anche la mia ferita, la mia impurità, la mia incompiutezza, la mia disponibilità a lasciarmi decostruire da questa premessa fondamentale all’opera nell’opificio liturgico, questo lasciarci tutti noi finalmente sgangherare, disarticolare dall’energia dello Spirito Santo che abbiamo invocato perché,  fin dall’inizio della nostra disponibilità liturgica col rito penitenziale la sua presidenza lavorasse per finire di divaricare quella timida apertura del nostro cuore che abbiamo provato a schiudere allo sguardo, alla mano, del Signore Gesù, perché attraverso quelle scissure la grazia lavorasse, dopo aver scardinato le nostre ultime resistente, si attuasse un processo di ricostruzione del nostro umano, così come il Padre lo ha voluto a sua immagine e somiglianza fin dagli inizi della nostra vicenda temporale.

Per cui cari fratelli e sorelle, ritornate a casa con la consapevolezza che il vostro essere stati qui vi ha restituito a quel momento sorgivo iniziale, inaugurale, della nostra vicenda temporale che oggi si riverbera nel nostro cuore con questa espressione fortissima del signore Gesù: Sì lo voglio!

E questo “sì lo voglio” vorrei tanto che vi accompagnasse, vi scuotesse fino alla prossima occasione di incontro, qui in questo perimetro ecclesiale perché lo Spirito Santo continua a lavorare, di decostruzione in decostruzione, in vista di un restauro e ancora una volta in un nuovo restauro  e questo momento forse davvero non casuale non sarà domenica prossima, ma avremo tutti la grandissima gioia di accogliere insieme il dono di un vero e proprio cantiere di ricostruzione dell’umano che si inaugura qui mercoledì prossimo alle ore 18 con la liturgia eucaristica arricchita e sostanziata dalla benedizione e imposizione delle Ceneri, che sono davvero l’effetto plastico, ancora una volta materico, di questa combustione dello Spirito che addirittura polverizza queste nostre presunzioni, queste nostre illusioni, di una autoconsistenza cari fratelli e sorelle, che sottratta al dinamismo dell’amore di Dio nella sua forza di libertà e quindi anche di rischio, di affidamento e quindi anche di umiltà, pensa di salvarsi da sola, cosa del tutto impossibile come bene sa questo lebbroso che sì, certo, dobbiamo rileggere anche attraverso le categorie del primo testamento che sono categorie particolarmente vetuste, ma non per questo così inattuali circa quello sguardo, si direbbe antropologico prima ancora che psicologico e meno ancora teologico in rifermento alla presenza del male dentro di noi, come espressione e ragione e interpretazione di un fallimento, di una inadeguatezza per certi versi di una maledizione da coprire , truccare, nascondere, smaltare, per sottrarci a valutazioni esterne, a giudizi affrettati, a tutta una dinamica di esclusione cari fratelli e sorelle che noi qui possiamo comodamente pensare sia un patrimonio di secoli e secoli fa, finalmente liquidato dal nostro progresso, ma non è così perché agisce dentro di noi la percezione di una equivalenza fra male fisico e male morale e peggio ancora nella plausibilità di una meritatissima colpa se quello o quell’altro sta male, se quello  o quell’altra vicenda ha colpito la mia sicurezza, forse rivelandomi chissà  qualche colpa nascosta.

Su tutto questo meccanismo che riporta ancora una volta al cuore, all’intelligenza dell’uomo, presuntuosamente nobilitata da dispositivi legislativi, agisce la parola del Signore Gesù che sgombra questa interpretazione autoreferenziale anche del male, perché esiste una presunzione del bene che conferisce a noi stessi il merito di quello o di quell’altra buona azione, ma cari fratelli e sorelle il nostro egocentrismo è capace anche di centrare su di noi il male e di spiegarlo per quella o quell’altra azione, per quella o quell’altra ragione, rivestendoci come è costretto a fare il lebbroso almeno fino alle labbra di valutazioni, giudizi, pregiudizi, meccanismi culturali che finiscono per seppellire ancora una volta sotto l’idolo del nostro IO quella fame, quella sete di libertà, di accoglienza, di guarigione, di pieno e definitivo reinserimento nella dignità libera della nostra condizione creaturale che ha spinto quel lebbroso ad avvicinarsi al Signore Gesù avendone avvertito nei suoi gesti di cura, di prossimità, di contatto fisico che Marco ci ha già raccontato, la possibilità per lui di non essere più oggetto di un giudizio quantunque nobilitato dal codice legislativo, ma di essere oggetto di un amore immediato gratuito e proprio per questo salvifico e liberante, espressione di una volontà di salvezza di cui questo disperato sonda, in un estremo tentativo di consegna di sé, l’effettivo dispiegarsi e si sente dire, come noi oggi cari fratelli e sorelle, che l’amore del Figlio e l’amore del Padre vogliono la nostra salvezza, vogliono la nostra libertà, vogliono la nostra guarigione, vogliono la nostra immagine e somiglianza filiale, non deturpata da alcuna malattia, da alcun pregiudizio, da alcuna rimozione, da alcuna censura, da alcuna cancellazione, ma al contrario cari fratelli e sorelle a volto finalmente scoperto la possibilità di essere come lo è Paolo immagine, riflesso, imitazione nel senso pieno, bello, performativo, creativo del Signore Gesù, l’uomo Dio Gesù Cristo, attraverso il quale -ci dice Paolo- è possibile arrivare a glorificare il Signore qualsiasi cosa noi compiamo, anche attraverso questo sgretolarsi dei nostri punti di vista per sforzarci -è bellissimo questo aspetto- di piacere a tutti in tutto, una dimensione che implica questo abbandono dei nostri criteri, delle nostre priorità, dei nostri piccoli grandi ragionamenti che spesso schermano rispetto alle aspettative di bene, di bellezza, di giustizia, di verità che gli altri non riescono a trovare in noi, chiusi come siamo nelle nostre ristrette presunzioni di qualsiasi tipo, ideologico, sacrale politico, tutto quello che mi fa essere presuntuosamente perfetto così come credo di doverlo e poterlo essere laddove invece questa liturgia della parola, insisto proprio per questo  sulla dimensione della decostruzione cari fratelli e sorelle, non per restare sotto il dominio del niente, come il cattivo nichilismo oggi dominante parrebbe consigliarci, ma al contrario per lasciare che lo Spirito Santo ricostruisca in noi quell’immagine, quella somiglianza che corrisponde all’ispirazione artistica, creativa del Padre celeste al momento della creazione e questo Vangelo ci riporta ancora una volta alla domanda delle domande: Perché esiste questa nostra benedetta e pur fragilissima creazione? Perché noi esistiamo se pure ci vediamo così sottoposti, esposti alla lebbra, simbolo davvero della cattiva decostruzione che la malattia e il male fanno lacerando i nostri tessuti. In questo la lebbra, con la sua forza contagiosa e decostruttiva è davvero il simbolo dell’esito di quel male che lasciato a se stesso nella sua autoreferenzialità, imparentata con la nostra presunzione  genera,  alterando la nostra bellezza e noi invece cari fratelli e sorelle, consapevoli del processo irrimediabilmente disgregativo della nostra consistenza umana, sottratta alla luce del Cristo eccome se ci lasciamo decostruire dallo Spirito perché sentiamo che questa lama ci taglia, certamente, ci giudica, se necessario, certamente, mette in luce le nostre contraddizioni, certamente, svela la nostra mortalità, così rimossa dalle nostre astuzie di sopravvivenza, certamente, ma lasciandoci toccare e sottolineo toccare dalla volontà salvifica del Signore Gesù, quello che stiamo vivendo in questa domenica mattina cari fratelli e sorelle, oltre a essere un riverbero dell’inizio degli inizi è anche, si direbbe oggi, un momento provvidenzialmente apicale perché in questo tempo storico di depressione, di tristezza, di rassegnazione, di inconsistenza della nostra consapevolezza umana esposta a tanto male fisico morale, storico, in questo momento risuona con chiarezza da dove venga la volontà del creatore, cosa ispira la volontà del creatore, verso dove si volge la volontà del creatore e la risposta è ancora una volta l’amore, la cura, il toccare, l’avvicinarsi, il riscattare, il liberare, cari fratelli e sorelle, riportandoci a quella argomentazione formidabile che i Padri della Chiesa hanno elaborato nella consapevolezza che certo, sì, Dio poteva anche non creare visto il tanto male che ha ferito e ferisce la sua creazione, ma se avesse rinunciato a quel gesto di amore significava che il suo bene doveva restare condizionato dal male, ma siccome la sua volontà di amore non può essere condizionata, ecco la creazione, nella sua libertà fragile, delicata, sofferta che tuttavia non significa la dimenticanza di Dio delle nostre vicissitudini, dei nostri tormenti, delle nostre fragilità, delle nostre perdite, del male innocente dei piccoli, delle guerre che sconvolgono il futuro della nostra umanità, delle malattie che colpiscono ciecamente tessuti della nostra vita organica e i meccanismi psicologici così esposti a meccanismi distruttivi che nemmeno la migliore psichiatria riesce per tanti versi a trasfigurare, ma noi oggi abbiamo questa consapevolezza generosa, gratuita che il Signore Gesù, scomodato da questo uomo assetato di verità, di libertà e di amore -perché sono tre cose sinonimo di vita- esprime in questo momento davvero che è architrave della nostra settimana.

Sì, lo voglio – cari fratelli e sorelle.

Sì, lo voglio.

E noi in questa volontà abbiamo la grazia di ripararci oggi perché risuoni, agisca e si radichi nel profondo del nostro cuore, ci renda somiglianti a questa volontà di amore del Signore Gesù, ci dia la forza di fare questa mirabile disobbedienza della persona guarita che si dimentica rapidamente le indicazioni del Signore Gesù, corre ad annunciare la ricreazione della sua vita perché è il suo nuovo inizio e il Signore Gesù si ritrova a vivere quello che lui viveva, la necessità di nascondersi, di ripararsi di escludersi da quelle città dove facilmente sarebbe diventato il mago, il prestigiatore di turno, per la forza delle sue azioni. Ma l’appuntamento con la verità filiale della sua missione non è la gloria della città, non è si direbbe con una certa necessaria autoironia, il Pegaso d’oro, ma è la croce cari fratelli e sorelle, l’oscurità di questa voragine dove il Signore Gesù, dopo essere entrato nella voragine oscura del lebbroso, accetterà di tuffarsi confidando nell’amore del Padre, sperando nella sua speranza, e reinserendo in quel modo, a quel punto pienamente definitivo, nello scandalo e nell’obbrobrio della nostra morte, della nostra ingiustizia, della nostra colpa, l’amore pasquale del Padre che lo libera con quella forza che è lo Spirito Santo che oggi ci decostruisce solo e soltanto perché si rinnovi la consapevolezza di essere tutti noi, cari fratelli e sorelle, pur nella rischiosa libertà della nostra creazione, il termine, il bersaglio, il destino della volontà di amore e di salvezza del Padre celeste, protagonista di una Pasqua che nessun male potrà mai arginare o ostacolare. Amen.

 

Mercoledì 14 Febbraio 2024 – Le Ceneri

 

Dal libro del profeta Gioèle
Così dice il Signore:
«Ritornate a me con tutto il cuore,
con digiuni, con pianti e lamenti.
Laceratevi il cuore e non le vesti,
ritornate al Signore, vostro Dio,
perché egli è misericordioso e pietoso,
lento all’ira, di grande amore,
pronto a ravvedersi riguardo al male».
Chi sa che non cambi e si ravveda
e lasci dietro a sé una benedizione?
Offerta e libagione per il Signore, vostro Dio.
Suonate il corno in Sion,
proclamate un solenne digiuno,
convocate una riunione sacra.
Radunate il popolo,
indite un’assemblea solenne,
chiamate i vecchi,
riunite i fanciulli, i bambini lattanti;
esca lo sposo dalla sua camera
e la sposa dal suo talamo.
Tra il vestibolo e l’altare piangano
i sacerdoti, ministri del Signore, e dicano:
«Perdona, Signore, al tuo popolo
e non esporre la tua eredità al ludibrio
e alla derisione delle genti».
Perché si dovrebbe dire fra i popoli:
«Dov’è il loro Dio?».
Il Signore si mostra geloso per la sua terra
e si muove a compassione del suo popolo.

 

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi
Fratelli, noi, in nome di Cristo, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio. Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio.
Poiché siamo suoi collaboratori, vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio. Egli dice infatti:
«Al momento favorevole ti ho esaudito
e nel giorno della salvezza ti ho soccorso».
Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!

 

Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro, altrimenti non c’è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli.
Dunque, quando fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipòcriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere lodati dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, mentre tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, perché la tua elemosina resti nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
E quando pregate, non siate simili agli ipòcriti che, nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
E quando digiunate, non diventate malinconici come gli ipòcriti, che assumono un’aria disfatta per far vedere agli altri che digiunano. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, quando tu digiuni, profùmati la testa e làvati il volto, perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà».

 

Omelia:

Cari fratelli e sorelle, questa pagina di Vangelo risuona inscritta nella proclamazione domenicale del Vangelo di Marco che ci educa da tempo a condividere col Signore Gesù una qualsiasi ripulsa verso una celebrità che renda visibile, percepibile, riconoscibile, ma anche strumentalizzabile il suo manifestarsi come segno e strumento di un amore che tocca, guarisce e risana. Il Signore Gesù cerca invece con le sue azioni di grazia, di ripararsi nel grembo di un mistero, quello del Padre, nella solitudine, nella penombra, in raccoglimento, in una preghiera autenticamente filiale, evitando in qualsiasi modo che sia abusato il suo volto, il suo nome, il suo agire, opponendosi così, in forza di questo abuso, ad una sua sistematica volontà di immersione nella Pasqua che lo attende, sapendo che la sua vera rivelazione, che accadrà per bocca del paradossale riconoscimento realizzato da un centurione, la sua rivelazione sarà davvero l’immersione nella morte crocifissa, un esito questo estraneo a qualsiasi nostra mentalità ed aspettativa.

E il Vangelo di oggi ce lo conferma, noi che saremmo tentati di compiere tutto per essere ammirati, conclamati, dall’approvazione del popolo siamo solennemente smentiti da questa prassi pasquale del Signore Gesù, da questo suo educarsi ed educarci attraverso l’attesa e la speranza, al manifestarsi della gloria del Padre celeste nei tempi remoti che Lui solo sa, in gioco è evidentemente la sua e la nostra fede filiale, il nostro tornare ad aprirci ad una volontà più grande della nostra, a tempi più ampi dei nostri, a spazi dagli orizzonti ben più vasti dei nostri, un apprendistato estremamente difficile e sofferto, cari fratelli e sorelle, ma che ci sembra essere ciò che solennemente inizia oggi per la Chiesa intera, nella sua dimensione –questa mi pare la sottolineatura delle prime due letture, Gioele e Paolo – la sua dimensione corale, popolare, sociale, la Chiesa come corpo interpersonale di un moltitudine che ci vede radunati, i piccolissimi, penso alla bambina di Filippo, penso al piccolo Jacopo, ma anche gli anziani, tutti sono radunati dallo Spirito, in questa azione, anche sociale nel senso più alto del termine sia chiaro, certamente popolare, perché popolo sacerdotale è la Chiesa, ma questa nostra obbedienza corale allo Spirito, passa –ed è questo il senso del Vangelo- attraverso la lacerazione che la lama dello Spirito, attraverso la parola ha operato  e continua ad operare ferendo l’intimità del nostro cuore, la singolarità della nostra vicenda biografica.

La nostra non è una coralità, non è una adesione sociologica, ideologica, che ci vede come un movimento che intende azzerare, o per lo meno relativizzare, la sacrosanta singolarità personale di ciascuno di noi, e che è invece cercata, desiderata, chiamata a interlocuzione dall’azione capillare dello Spirito Santo, cari fratelli e sorelle, ma questa azione capillare dello Spirito Santo ha come esito la scoperta di una vocazione comune, di una appartenenza  comune, di un movimento comune, direi proprio una liturgia comune.

Di questo adesso noi siamo espressione, come esito dell’ascolto personale, dell’agire della parola e dello Spirito entro il cuore di ciascuno di noi.

E mi sembra importantissima questa sottolineatura interpersonale perché ci prepara -anche a questo è destinato il nostro agire liturgico-  ad un apprendistato di una vera e propria coreografia che metteremo in scena nell’ebbrezza pasquale al termine di questo cammino che inizia oggi, attraverso una chiamata a raccolta nel segno dell’austerità, della sobrietà, nella consapevolezza intima e corale che potremmo riassumere cari fratelli e sorelle in questa affermazione semplice, lampante, quasi banale “i conti non tornano”,  le nostre presunzioni, i nostri aggiustamenti, i nostri tentativi di parare il colpo, di aggiustare il tiro, di giungere ad un pareggio di bilancio, non sono sufficienti, sono messi a nudo dalla lama dello Spirito Santo, ed è importantissimo dirlo con questa semplicità disarmante, un linguaggio direi banalmente commerciale, senza offesa per i fratelli che si dedicano a questo prezioso servizio per il bene della comunità, ma va detto con chiarezza, va detto con chiarezza perché nella nostra dimensione corale, anche sociale, deve giungere al cuore della storia e del mondo, cari fratelli e sorelle che fatichiamo consapevolmente il nostro cuore di ogni responsabilità, di guerra anzitutto, di ingiustizia, di separazione, di incomunicabilità, di dissipazione, di disperazione, di disillusione, in generale di un frazionamento, si direbbe oggi sistemico, di quella armonia intra ed extrapersonale che segnala e deve segnalare la nostra immagine e somiglianza del Dio relazione, Padre, Figlio e Spirito Santo.

E questa diffrazione segnala immediatamente cari fratelli e sorelle, che non amando Dio non amiamo il prossimo, e non amando il prossimo non amiamo Dio e non amando né il prossimo e non amando Dio non amiamo nemmeno noi stessi.

Si comprende davvero che diventiamo ostaggio, come ci ha lucidamente avvertito la colletta iniziale, che diventiamo ostaggio dello spirito del male, sempre attivo, sempre operoso, sempre seducente, sempre libero di attraversare i nostri tessuti sociali ma anche l’intimità del nostro cuore, e questa consapevolezza cari fratelli e sorelle, carica questa nostra adesione liturgica, dunque anche rituale, ma non per questo meno autentica esistenzialmente data, che ci fa essere qui  sulla collina che guarda la città, di una grandissima responsabilità evangelica, lo Spirito ci ha avvertiti e miracolosamente noi abbiamo risposto e intendiamo rispondere cari fratelli e sorelle, con l’unica risorsa possibile che ci è data e che per fare nostra l’immagine di Gioele, lasciando ancora una volta in tempi di fallace protagonismo antropologico, con tutti i rischi e i fallimenti del caso, e lasciare invece la priorità, la soggettività, il protagonismo dell’amore di Dio perché Gioele ci dice con grande coraggio e audacia che sarà proprio il Signore  a ravvedersi se manifestiamo un minimo di intenzione di avvicinarci a Lui, pochi centimetri, pochi centimetri in realtà, cari fratelli e sorelle, i propositi almeno fra di noi monaci sono  altisonanti ma l’esperienza ci insegna che dopo pochi giorni quei chilometri che adesso intendiamo fare con baldanza si trasformeranno in metri, probabilmente in centimetri ma non importa , non importa cari fratelli e sorelle, il Signore sa quanto sia inconsistente la nostra volontà di conversione, quello che ancora una volta, nell’orizzonte della fede pasquale che ci insegna il Signore Gesù è ricordarci  e soprattutto crederci al Dio che si ravvede dai suoi propositi di giustizia irata, ben motivata dalla durezza del nostro cuore, una durezza cari fratelli e sorelle che è alla radice delle guerre lontane e vicine, fra loro ma anche fra di noi, delle nostre durezze ideologiche, caratteriali, psicologiche, della nostra incapacità di pensare  cum corde, con il cuore, in concordia, nella consapevolezza cari fratelli e sorelle tanto elementare quanto opaca al nostro egoismo di una comune vocazione umana che il Signore ha donato ai nostri cuori, alla nostra intelligenza e che risplende attraverso l’universalità dell’amore di colui che ha  abbattuto ogni muro di separazione perché nessuna appartenenza religiosa diventasse il pretesto per farci guerra, mi riferisco naturalmente al Signore Gesù, l’uomo Dio Gesù Cristo.

Dietro di Lui camminiamo, Lui sì che fa chilometri e chilometri, ma dietro di Lui i nostri centimetri diventano misteriosamente passi forti, distesi, orientati tutti insieme a quella oscurità che celebreremo nel grande Triduo pasquale, nella teodrammatica di quelle ore essenziali  che ci vedranno volta volta nel buio, nel silenzio, nella parola, nella preghiera, nella speranza, nella disperazione, nel sorriso, nel pianto, fino a sentirci misteriosamente attratti, sedotti, trascinati verso una luce in cui avvertiremo che davvero il Padre celeste ha cambiato proposito, entra nella nostra storia introducendoci nel suo amore che    si ravvede per pronunciare una parola di alleanza, una parola di perdono, una parola di speranza, una parola di consolazione, una parola di ristabilimento della nostra verticalità umana e finalmente  filiale. Questa è la buona notizia cari fratelli e sorelle, in ordine alla quale iniziare a sintonizzare questi nostri sforzi di non perdere di vista questo straordinario movimento autenticamente quaresimale che fa il Padre verso di noi smentendo, osa dire Papa Benedetto in un momento altissimo del suo magistero, smentendo la sua giustizia pur di essere per noi pienamente amore.

Questo arriva a dirci Papa Benedetto fratelli e sorelle, questo è ribadito con insistenza dalla premura sulla misericordia che Papa Francesco ogni giorno raccomanda, perché la Chiesa sia questa compagine di speranza, di novità, di possibilità nuova accordata  all’uomo fallito, alla persona sbagliata, alla nostra condizione umana dimenticata, scartata, ferita, ci siamo noi dentro questa vicenda cari fratelli e sorelle, con un bagliore di lucidità chi si sente escluso e dispensato da questa autoconsapevolezza, dove agirà, insisterà il ravvedimento del Padre secondo la profezia di Gioele.

Allora tutti insieme cari fratelli e sorelle iniziando con questo gesto meraviglioso che la genialità della liturgia ha inventato per noi, questa polvere di cenere che in questo orizzonte pasquale a me sembra già davvero un polline di vita, sentire che siamo chiamati a fiorire di un amore, di una linfa, di una grazia, di una bellezza che lo Spirito intende restaurare in noi attraverso questo straordinario cantiere che si chiama Quaresima, dono, gioia, consolazione, riscatto per la nostra umanità e grande, grandissima esigente palestra dove si fatica, esiste una palestra dove il nostro corpo ritrova la sua forma senza fatica? Certo che no. E possiamo pensare di affrontare lo spirito del male senza assumerci l’impegno ad una fatica di essenzialità, di sobrietà ma direi soprattutto di lucidità e logicità nel discernimento che ci vede davvero cari fratelli e sorelle, profeti nella consapevolezza di come questo male lasciato a sé stesso finisca per inghiottire la nostra residua umanità.

In tempo di guerra non ce lo possiamo permettere, cari fratelli e sorelle, non ce lo possiamo permettere.

Sia la pace fra noi e Dio, sia la pace fra noi e noi, la grande, accorata, lucida, profetica risposta che annienti la seduzione dello spirito del male e neutralizzi i suoi colpi mortali dati alla nostra immagine e somiglianza divina. Amen

 

Le quattro omelie di padre Bernardo sono state trascritte da Grazia Collini

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