Omelie

«Dalla Pasqua di primavera alla Pasqua d’estate». Otto omelie del padre abate Bernardo per il Tempo Pasquale e per il Tempo Ordinario

31 Marzo 2024 – Messa della Notte di Pasqua

 Dal Vangelo secondo Marco

Passato il sabato, Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo e Salòme comprarono oli aromatici per andare a ungerlo. Di buon mattino, il primo giorno della settimana, vennero al sepolcro al levare del sole.

Dicevano tra loro: «Chi ci farà rotolare via la pietra dall’ingresso del sepolcro?». Alzando lo sguardo, osservarono che la pietra era già stata fatta rotolare, benché fosse molto grande.

Entrate nel sepolcro, videro un giovane, seduto sulla destra, vestito d’una veste bianca, ed ebbero paura. Ma egli disse loro: «Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. è risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l’avevano posto. Ma andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro: “Egli vi precede in Galilea. là lo vedrete, come vi ha detto”».

Omelia

Cari fratelli e sorelle, mi piace immaginare che questo giovane incontrato da queste donne nel sepolcro vuoto del Signore Gesù corrisponda stasera ad una presenza non meno viva, palpitante e indicativa di una novità per noi irrinunciabile che corrisponde alle più alte e profonde pretese di un cuore che riscopriamo indisponibile a qualsiasi misurazione e quantificazione che ne sopprima l’incommensurabile propulsione di amore, di fantasia, di creatività e di vitalità.

Questo giovane credo sia proprio il vostro cuore finalmente risorto perché davvero, ascoltando con amore e umile ricezione della sua portata di verità la profezia di Ezechiele,  scopriamo che assieme al  Signore Gesù risorge il nostro cuore, è risorto il nostro cuore, un cuore finalmente di carne, un cuore abitato dallo Spirito, un cuore disponibile a meravigliarsi, a stupirsi, a riconoscere che tutto ciò che per obbedienza al tempo e alle leggi della natura altro non può fare che invecchiare, invece stanotte per un prodigioso capovolgimento dello scorrere dei minuti, irrompendo l’amore del Signore dal suo futuro, trova la nostra interiorità immersa in una primavera, una primavera che siamo dovuti andare a cercare nelle tenebre, tanto irrespirabile e fosco era il cielo della nostra città in questi giorni di scirocco, uno scirocco che ci ha riportato nell’atmosfera di una sorta di Morte a Venezia fiorentina, se vi ricorderete questo capitale romanzo di Thomas Mann che racconta esattamente questa parabola discendente di una bellezza sottratta all’impeto dello Spirito, un impeto dello Spirito che spesso esiliamo dalle possibilità autentiche e plenarie della nostra esistenza; in fondo è quanto stavano per fare anche queste donne, pur discepole attente e fedeli del loro Signore, andavano ad ungerlo con aromi pensando di trovare un corpo bisognoso di questo estremo gesto di cura, di attenzione, di conservazione, ignorando ed escludendo la possibilità che ben altra unzione quel corpo aveva nel frattempo ricevuto, l’unzione dello Spirito, l’amore del Padre, l’ingresso nella nostra storia di una energia vitale, creativa, trasformante, trasfigurante, davvero un mulinello incontenibile di energia che giunge fino ai recessi del sottosuolo portando il vento fresco, limpido, serafico di una energia vitale che stanotte noi torniamo a riconoscere come la vera protagonista della nostra vicenda temporale, logora quanto si vuole, ferita, abbrutita dalla guerra, dalle contrapposizioni, dai dissidi, dalle disperazioni e tuttavia, cari fratelli e sorelle, lo Spirito ha scelto voi per essere vedette e profezia di questa insorgenza di amore che rende del tutto inutile qualsiasi ritrovato umano perché il vero protagonista stasera è davvero la vita divina che si fa strada nella nostra creaturalità, la vita divina come protagonista di un’opera di ricostruzione della nostra umanità, della nostra consapevolezza umana, della nostra storia, delle nostre ferite, addirittura cari fratelli e sorelle, della nostra morte, togliendole quel primato di definitività cui spesso ci condanniamo pensando che la nostra esistenza debba restare prigioniera dei suoi limiti biologici e terreni.

Stasera cari fratelli e sorelle, avete scelto di obbedire all’ispirazione dello Spirito che vi ha condotto fin qui per cogliere lo splendore della luce della Sapienza, ritrovare una strada, un percorso nella consapevolezza quasi gelosa che non potevamo dare ad altri la gloria della Sapienza, né i suoi privilegi ad una nazione straniera. Siamo tornati  a riprendere possesso di una consapevolezza filiale resa possibile dalla nostra fede, sia chiaro, sempre piccola, inadeguata, frammentaria, ma ci bastava quel poco di fiducia per spalancare il nostro cuore e lasciare che attraverso di esso entrasse questa energia vitale che rende del tutto superfluo, insufficiente, inadeguato quel tanto di calcolo umano che si arresta di fronte all’irrompere di una energia sapienziale che per noi stasera è il privilegio con cui riconoscerci i prediletti, i chiamati, gli eletti, gli scelti dall’amore del Signore, un rapporto di profonda intimità che non poteva non giocarsi in un talamo notturno, stasera cari fratelli e sorelle, davvero, nonostante l’anticipo d’ora dettato dalle regole di una presunta legalità, noi siamo già immersi nel profondo di una notte che corrisponde all’intimo, al segreto, alla riservatezza di un amore a tu per tu col Signore dando credito, vincendo ogni gelosia, alla fedeltà del nostro amante che ritorna, cari fratelli e sorelle, sui passi della nostra storia, che dimentica le nostre infedeltà, che gioca con una seduzione davvero invincibile, perché sceglie, sceglie la parte migliore della Chiesa, non in un senso morale sia ben chiaro, la parte migliore come quella dimensione, lo dicevo prima invitandovi a sedere, ancora scattante, generosa, senza calcolo, senza riserve, disponibile ad annientarsi pur di fare spazio al primato dell’agire amoroso del divino. Ed è molto importante questo aspetto cari fratelli e sorelle, perché noi oggi siamo capaci di tenere insieme, da un lato una esasperata amplificazione dell’antropologico, come se tutto il destino della storia e della sopravvivenza umana fosse affidato alle nostre risorse, alle nostre capacità, ai nostri dinamismi, alle nostre inventive tecnologiche e accanto a questa prospettiva ce ne sta un’altra, altrettanto drammatica, questo riduzionismo antropologico per cui la vita non vale più nulla, l’uomo, la donna, funzionano nella misura in cui sono performanti, capaci cioè, mediante una efficienza esasperata, come si suole dire, di tenere botta a questo innesco di meccanismi di autoconservazione.

Allora invece, salire quassù, di notte, fidandoci di una tenue luce di candela è veramente un percorso misterico, sapienziale al quale avete obbedito non temendo le tenebre, non temendo la sorpresa, lo stupore di avvertire che nel petto del nostro cuore c’è un giovane che ci avverte che la tomba è vuota, che è morta per sempre questa pretesa folle dell’umano di autoconservarsi senza lasciarsi visitare da un amore che ci dà appuntamento in luoghi insoliti, in spazi temporali mai frequentati, in situazioni anomale dove si riversa la sorpresa, lo stupore, la meraviglia, questo incontro nella cavità della terra, in questo ipogeo, in questa sepoltura, lì ci dà appuntamento con coraggio e con umiltà l’amore di Dio.

Per questo siamo entrati come se davvero fosse un sottosuolo, in questa Basilica oscura, un ventre, il ventre della balena di Giona, il ventre del corpo del Signore morto e ricostruito in tre giorni, fratelli e sorelle, un percorso simbolico, sapienziale, molto importante da recepire fuori dai dettami di un ritualismo semplicemente precettistico, è una avventura meravigliosa quella che abbiamo vissuto fra uno sbadiglio e l’altro, fra una distrazione e l’altra, nessun scandalo a questo proposito, deve funzionare così tutto quello che stiamo vivendo perché intende agire in un diaframma che è nello stesso tempo un confine, un limite, un valico fra intelletto e cuore, comprensione e sentimento, estasi e ragionamento. Davvero solo così, cari fratelli e sorelle possiamo avvertire che quella che finora è stata, in un momento drammatico di contrapposizione, di tatticismi, di violenza, la morte del Logos, questo Logos risorge stanotte nel nostro petto, è l’evento pasquale di cui questa storia ha veramente bisogno, la rinascita della Parola e rinascendo la Parola, forse rinasce anche ciò che è reso possibile dal Logos, il dialogus, il dialogo, tutta questa Parola che stasera abbiamo ascoltato è davvero l’articolazione nella storia della salvezza di un possibile e di fatto oggettivo dialogo fra cielo e terra, finitezza e infinitezza, temporalità ed eternità, naturalità e il Creatore, così cari fratelli e sorelle si dispone nel nostro cuore la possibilità di essere anche noi, piccoli tracciati biografici, invitati a porci in questa tensione, in questo fuoco e vivere e sentire così con forza una scossa di rinascita oltremodo importante, il Logos non è morto, è stato crocifisso ma l’amore del Padre gli ha restituito una eloquenza invincibile che ha liquidato per sempre il tradimento di Giuda, le pretese dei sacerdoti, l’assurdità di Pilato, tutta questa gente qui che sono i mediocri poteri di questo mondo, se ne sono dovuti andare via perché vince Cristo, vince la Parola, vince l’amore, vince la fedeltà del Padre, è una vittoria che noi possiamo già notare nel diario della nostra quotidianità, è la vittoria dell’amore, della misericordia, della grazia, sul nostro peccato, paradossalità si dirà, quante volte ci ricaschiamo, ma l’amore di Dio è così geloso di noi da farsi strada con questo suo moto seduttivo, ridandoci la consapevolezza, lo abbiamo ascoltato, che non c’è adulterio che tenga, tutti noi stasera ci riscopriamo vergini per tutta la grazia, la purezza, la luce che il Signore ha intessuto con grazia nel profondo del nostro cuore, quello che noi credevamo un sepolcro fetido, puzzolente, da nascondere, da rivelare a pagamento a qualche bravo psicologo, è divaricato e ne esce profumo e non profumo di aromi artificiali ma il profumo dello Spirito, della grazia, della luce, della Sapienza. Abbiamo veramente tanto, tanto, tanto, tanto bisogno di riqualificare l’umano attraverso l’umiltà che disegna un vuoto nella nostra interiorità perché ritrovi la sua strada la Sapienza del Padre e questa strada al Padre oso dire che gliela avete mostrata voi, cari fratelli e sorelle, salendo quassù.

Perché anche questo Padre, io penso, sia veramente stanco, sia veramente spazientito, disilluso, osservando l’ostinazione bellica dei nostri cuori, questa nostra rassegnazione che si traduce in una prassi di non fede, non speranza, non amore e direi anche di disaffezione alla grazia di bellezza che stiamo vivendo insieme in questa mirabile orchestrazione di cuori diversi, molteplici, ma uniti dallo Spirito che è la divina liturgia, così inattuale e tuttavia per noi così essenziale, rivelativa di questo evento di grazia che si riassume, lo ridico una volta di più perché ci terrei tanto che domani, quando vi scambierete gli auguri di Pasqua, siano auguri che scaturiscono dalla consapevolezza che assieme al Signore Gesù è risorto il nostro cuore.

È risorto il nostro cuore, di carne, poroso, ricettivo della Parola e come tale abitato dal Logos pronto a diventare dialogus con gli altri.

Altra via non abbiamo cari fratelli e sorelle per trasformare questo nostro controverso mondo in un luogo di pace, vogliamo forse rassegnarci alla guerra? Vogliamo forse essere fra quelli che osservano le cronache di guerra come un dato di fatto, incontrovertibile, insuperabile? Vogliamo delegare a quel presidente o a quell’altro presidente il diritto di pigiare dei bottoni che fanno saltare per aria la creazione di Dio? Vogliamo ridurci al macroscopico esito di questa assurdità che conferisce all’umano la possibilità di autoconservarsi, perché questo è il peccato di sempre e delle origini.

Noi rifiutiamo questa prospettiva, per questo siamo ridiscesi nel buio, nel niente, nel vuoto, fidandoci di una tenue candela, tracciando un cammino sapienziale che con la vostra umiltà torna ad attrarre l’amore del Padre nel cuore di questa nostra storia, siatene consapevoli, con umiltà, gratitudine, meraviglia e stupore: è risorto il Cristo dai morti, è risorto il cuore dalle ceneri della disperazione imperante e il vento polveroso di Sahara di questi giorni di scirocco e di questa Morte a Venezia fiorentina, si trasformerà in una Gerusalemme limpida e celeste dove la tramontana disperde ogni nebbia e restituisce lucentezza e brillantezza ai nostri occhi, ai nostri sguardi, e allora la Parola potrà tacere perché il dialogo sarà solo il silenzio di un abbraccio infinito di amore e di pace. Amen

Domenica 2 Giugno 2024 – Santissimo Corpo e Sangue di Cristo (b)

 

Dal libro dell’Èsodo
In quei giorni, Mosè andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore e tutte le norme. Tutto il popolo rispose a una sola voce dicendo: «Tutti i comandamenti che il Signore ha dato, noi li eseguiremo!».
Mosè scrisse tutte le parole del Signore. Si alzò di buon mattino ed eresse un altare ai piedi del monte, con dodici stele per le dodici tribù d’Israele. Incaricò alcuni giovani tra gli Israeliti di offrire olocausti e di sacrificare giovenchi come sacrifici di comunione, per il Signore.
Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini e ne versò l’altra metà sull’altare. Quindi prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: «Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto».
Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: «Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!».

Dalla lettera agli Ebrei
Fratelli, Cristo è venuto come sommo sacerdote dei beni futuri, attraverso una tenda più grande e più perfetta, non costruita da mano d’uomo, cioè non appartenente a questa creazione. Egli entrò una volta per sempre nel santuario, non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue, ottenendo così una redenzione eterna.
Infatti, se il sangue dei capri e dei vitelli e la cenere di una giovenca, sparsa su quelli che sono contaminati, li santificano purificandoli nella carne, quanto più il sangue di Cristo – il quale, mosso dallo Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio – purificherà la nostra coscienza dalle opere di morte, perché serviamo al Dio vivente?
Per questo egli è mediatore di un’alleanza nuova, perché, essendo intervenuta la sua morte in riscatto delle trasgressioni commesse sotto la prima alleanza, coloro che sono stati chiamati ricevano l’eredità eterna che era stata promessa.

Dal Vangelo secondo Marco
Il primo giorno degli Àzzimi, quando si immolava la Pasqua, i discepoli dissero a Gesù: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?».
Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi».
I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua.
Mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».
Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.

Omelia:

Cari fratelli e sorelle,  anch’io indegnamente con una brocca d’acqua vi sono venuto incontro e vi ho condotto in questa sala superiore, arredata, pronta, al secondo piano di una dimora alla quale ho inteso avvicinarmi perché poteste entrare nei penetrali più misteriosi ove potesse attuarsi profeticamente ed essenzialmente il grande gesto di donazione che di sé fa il Signore Gesù, una sala al piano superiore, bene arredata, che simbolicamente e oggettivamente restituisce a tutti noi la consapevolezza di poter partecipare ad un evento che potremmo definire veramente esoterico, nel senso buono di questa parola, non riservato a dei soli iniziati con un carattere esclusivo, teosofico, cui potrebbero comprenderne la pienezza del significato alcune persone risvegliate da chissà quale introduzione sapienziale. Ma certamente esoterico nel senso che abbiamo fatto, invitati dai gesti della liturgia, un passo che ci ha condotti in un luogo un poco più remoto dall’ordinaria scansione dei minuti, dall’ordinario metraggio dei nostri spazi.

Qui possiamo e dovremmo sentirci invitati in una realtà di più intima esperienza della verità e dunque dell’amore e dunque della luce, e dunque della sapienza, e dunque della grazia e dunque della vita che l’amore di Dio vuole  dispensare a tutto di noi e mi piace insistere, cari fratelli e sorelle, sulla possibilità di risignificare la nostra vita liturgica, la nostra partecipazione liturgica, la nostra decifrazione simbolica della liturgia come la consapevolezza di essere stati invitati in una stanza superiore, in disparte, in un momento di più forte sofferta intimità con qualcuno che fa accadere le cose così come le cose dovevano e devono accadere, avete notato che i discepoli trovano tutto come era stato detto loro e questo vi fa capire che anche la vostra partecipazione si svolge secondo una volontà prestabilita da sempre nel cuore del Padre celeste, senza sacrificare nulla della nostra libertà noi troviamo tutto come era stato disposto perché la nostra libertà si situasse in questa predisposizione d’amore del Padre celeste che ci ha attratto in questa stanza superiore, intima e segreta perché in effetti la nostra povera umanità partecipasse dei grandiosi movimenti che ha vissuto niente di meno che il sommo sacerdote dei beni futuri, il Cristo, che attraverso una tenda più grande e più perfetta non costruita da mano d’uomo, è entrato una volta per sempre nel santuario per ottenere una redenzione eterna attraverso il dono del suo sangue.

La lunga citazione dalla profondissima Lettera agli Ebrei dà sostanza pienamente cristologica a quello che noi stiamo vivendo con Lui,  in Lui  e per Lui ed è molto importante che le mie pur povere parole definiscano, prima ancora della vostra partecipazione alla divina comunione nell’Eucaristia, queste mie povere parole vi aiutino ad entrare fin da adesso nella possibilità accordata dallo Spirito Santo per volontà del Padre di sentire tutto di voi assimilato a questo movimento del Signore Gesù, il quale, lo ripeto, come sommo sacerdote dei beni futuri entra in un santuario non costruito da mano d’uomo che corrisponde teologicamente alla narrazione che il Vangelo ci ha fatto in riferimento a quella seconda stanza superiore dove i discepoli avrebbero trovato tutto come il Signore Gesù aveva annunziato, e così anche noi troviamo tutto disposto, preparato, dispensato come il Padre celeste ha pensato, anzitutto per il suo Figlio, il sommo sacerdote Gesù e per tutti noi con Lui.

E voi intuite facilmente come la nostra umanità abbia tanto bisogno di questo passaggio pasquale, abbia tanto bisogno di sentirsi invitata dal Padre e di riscoprire nella ritualità liturgica non un codice scritto da altri uomini perché altri ancora obbedissero ad una coreografia esteriore che in forza di chissà quale codice estrinseco, propiziasse una nostra eventuale esperienza di una benevolenza che dall’alto attraversa più o meno marginalmente i nostri cuori e la nostra intelligenza.

Nulla di tutto questo. Noi siamo pienamente assimilati a Cristo Gesù e a questo movimento di redenzione, di riscatto, di comunione, di partecipazione in virtù di un elemento che, soprattutto nell’orizzonte simbolico del mondo semitico è la vita, la vita in senso pieno, intangibile, la vita come mistero, la vita come fecondità, la vita come purezza, la vita come sacralità e questo elemento organico è il sangue da cui saremo aspersi per entrare nella vita, nel mistero, nella sacralità, nella purezza, nella dinamica redentiva, dunque liberatrice, pienamente pasquale operata dal Signore Gesù donando tutto di sé e sostituendosi alla logica inevitabilmente estrinseca e quasi mercantile dell’offerta di animali, presentati con purezza di cuore sia chiaro, con generosità, con zelo, con obbedienza agli antichi rituali ma pur sempre gesto estrinseco e dunque marginale rispetto alla lacerazione che lo Spirito Santo opera nei nostri cuori cari fratelli e sorelle, perché si mescolino queste emorragie, da un lato la nostra povertà, la nostra inconsistenza, dall’altro la trasfusione di amore, di vita, di pienezza, di purezza, del Signore Gesù che rende così, con la forza dirompente e incontenibile dello Spirito Santo, i nostri corpi fiala della vita divina, come si esprime la grande teologia orientale, fiala, ognuno di noi esce dalla divina Eucaristia trasformato in fiala di vita divina per questa trasfusione mediante il sangue dell’amore del Padre celeste in Cristo Gesù con la forza dello Spirito Santo.

E cari fratelli e sorelle offro la consistenza, la bellezza, almeno a me tale sembra e con tutta la sua carica di fecondità, di verità, di conversione, questo che vi sto dicendo, come possibilità accordata dall’amore di Dio che chiede di essere accolto, riconosciuto, di essere gustato, vorrei dirlo con un linguaggio ancora più maldestro e malandrino, tanto alta è la posta in gioco, questo Dio amore chiede veramente di essere sottratto, rubato, dalla nostra abilità che, illuminata dall’umiltà dei vostri cuori, vi e ci fa capire che se non ci facciamo lesti nell’acquisire questa refurtiva di vita, di speranza, di consolazione, di illuminazione noi ci domandiamo con insistenza sempre più grande cosa vale questa vita qui, cosa vale? Certo vale, nel suo disporsi come ragione etica di una profonda responsabilità in ordine alle grandi sfide della nostra società politica, civile, culturale, e vogliamo essere pronti nell’assumere questa responsabilità, costi quello che costi, ed è anche bello in definitiva che coincida la grande solennità del Corpus Domini con la festa che nel nostro ordinamento civile ricorda anzitutto la prima grande popolare partecipazione della intera cittadinanza, maschi e femmine, nella scelta della forma della nostra vita civile, repubblica o monarchia.

E non meno importante ancora la scelta di coloro che avrebbero avuto la fiducia del popolo nel redigere la carta costituzionale che è quindi un passaggio di importanza decisiva in cui peraltro non è mancato nell’aula di Montecitorio, si può dire con grande serenità e distacco laico, la voce dello Spirito in quei numeri della Costituzione in cui si parla di persona, di corpi sociali, di rimozione da parte della Repubblica degli ostacoli perché cresca la dignità dei cittadini, si distribuiscano le opportunità di educazione, di crescita anche materiale della cittadinanza tutta intera, si protegga la nostra storia, la nostra bellezza, la nostra cultura con il formidabile articolo 9, ahimè tanto disatteso, capitolo che protegge il nostro paesaggio naturale ma direi anche culturale, che fa della nostra penisola e le due isole un luogo benedetto dalla bellezza del Signore.

E ancora l’articolo 11, l’articolo 11 che vuole la Repubblica sempre pronta a ripudiare la guerra insomma, cari fratelli e sorelle, non a caso ho usato l’espressione che rimanda alla solennità di oggi, scoprirci corpo sociale, valorizzare i corpi intermedi, la sussidiarietà questa dimensione organica, relazionale, di reciprocità che fa della Repubblica, diversamente da altre prospettive politiche, non una piramide ma veramente una sorta di poliedro dove si incontrano le molteplicità con un senso di concordia, di unità, di condivisione dei destini, ma a me sembra che tutto questo sia uno dei tanti frutti della visione della persona e delle relazioni interpersonali che proprio questa grandiosa solennità ci educa a vedere come ragione estrema della nostra vita, delle nostre responsabilità, del nostro spenderci con amore, per amore, spezzando la nostra singolarità così come ha fatto il Signore Gesù con il gesto più antico della Chiesa, spezzare il pane, un gesto che compendia e riassume una esperienza di fede che in obbedienza al Padre celeste arriva a disprezzare se stessa sapendo che questo se stesso sarà attraversato dalla lacerazione feconda dello Spirito Santo, questo si prepara a vivere il Signore Gesù  e annuncia ai suoi in quel cenacolo che è profezia degli accadimenti che avverranno quando usciti cantando l’inno, raggiunto l’orto degli ulivi,  di poi il solo Signore Gesù verrà condotto sul Golgota.

Allora cari fratelli e sorelle questa serie di passaggi restituisce a tutti noi un assioma formidabile che sta al cuore dell’alleanza che nell’Eucaristia e con l’Eucaristia celebriamo, torno a dirlo con forza, come ragione di vita per tutti noi, irrinunciabile, lasciarsi amare, nutrire, trasfigurare per imparare ad amare, nutrire e trasfigurare il nostro cuore e le relazioni che da esso dipendono sotto ogni versante e in ogni direi impegno e responsabilità che ci viene chiesta in ogni ordinamento.

Ecco tutto questo cari fratelli e sorelle lasciandoci visitare dallo Spirito Santo nella partecipazione all’unico pane e all’unico calice ci renderà corpo ecclesiale, unto dallo Spirito, pronto ad assumersi ogni responsabilità perché le energie dell’amore acquisite nella stanza superiore, bene arredata e pronta per questa nostra alleanza, una volta che scenderemo nella stanza inferiore cioè nel piano della vita di tutti i giorni,  nelle geografie quotidiane, ci veda coerenti con l’amore ricevuto, espressione della sua vitalità e manifestazione di una speranza indefettibile alla quale il Signore Gesù, con l’arsura che sta patendo, ci ha assicurato: Berrò il calice della vita solo nel Regno del Padre. Con noi alla fine dei tempi.

Ci diamo questo appuntamento con Lui e nell’intanto, bevendo il suo sangue, ci disponiamo a dissetare gli altri cristi che, affamati e assetati, incontreremo nelle strade subito fuori della stanza inferiore. Amen.

Domenica 7 luglio 2024 – XIV settimana del tempo ordinario (B)

Messa del mattino

 

Prima Lettura

Dal libro del profeta Ezechiele (Ez 2, 2-5)


In quei giorni, uno spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi e io ascoltai colui che mi parlava.
Mi disse: “Figlio dell’uomo, io ti mando ai figli d’Israele, a una razza di ribelli, che si sono rivoltati contro di me. Essi e i loro padri si sono sollevati contro di me fino ad oggi. Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito. Tu dirai loro: “Dice il Signore Dio”. Ascoltino o non ascoltino – dal momento che sono una genìa di ribelli –, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro”.

Seconda Lettura

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi (2 Cor 12, 7-10)

Fratelli, affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia.
A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”.
Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte.

Vangelo

Dal Vangelo secondo Marco (Mc 5, 21-43)

In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono.
Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: “Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?”. Ed era per loro motivo di scandalo.
Ma Gesù disse loro: “Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua”. E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità.
Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.

OMELIA

Cari fratelli e sorelle, tutto di noi dovrebbe riassumersi, ricapitolarsi, risolversi, in una indicazione costantemente performante, oggi si direbbe, e che di fatto si lascia esprimere da questa affermazione: “Dice il Signore Dio”, che è quanto il Signore affida ad  Ezechiele, per risvegliare nella coscienza, nel cuore, nell’intelligenza dei suoi, della sua gente, del suo popolo, refrattari all’ascolto, all’obbedienza della parola del Signore, che è di fatto la vita del profeta, la presenza del profeta, il dono del profeta; significa restituire a tutti noi la consapevolezza di avere a che fare con un Dio parlante, un Dio interloquente, un Dio che cerca il nostro ascolto, la nostra attenzione, ascolto e attenzione che si risolvano in una adesione che premi lo sforzo, la tensione, l’autodonazione, che il Signore, parlando con noi, intende stabilire come possibilità di fare della distanza tra noi e lui, di fare della differenza tra noi e lui, una alleanza, che, lasciandoci nella nostra condizione creaturale e riconoscendo a Lui la signoria della creazione, faccia di questa alleanza uno spazio di comunione, un luogo trasformativo delle nostre esistenze, della nostra storia, di tutto quello che ancora, cari fratelli e sorelle, può accadere e deve accadere, se mediante l’ascolto e la fede, facciamo spazio all’eccedenza di Dio.

Mai come nell’orizzonte di questa parola, questa parola carissima alla riflessione di Romano Guardini trova una sua particolare contestualità, “eccedenza”: scoprire, cioè, come oltre l’apparente umanità del Signore Gesù, o meglio quello che sembra essere solo e soltanto umanità  del Signore Gesù, restituisce a noi gradualmente, ad orecchi, ai cuori, ai sensi, sempre più allenati dal suo amore, questa sorta di aura, di eccedenza, mediante la riconosciamo che in mezzo a noi agisce una pregnanza, una fecondità, una forza, che ha l’umiltà di nascondersi, di celarsi, per lasciarci liberi di interrogarci, di cercare, di accogliere le meraviglie di un amore tanto grande da riuscire a farsi piccolo per interagire con tutto quello che non abbia a che fare con la nostra paura, con la nostra soggezione, con uno spirito servile, con tutto quello che si lascia risvegliare dalla pedagogia che, parlando al nostro cuore, alla libertà, alla fiducia, a tutto quello che la pedagogia dell’amore di Dio vuole suscitare, potrà inserirci in una dimensione autenticamente, nobilmente, responsabilmente collaborativa con la grandezza infinita di Dio. E sentiamo, cari fratelli e sorelle, che in questo processo ne guadagna questa umanità, una umanità che Paolo ci ha delineato, in una pagina di straordinaria psicologia e antropologia biblica, segnata da ferite, da debolezze, da fallimento, da povertà, da tutto quello che è un pungolo indecifrabile e inconoscibile nella sua origine, nella sua ragione, che segnala questa ferita permanente del nostro cuore e che, tuttavia, proprio perché ferita, misteriosamente recettiva di quella eccedenza di amore che, ricollocando in un orizzonte di alleanza di parola – quella che fa dire al Signore (lo avete chiaramente ascoltato): “Vi basta la mia grazia, la forza, infatti, si manifesta pienamente nella debolezza” – è con questa parola, con questo impegno del Signore, che si stipula l’alleanza fra Lui e il cuore dell’apostolo Paolo; è la parola ascoltata che spiega, illumina, chiarifica, dà senso, compimento alla penuria di Paolo, e lo apre, quella parola, ascoltata e creduta, all’azione di una grazia che trasforma quella debolezza nella forza apostolica, quel fallimento nel successo apostolico, quell’irrisione nella simpatia apostolica.

Le dinamiche pasquali potrebbero continuare a lungo, cari fratelli e sorelle, ma a noi oggi interessa trarre, direi, una lezione di metodo, oltremodo essenziale in questo tempo che è tempo di crisi di fiducia, crisi di ascolto, crisi della parola, crisi dell’alleanza, crisi del dialogo. Basterebbe, fra mille casi, pensare, cari fratelli e sorelle, alla paradossalità, alla tragicità di questa incapacità di trovare un benché minimo accordo per un ragionevolissimo “cessate il fuoco”. Stamani la successione delle notizie delle agenzie di stampa era veramente così affliggente, così mortificante: lo stallo delle trattative del negoziato fra Israele ed Hamas e la sua, pare imminente, organizzazione di un attentato. Cari fratelli e sorelle, davvero, si coglie come ci si avviti nella spirale dell’odio, della violenza, della incomunicabilità, della minaccia della minaccia e della minaccia nella minaccia; un caso estremo, si dirà, certo, un caso estremo, ma che è la punta, cari fratelli e sorelle, di un diamante carbonizzato e che è tutt’altro che limpido e cristallino, che segnala queste altrettanto enormi pressioni che, anziché trasformare la parola nella purezza trasparente della fiducia, la trasforma in tizzoni consunti e combusti, pronti ad annerire la nostra dignità umana, incapace di fidarsi, incapace di dialogare, meno ancora di perdonare, meno ancora di credere, mediante la speranza, nel futuro che prepara Il Signore, figuriamoci, figuriamoci, se disponibile a credere nella profezia, figuriamoci se disponibile a interrogarsi se può esistere in mezzo a noi una testimonianza riconducibile a quel virgolettato: “Dice il Signore Dio”. Ezechiele non dice cosa dice il Signore Dio, a Ezechiele basta indicare la pregnanza del metodo mediante il quale riconoscere l’eccedenza d’amore del nostro Dio, il suo parlarci, il suo comunicarsi, il suo interrogarci, che lacera, apre, scuote qualsiasi struttura immobilizzata in sè stessa e nella sua presunzione di aver detto tutto, di aver udito tutto, di sapere tutto. Davvero il profeta e la sua parola, il suo semplice indicare che “Dice il Signore Dio” è come una lama, cari fratelli e sorelle, che, paradossalmente, lacerando e dividendo, crea, almeno lei, quella lama, quella spada, almeno lei, piovendo dall’alto, le condizioni per un dialogo; diventa, veramente, la buona separazione con cui Dio ha iniziato a fare le cose in questa nostra storia, in questi nostri spazi, e noi sentiamo, cari fratelli e sorelle, che se c’è crisi di dialogo è perché, effettivamente, c’è crisi dell’alterità, c’è crisi della buona distanza, c’è crisi del rispetto. Che significa guardarsi uno di fronte all’altro. Oggi è il tempo della commistione, della confusione, del caos, che sono le migliori premesse per l’assenza del dialogo, del rispetto, dell’ascolto reciproco, dell’alterità, dello scoprirci, direi necessariamente, l’uno diverso dall’altro. Per questo la metodologia che oggi acquisiamo è oltremodo importante, cari fratelli e sorelle, anzitutto, e non potrebbe essere diversamente, dal paradigma fondante della nostra libertà umana, cioè il paradigma della figliolanza, l’esperienza della figliolanza, l’alterità fra me e Colui che mi ha donato; alterità, cari fratelli e sorelle, che si ricompone, che si articola creativamente proprio grazie al dono della parola, grazie a questo affacciarsi del Signore come colui che “Dice il Signore Dio”; e noi sentiamo che questo nostro essere interpellati da questa grande offerta di senso, di significato, di direzione, di qualificazione, d’interpretazione della nostra vita, eccome se cambia il nostro cuore, perché fa una grandissima differenza tra il sentirci ricacciati in questa realtà senza aspettarci che nessuno ci parli, nessuno ci ascolti, e invece la possibilità di sentirci sì immersi in una avventura estremamente difficile ed esigente ma, nello stesso tempo, esposti alla possibilità di ascoltare la parola di Qualcuno che ci sta cercando, per donarci le chiavi interpretative di tutta questa debolezza strutturale, cari fratelli e sorelle, che subiamo, ormai, necessariamente, direi, confondendoci in essa e con essa, non avendo più alcuna postazione dalla quale ricapitolarla, darle una forma, un significato, un orientamento, una direzione.

E badate bene che il metodo altissimo che oggi ci viene insegnato non è un metodo sociologico, cioè di analisi della realtà da un altro punto di vista, il metodo rivelativo dell’amore di Dio è il metodo della mistica: è nella mia ferita, nella mia carne lacerata, nel mio caos, che io sperimento la chiarezza, lo spazio, la lacerazione che si fa nel mio cuore, l’amore del Dio, virgolette, “Dice il Signore Dio”; capite il passaggio essenziale, cari fratelli e sorelle, che è un passaggio che nello stesso tempo implementa e supera i nostri equilibrismi psicologici, le nostre metodologie fisiologiche, alla ricerca di questa unica sopravvivenza galleggiante nel caos, che chiamiamo “benessere”, ovvero tutte queste mitologie che sono la nostra forma di sopravvivenza minima, in una dimensione ormai decisamente compromessa e rassegnata, in questo orizzonte storico e culturale, e quando dico “compromessa” non pensate che usi questo termine con riferimenti morali o moralistici, lo dico proprio con una sorta di coinvolgimento esistenziale, insuperabile, senza il fiato, il volo, l’aria, il vento della speranza, la possibilità di scoprirci altro da tutto questo, e credo sia questo il contesto nel quale oggi, di fatto, oggi, non ieri, oggi, i parenti di Gesù, gli amici di Gesù, la gente del paese, in una parola, cari fratelli e sorelle, noi, noi, noi, di fronte all’eccedenza gratuita, incommensurabile, inspiegabile, per metodo, per significato, per efficacia, per coraggio, per gratuità del Signore Gesù, diremmo: “Ma da dove viene costui, ma chi è”, eppure ho delle categorie per contestualizzare questo fenomeno, e sono quelle categorie che, in realtà, sono le maglie dentro le quali soffochiamo, cari fratelli e sorelle, anche noi, oggi, indisponibili, per metodo e spesso per natura, a questa disponibilità alla lacerazione, che fa male, certo che fa male la lacerazione, certo che è esigenza ardua, ma non esclude, nel vastissimo e sovrumano silenzio del cosmo dentro il quale viviamo, la possibilità di ascoltare la parola del Signore, è esigentissima la possibilità di non escludere, nel microcosmo chiassoso e disordinato nel quale ci ricacciamo per distrarci da noi stessi, la possibilità di captare i riverberi della parola del Signore, “dice il Signore Dio”, del suo amore, della sua gratuità, di questa, direi, vampa di fuoco, cari fratelli e sorelle, che accende il nostro cuore, gli restituisce, con la percezione di essere amato senza “perché”, una dignità, che non sarà e non potrà mai essere avvalorata da indici e conferme di carattere estrinseco, sociologico, meno ancora di affermazioni di moda e di tutti quegli indici di gradimento che sono, generalmente, il nostro modo di galleggiare nella scialuppa del benessere in questo mare di compromissione; ma qui, cari fratelli e sorelle, abbiamo la grazia di riconoscerci tutti segnati dalla condivisione di una passione che ci ha tirato fuori, stamani, dalle nostre case, per chi poteva, ci ha tenuto lontano dalle nostre spiagge, dalle nostre colline, dai nostri monti, dalle nostre abitudini, dai nostri confort, per esporci, con umiltà, passione, dedizione, non certo alle storture cerebrali di padre Bernardo ma è la postura della liturgia il primo grande miracolo, essere qui, avere ammesso tutti insieme i nostri pungoli, le nostre debolezze, i nostri fallimenti, non essercene vergognati, l’averli fatti confluire nella coralità di un “Kyrie eleison”, “Signore, abbi pietà di noi”, e su questa lacerante destrutturazione accogliere la possibilità che in mezzo a noi aleggi il vento, la lama, il bagliore dello Spirito “Dice il Signore Dio”, “Dice il Signore Dio”, parlandomi di amore, come nella famosa canzone, parlandomi di amore, dunque, dando a me, come ha già dato a Paolo, la possibilità di rileggere nell’amore, con l’amore, dall’amore la storia delle mie ferite, delle mie debolezze, delle mie lacerazioni, delle mie contraddizioni, non lasciare loro l’ultima parola, ma diventare un corpo nuovo, una persona dinamica, inesausta, incombusta, come se fossimo satelliti, ruzzole, trottole, le immagini trovatele voi, da qualsiasi lessico, familiare, domestico, scientifico, siamo un turbine di vento, cari fratelli e sorelle, perché lo Spirito si acceso dentro di noi e non ci lascia come ci ha trovato, non può lasciarci come ci ha trovato, ci trasforma, ci consuma, ci ribalta, ci rivolta, una continua, inconsunta Pasqua vivente dentro la morte dei nostri limiti: questa è l’antropologia come si tratteggia, esponendo i nostri cuori alla lacerante lama della Parola, dello Spirito, e la divina eucarestia nutre, nutre, eccome se nutre, questa costante, vorticosa trasfigurazione della nostra personalità e delle relazioni che ne conseguono; la divina eucarestia – lasciatemelo dire, è un’immagine orrenda, da idrocarburo – però è la “benzina” che tiene queste nostre dinamiche, questo nostro tornado esistenziale, perennemente acceso, contro ogni rassegnazione, ripiegamento, contro la devastazione di questo compromesso che, come la vicenda di questa tregua che non si raggiungerà mai – Dio non voglia questo, Dio non voglia, Dio non voglia – nei nostri cuori almeno c’è la tregua per inaugurare una alleanza che mette in moto forze ancora più grandi di quelle che si fanno guerra, ma non per distruggere, per diventare pace, luce, comunione, orizzonte di speranza e di beatitudine, così che qualcuno, giù in città, incontrandovi, possa finalmente dire, ben virgolettato, “Dice il Signore Dio”. Amen.

Domenica 14 luglio 2024 – XV settimana del tempo ordinario (B)

Messa vespertina

 

Prima Lettura

Dal libro del profeta Amos (Am 7, 12-15)

In quei giorni, Amasìa, [sacerdote di Betel,] disse ad Amos: “Vattene, veggente, ritìrati nella terra di Giuda; là mangerai il tuo pane e là potrai profetizzare, ma a Betel non profetizzare più, perché questo è il santuario del re ed è il tempio del regno”.
Amos rispose ad Amasìa e disse:
“Non ero profeta né figlio di profeta;
ero un mandriano e coltivavo piante di sicomòro.
Il Signore mi prese,
mi chiamò mentre seguivo il gregge.
Il Signore mi disse:
Va’, profetizza al mio popolo Israele”.

Seconda Lettura

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Efesini (Ef 1, 3-14)

Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo,
che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo.
In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo
per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità,
predestinandoci a essere per lui figli adottivi
mediante Gesù Cristo,
secondo il disegno d’amore della sua volontà,
a lode dello splendore della sua grazia,
di cui ci ha gratificati nel Figlio amato.
In lui, mediante il suo sangue,
abbiamo la redenzione, il perdono delle colpe,
secondo la ricchezza della sua grazia.
Egli l’ha riversata in abbondanza su di noi
con ogni sapienza e intelligenza,
facendoci conoscere il mistero della sua volontà,
secondo la benevolenza che in lui si era proposto
per il governo della pienezza dei tempi:
ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose,
quelle nei cieli e quelle sulla terra.
In lui siamo stati fatti anche eredi,
predestinati – secondo il progetto di colui
che tutto opera secondo la sua volontà –
a essere lode della sua gloria,
noi, che già prima abbiamo sperato nel Cristo.
In lui anche voi,
dopo avere ascoltato la parola della verità,
il Vangelo della vostra salvezza,
e avere in esso creduto,
avete ricevuto il sigillo dello Spirito Santo che era stato promesso,
il quale è caparra della nostra eredità,
in attesa della completa redenzione
di coloro che Dio si è acquistato a lode della sua gloria.

Vangelo

Dal Vangelo secondo Marco (Mc 6, 7-13)

In quel tempo, Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche.
E diceva loro: “Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro”.
Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano.

OMELIA

Cari fratelli e sorelle, la pagina del Vangelo appena proclamata ci restituisce consapevolezza circa la determinazione storica e la vicenda narrativa che rende familiare un evento che, alla luce di quanto proclamato con l’apostolo Paolo, annoda la nostra vicenda esistenziale niente di meno che ad una premessa anteriore al tempo e allo spazio, giacché ognuno di noi, in quanto persona umana, è stata ed è stato desiderato, voluto e creato dal Padre prima della creazione del mondo, prima della creazione del mondo, dunque ci è chiesto lo sforzo concettuale, anzitutto, e insieme cordiale per poter trovare radici della nostra esistenza in una anteriorità invisibile e intangibile, e nello stesso tempo, cari fratelli e sorelle, a questa verità intangibile e invisibile accediamo, grazie alla concretezza e alla determinazione storica e spaziale, dunque temporale, dell’Amore incarnato, del Verbo incarnato, del Lógos incarnato, della Sapienza incarnata, della Bellezza incarnata, che  è l’unigenito figlio di Dio Gesù Cristo, il quale, amatissimo dal Padre, riversa su di noi l’amore ricevuto con le energie dello Spirito Santo, le quali, come avete ascoltato, estendono il potere di grazia, di comunione, di restauro della realtà creata anche a semplicissimi uomini, gli apostoli, che rappresentano il primissimo anello di questa concatenazione di grazia, di storia, di determinazione, che nella vicenda misteriosa della nostra appartenenza ecclesiale, attraverso il suo tramite, raccolga le nostre dispersioni nella somma unità del Figlio di Dio Unigenito, a sua volta unito al Padre celeste con il vincolo dello Spirito Santo e, nello stesso tempo, generativo di unità fra di noi, il mistero di quella comunione che, in un linguaggio più accessibile, siamo soliti chiamare, fraternità, che mai possiamo disgiungere da questa premessa di anteriorità che è l’unità dell’amore del Padre con il Figlio, preesistente alle cose che sono, quasi uno zenit che sta a monte delle nostre pluralità, e in quel vertice apicale, cari fratelli e sorelle, sta il fondamento e, nello stesso tempo, il riverbero di ogni esperienza che, vincendo distanza, disaccordo, disarmonia, menzogna, fa della nostra pluralità, spesso confusa e disarticolata, il fermento di unità, lo strumento di pace, l’annuncio profetico del Regno, che è la strumentalità della Chiesa nella sua grande missione, attraverso i metri e i minuti da essa percorsi, di ricondurre l’umanità tutta intera a questo vortice incontenibile di unità amorosa tra il Padre e il Figlio.

Questa premessa, cari fratelli e sorelle, è necessaria, è necessaria per rendere, seppur in modo rozzo e insufficiente per la mia povertà linguistica e intellettuale, delle straordinarie parole che Paolo consegna all’intelligenza della nostra fede, e nello stesso tempo, cari fratelli e sorelle, per cogliere che tanta profondità, tanta verità, tanta inaccessibile radice anteriore al tempo e allo spazio, si fa storia, si fa svolgimento, si fa esperienza, che è il nostro cordialissimo “volerci bene” in Cristo e, come voi sapete, per quanto prestate buona e generosa attenzione alle mie elucubrazioni, in forza ancora più efficace e feconda, con l’obbedienza di ognuno di noi a questa opera del Signore che plasma le nostre vite, nella divina liturgia e, cari fratelli e sorelle, accolti in questa basilica, tostata dal calore del sole cocente in questo pomeriggio ardente di Luglio, io che sono cresciuto a Prato, appena vedo il soffitto a capriate incandescente della nostra basilica, non penso alle architetture tardoromaniche o gotiche delle nostre chiese, penso, senza voler scandalizzare nessuno, alle fabbriche di filati, di lane, le rifinizioni, tutto quello che era, ormai, l’etica filiera del tessile a Prato, perché i grandi lanifici Campolmi, Biagioli, Cangioli, Becagli, erano tutte strutture che avevano questa copertura qui, in un caldo insostenibile, e dentro queste fabbriche piene di telai rumorosi, si vedevano, si vedono ancora, gli operai in canottiera, indaffarati a governare spole e quant’altro, ebbene, cari fratelli e sorelle, anche noi, anche noi siamo all’opera, nella grande filanda di verità, di amore, di comunione, che fa di questa nostra basilica, scaldata dal sole, un opificio, un opificio, una fabbrica, necessaria, insostituibile, dove stanno insieme, in una sorta di filiera, di mistero, noi contribuiamo, obbedendo alla liturgia, a che l’opera di Dio si renda visibile, avvolga, con la stoffa della sua luce e della sua bellezza, questi nostri sensi che faticano ad abbandonare se stessi per volgersi, in un volo di mistero abissale, verso quelle radici che precedono tempo e spazio, e che sono come la propulsione che rende questi nostri macchinari incandescenti, a ciclo continuo, nessuno può spengere alcun interruttore, semmai ci siamo resi conto di aver accelerati dispositivi di fabbriche nel mentre in cui abbiamo segnato questo nostro sudato corpo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, allora anche il nostro cuore è iniziato a ribollire, in attesa di essere messo a decantare, là dove l’acqua può raffreddare qualche circuito, ma, fratelli e sorelle, è incandescente l’opera di Dio: “Io e il Padre lavoriamo sempre”, così si legge nel Vangelo di Giovanni. E questo lavoro del Padre e del Figlio, in questa loro comunione polare, che genera calore, genera energia, genera scintille; questa nostra Chiesa è estensione e partecipazione, e siamo qui, cari fratelli e sorelle, perché, attraverso questi macchinari, tutto di noi si disponga a ritrovare le energie e la consapevolezza artigianale, industriale, manuale, creativa, fattiva, con cui prendere la via delle strade del mondo e proporre questa grazia, questa verità, questa parola, che ha agito nel nostro cuore, lo ha sfibrato, lo ha lacerato, lo ha fatto sudare, lo ha reso incandescente, perché, davvero, cari fratelli e sorelle, è nella liturgia che facciamo esperienza obbediente, contemplativa certo, per voi in gran parte silenziosa, ma sono lieto che questa esperienza contemplativa e silenziosa, che non a caso nasce nell’incandescente bacino mediterraneo, trovi nelle nostre caldissime basiliche lo spazio in cui accorgerci che i nostri corpi, esposti a questa energia, non possono che scaldarsi, non possono che sudare, non possono che affaticarsi; è importante tutto questo, cari fratelli e sorelle: l’evento a cui stiamo partecipando non è un evento intellettuale, non è un evento rituale, non è un evento semplicemente sentimentale, cordiale e affettivo, non è un’operazione di nostalgia, non è uno struggimento, non è nemmeno una pia devozione illusoria, che ci propizi qualche vantaggio, no, nulla di tutto questo, cari fratelli e sorelle, noi esponiamo tutto di noi al calore incandescente della grazia del Padre celeste che, entrando nel tempo e nello spazio, come una meteora, per forza di cose si accende e divampa, trovando l’attrito, ma in quell’attrito trovando anche dei varchi di ascolto, di accoglienza, di passaggio, come questo povero profeta minacciato da Amasia: “Tu non devi parlare”; “Io avevo la mia vita, ma quella scintilla è scesa nel mio cuore, lo ha dilaniato, trasformandomi in tizzone ardente, e come posso non bruciare? Come posso non ardere? Ovunque io sia, arderò! Ovunque io andrò, predicherò, ovunque io sarò, proporrò!”. E questo è il momento della combustione, cari fratelli e sorelle, che precede il vostro andare; non è cambiato nulla da quando sono state ispirate queste parole, nulla è cambiato, cari fratelli e sorelle, potrà essere cambiata, e giustamente, la nostra modalità di decifrare, di comprendere, per tanti versi, e anche più profondamente, tanto di ciò che circonda il mistero, ma nella sua essenza il dramma è il solito; ancora una qualche disponibilità ha il nostro cuore: lasciarsi accendere in questo travaglio, in questa gestazione, in questo opificio, in questa filiera, in questa filanda, all’ardore della parola, che, disegno di bellezza, attende di farsi stoffa di luce, di verità, di calore, cari fratelli e sorelle, per abbagliare, abbagliare, svegliare, svegliare la nostra umanità. Paolo, con il suo procedere mistico e didascalico insieme, cari fratelli e sorelle, accende un termostato che eleva la nostra temperatura con cui reagire all’irruzione di verità e di amore nei nostri cuori; un primo cortocircuito è la riconsegna della nostra verità che scaturisce da questa premessa metaspaziale e metatemporale: l’amore del Padre, che ci fa suoi figli adottivi, da allora in poi, lanciando, per così dire, una parola, che se accolta, risveglia in noi questa consapevolezza e porta in superfice la radice, come germoglio di bellezza, di speranza, di consapevolezza; coltivate il seme di questa parola! State sotto il sole, annaffiatelo, non oziate, non oziate, cari fratelli e sorelle! Perdonatemi se vi dico questo, e voi non lo meritate perché siete qui a lavorare con me sotto il sole; ditelo altrove: “Non oziamo, non oziamo!”. E poi, cari fratelli e sorelle, questa parola che è stesura di adozione filiale, porta con sé il frutto più bello dell’amore, quello che rimuove il senso di colpa, i condizionamenti psicologici, i nostri calcoli umani, i nostri condizionamenti, le nostre prigionie mentali, perché porta con sé il perdono, la misericordia, la grazia del cui splendore siamo chiamati a diventare lode, canto, espressione estetica, in altre parole, cari fratelli e sorelle, questa stoffa dovrà essere bella come un tappeto persiano, addirittura volante, perché leggero senza più il peso del peccato! Siamo pronti (terminata questa liturgia, c’è un po’ di corrente, calda, più leggera) a vivere questo mosaico come un tappeto volante che ci porta lontano, vicino al Signore, senza il peso della colpa, rimossa dalla Pasqua di Cristo! E infine, cari fratelli e sorelle, l’eredità, Paolo ci parla di eredità preziosa, che è la grande apertura al futuro, al futuro, che fa di questa nostra filanda uno straordinario periscopio di futuro; noi, cari fratelli e sorelle, credendo al Vangelo – lasciatemi dire così – anticipiamo le mode, anticipiamo la moda, capitemi bene, naturalmente, per carità! Siamo noi che aggiorniamo l’orologio del tempo, siamo noi che gli diamo impeto, sussulto, lo facciamo girare più veloce, accorciamo i tempi, le distanze, perché noi sappiamo di venire da prima del tempo e prima dello spazio; possiamo noi, quelli che abbiamo creduto nel Vangelo, essere sottoposti alle mode, ai condizionamenti? Certo che no, cari fratelli e sorelle! La campana misura il tempo e io vi consegno ad un silenzio di meditazione in cui placare i vostri cuori, perché sta per finire il nostro turno di lavoro, in questa mirabile filanda, ma il ciclo continua e altra stoffa, altri disegni, altre intuizioni vi attendono domenica prossima. Amen!

Domenica 21 luglio 2024 – XVI settimana del tempo ordinario (B)

Messa vespertina

 

Prima Lettura

Dal libro del profeta Geremia (Ger 23, 1-6)

Dice il Signore:
“Guai ai pastori che fanno perire e disperdono il gregge del mio pascolo. Oracolo del Signore.
Perciò dice il Signore, Dio d’Israele, contro i pastori che devono pascere il mio popolo: Voi avete disperso le mie pecore, le avete scacciate e non ve ne siete preoccupati; ecco io vi punirò per la malvagità delle vostre opere. Oracolo del Signore.
Radunerò io stesso il resto delle mie pecore da tutte le regioni dove le ho scacciate e le farò tornare ai loro pascoli; saranno feconde e si moltiplicheranno. Costituirò sopra di esse pastori che le faranno pascolare, così che non dovranno più temere né sgomentarsi; non ne mancherà neppure una. Oracolo del Signore.
Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore –
nei quali susciterò a Davide un germoglio giusto,
che regnerà da vero re e sarà saggio
ed eserciterà il diritto e la giustizia sulla terra.
Nei suoi giorni Giuda sarà salvato
e Israele vivrà tranquillo,
e lo chiameranno con questo nome:
Signore-nostra-giustizia”.

Seconda Lettura

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Efesini (Ef 2, 13-18)

Fratelli, ora, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani, siete diventati vicini, grazie al sangue di Cristo.
Egli infatti è la nostra pace,
colui che di due ha fatto una cosa sola,
abbattendo il muro di separazione che li divideva,
cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne.
Così egli ha abolito la Legge, fatta di prescrizioni e di decreti,
per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo,
facendo la pace,
e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo,
per mezzo della croce,
eliminando in se stesso l’inimicizia.
Egli è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani,
e pace a coloro che erano vicini.
Per mezzo di lui infatti possiamo presentarci, gli uni e gli altri,
al Padre in un solo Spirito.

Vangelo

Dal Vangelo secondo Marco (Mc 6, 30-34)

In quel tempo, gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. Ed egli disse loro: “Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’”. Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare.
Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero.
Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.

OMELIA

Cari fratelli e sorelle, siamo raggiunti da una parola che mette in luce quella che, potremmo dire, una vera e propria crisi della rappresentanza, oggi effettivamente useremmo questa dizione, una crisi della rappresentanza che segnala un’atmosfera di profonda sfiducia, di disgregazione, di assenza di una delega credibile, che contribuisce ad una sorta di depressione di quella tessitura prima di tutto empiricamente sociale, culturale, che ci fa sentire umanità viva, in grado di investire in se stessa, esperienza smentita da quella che potremmo definire la crisi di un calo demografico che, al di là della quantità, ci dice  l’estendersi di una squalificazione dell’elemento vitale come possibilità e ragione di impegno di ognuno di noi, nella storia, a farsi, di fronte a nuove generazioni che proprio per questo mancano, rappresentanza di una sapienza, di una autenticità, di una responsabilità che, disabitando nei nostri cuori, nello stesso tempo ci disabilita ad assumere questo ruolo decisivo nella premessa della promessa, in forza delle quali noi poniamo vita oltre la nostra vita. E questa crisi della rappresentanza è ben evidente nella parola profetica che abbiamo ascoltato, di un Dio che non si fida più di pastori che non sono pastori, di re che non sono re, di verità che non sono verità, di autorevolezza che non è autorevolezza e che si limita ad essere autorità… ognuno di noi può estendere nei propri personali ambiti esperienziali cosa significhi, nel concreto della nostra attualità, questa indicazione fortissima del profeta Geremia, che segnala questo impegno in primissima persona del Dio creatore, che scende nella storia per condurre in prima persona le moltitudini, in una direzione che esse potranno riconoscere autorevolmente indicata dal suo essere in mezzo a noi, senza alcuna rappresentanza.

Cari fratelli e sorelle, questa premessa è decisiva per cogliere ancora meglio la portata generativa della Parola che rappresenta qui, ora, in mezzo a noi, il desiderio del Signore di farsi presente senza mediazione alcuna nel cuore del nostro cuore; Egli parla per bocca di Geremia, avete ascoltato, di un germoglio che spunta – immagine abitualmente natalizia: “Germoglio che spunta dal tronco di Iesse” – portando pace, giustizia, difficile immaginarlo in questo momento di arsura, quasi di siccità, eppure questo ci dice la Parola: un germoglio spunta in mezzo a noi. Questo segnala, cari fratelli e sorelle, l’importanza della vostra, della nostra obbedienza ai ritmi del tempo dischiusi dalla sapienza liturgica che ce li fa leggere come esperienza che rafforzando la nostra sensorialità, oltre che il nostro cuore, la nostra intelligenza, ci invita ad accorgerci di quello che, altrimenti, resterebbe, di fatto, invisibile nell’inverno demografico che stiamo vivendo. Il mio ragionamento, cari fratelli e sorelle, cui, con la vostra consueta settimanale bontà, pazienza, misericordia, vi sottoponete, non è in termini, direi, semplicemente quantitativi: con “inverno demografico” sto parlando dello spegnimento del nostro cuore, di un orizzonte di investimento nella e con la storia, che fa assomigliare questo nostro mondo alle pareti di un vulcano spento, dove nulla riesce a crescere e dove questa spirale in discesa rende sempre più lontano il nostro cuore da una visione, che dall’alto di un crinale, di un orizzonte, sa annunciare “altro” da queste pareti scabre.

Mi rendo conto che la mia è una sintesi che potrebbe sembrare il secolare disprezzo del mondo che una certa letteratura ascetica propone, non è questo, cari fratelli e sorelle, non è questo il mio ragionamento. Il mio ragionare è l’introduzione ad un luogo paradossale dove il Signore sceglie di condurre i suoi perché si riposino: una barca per attraversare un braccio d’acqua e ritrovarsi nel deserto, dove riposarsi. Io vi invito a cogliere la paradossalità, l’incongruità di questa affermazione, perché credo che davvero ci obbliga ad una riflessione che ancora una volta sgancia la potenza dello Spirito dell’amore del Padre – che senza mediazioni, ora, qui, parla a ciascuno di noi – dalla lettera, sgancia, scuce, perché questo iato tra ciò che abbiamo letto, ciò che è scritto e ciò che avvertiamo nella forza dell’intuizione si apra anche per noi un braccio di mare, da attraversare su una scialuppa, accompagnati dal Signore, affrontando magari una tempesta che ha come mèta il deserto dove riposare. Domando: ci si potrà mai riposare nel deserto, cari fratelli e sorelle? Ci si potrà mai ristorare nel deserto? Eppure, ancora oggi questa pagina di Vangelo, che capita, per l’appunto, almeno in Italia, nel tempo estivo, viene generalmente divulgata come una pagina che incoraggi tutti noi a riscoprire uno stile evangelico del nostro essere vacanzieri; ma si può, io mi domando, ridurre, ridurre una pagina così drammatica ad un manuale di benessere vacanziero, cari fratelli e sorelle. Forse siamo indotti in questo per il fatto che, molto infelicemente e molto paradossalmente, cari fratelli e sorelle, in questo deserto, in questa crisi della rappresentanza, in questa scoperta da parte dei discepoli, segnati dall’attivismo del successo pastorale – abbiamo colto molto bene che c’è un mondo che gira intorno al Signore Gesù, perché anche questo è successo, come sempre succede quando ci sono personaggi con qualche carisma in più del solito, che intorno a loro gira un mondo – bene, gira un mondo, ma di fonte a questo frullare di parole, di energie, di successo, di apostolato, ci si scopre insufficienti; anche qui uno scarto, uno iato prezioso, ci piace che il Vangelo ci obblighi a considerare le lacerazioni, gli insuccessi, l’incontenibilità di quello che pure si vuole testimoniare; ma, fratelli e sorelle, questo germoglio che spunta, portando con sé uno scettro di pace e di giustizia, il Signore Gesù, è arrivato per le mani autorevolissime e fedelissime del suo maestro, e qui la crisi di rappresentanza non è, diversamente da quella rimproverata da Geremia, per la scarsa autorevolezza del pastore e dei sovrani del tempo, ma perché Giovanni il Battista viene ammazzato, Gesù perde il suo maestro, cari fratelli e sorelle, Gesù si sa e si riconosce colmo di carismi inviati per il bene di quelle moltitudini, ma nello stesso tempo subisce la morte del suo maestro, e questo Gesù resta orfano di quel magistero, di quella sapienza, di quell’accompagnamento, di quell’essere battistrada dei suoi percorsi: questa è la tragedia che vive il Signore Gesù, in forza della quale Egli sente di dover montare in barca e andare nel deserto, altro che per riposarsi, cari fratelli e sorelle! Altro che per svagarsi! Avrà magari detto così ai suoi, per accompagnarli ed educarli, cari fratelli e sorelle, verso quelle dinamiche pasquali di fronte alle quali, loro come noi e noi come loro, siamo così ciechi, sordi, ovviamente indisponibili per il nostro istinto di autoconservazione, ma Gesù, invece, vuole condurre i suoi nel deserto per misurarsi in quel fallimento, in quella perdita, in quell’essere orfano, cari fratelli e sorelle, in quello sperimentare una lacerazione interiore, è lì che Gesù sente di tornare nel luogo dove predicava il suo maestro, è lì che si tratteggiano i contenuti di un’esperienza di ricerca di una origine, di una sorgente affidabile, cercata proprio là dove sorgenti non ci sono, perché questa terra non basta a darci l’acqua che ci disseta, quando perdiamo il nostro padre, la nostra madre, addirittura il nostro figlio, perdite importanti, lacerazioni relazionali, ma anche, e torno a dirlo, noi, malati di istinto di autoconservazione, quando, immersi in un cratere insuperabile e desertico, siamo portati a declinare ogni incremento, non solo demografico, incremento come promozione di tutto ciò che restituisce dignità, libertà, creatività al nostro vivere, questo è il dramma che Gesù ci fa vivere e lo riconduce, lo riporta nell’orizzonte della sua fede verso il Padre celeste, memore, certamente, di questa parola di Geremia, che gli aveva annunciato la crisi, l’assenza di rappresentanze autentiche, autorevoli, e in generale, l’assenza di riferimenti che non siano Dio stesso, nel suo mistero, nella sua intangibilità, nella sua volontà oltre le nostre volontà. È lì che si situa, in questo confino, l’esperienza di deserto del Signore Gesù, e lasciatemi dire, cari fratelli e sorelle, che la vostra partecipazione alla divina liturgia domenicale non vi porta altrove, non vi porta altrove, vi porta in questo deserto; domenica scorsa, se vi ricordate (chi c’era) insistevo proprio su questa calura di questa basilica che a me ricorda i lanifici pratesi caldissimi, con quei tetti a capriate, e il chiasso dei macchinari tessili, e qui è lo stesso opificio, questa volta colto nella sua dimensione di deserto, di assenza, di vuoto, di spaventevole orrore, lì il Signore Gesù porta i suoi a riposarsi, cari fratelli e sorelle; e tuttavia è esattamente in quel luogo scabro, sobrio, austero, un luogo di assenza, è lì che ci si accorge, finalmente, che germoglia la novità che, davvero, dalle acque attraversate da quella barca si fa strada, emergendo, la persona del Signore Gesù, come ce l’ha descritta Paolo, rivolgendosi agli Efesini, l’avete ascoltato: quest’immagine che veramente segnala in modo straordinariamente mirabile questo emergere di Colui che distrugge il muro di separazione, che compare nella storia, lasciatemelo dire con un’immagine forte ma efficace: una sacca di sangue, là dove per emorragia di speranza, di bene, di comunione, di relazione, siamo dei dissanguati; lui è una sacca di sangue pronta a versarsi nelle nostre vite, per irrorare le nostre dinamiche, che si sintetizza in una parola così miracolosa, così rara, così difficile, così ideologizzata: pace, pace, pace, Egli è la nostra pace, lo abbiamo ascoltato, per i vicini, per i lontani, per gli Houthi, per gli Ebrei, per le fazioni che si fronteggiano in Sudan, per noi che non usiamo armi, ma che nello stesso tempo siamo afflitti, siamo tutti dei disertori dall’impegno verso la vita e la vita della vita; e qui tuttavia ci accorgiamo in questa stasi calda, assorta della nostra basilica, che questa parola fa germogliare davvero nel nostro cuore, con la forza umile del vostro ascolto, con la vostra fame e sete di carne e di sangue, che ancora siamo amati da Colui che fa ciascuno di noi rappresentanza di questo amore gratuitamente ricevuto e gratuitamente restituito; non c’è organizzazione fra i discepoli, non c’è organizzazione ecclesiastica, non c’è organizzazione pastorale, siamo noi, cari fratelli e sorelle, e direi, in modo speciale, voi, ristorati dall’ombra di questo germoglio che fa sbocciare nel vostro cuore non la ginestra consolatoria che Leopardi vede sulle pareti del Vesuvio, ma lo scettro di pace e di giustizia che assegna a ciascuno di voi, in forza del battesimo, la regalità che vi rende abile strumento di riconciliazione nelle strade della nostra città; fa germogliare in noi, cari fratelli e sorelle, anzi zampillare, la sorgente di un sangue che nutre, interrompe, trasfigura le nevrosi di tutto quello che, progressivamente, disimpegna la nostra fecondità e la nostra vitalità.

Cari fratelli e sorelle, davvero quello del Signore è l’ennesimo metodo pasquale, che fa della morte del suo maestro un vuoto da colmare con l’amore del Padre, ascoltato, desiderato, cercato, come voi fate stasera, un amore che si traduce immediatamente, senza riposo alcuno, in uno sguardo che rigetta quella barca in mare, perché altre persone sono sopraggiunte, da aiutare, consolare, abbracciare, guarire, confortare: è la vicenda dell’amore che non si ferma mai, è la filigrana di luce che ci sembra restituisca un senso, una direzione a questa nostra stasi, chiamando a responsabilità feconda e creativa, nel nome del Signore, per la misericordia del padre e con la forza dello Spirito Santo, ciascuno di noi. Amen!

Giovedì 15 agosto 2024 – Assunzione della Beata Vergine Maria  – Solennità –

Messa del Giorno

 

Prima lettura

Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo (Ap 11,19;12,1-6.10)


Si aprì il tempio di Dio che è nel cielo e apparve nel tempio l’arca della sua alleanza.
Un segno grandioso apparve nel cielo: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e, sul capo, una corona di dodici stelle. Era incinta, e gridava per le doglie e il travaglio del parto.
Allora apparve un altro segno nel cielo: un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi; la sua coda trascinava un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra.
Il drago si pose davanti alla donna, che stava per partorire, in modo da divorare il bambino appena lo avesse partorito.
Essa partorì un figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro, e suo figlio fu rapito verso Dio e verso il suo trono. La donna invece fuggì nel deserto, dove Dio le aveva preparato un rifugio.
Allora udii una voce potente nel cielo che diceva:
«Ora si è compiuta
la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio
e la potenza del suo Cristo».


Seconda lettura


Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi
(1Cor 15, 20-26)

Fratelli, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti. Perché, se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti. Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita.
Ognuno però al suo posto: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo. Poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo avere ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza.
È necessario infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico a essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi.

Vangelo

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 1, 39-56)

In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda.
Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo.
Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto».
Allora Maria disse:
«L’anima mia magnifica il Signore
e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,
perché ha guardato l’umiltà della sua serva.
D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.
Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente
e Santo è il suo nome;
di generazione in generazione la sua misericordia
per quelli che lo temono.
Ha spiegato la potenza del suo braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato i ricchi a mani vuote.
Ha soccorso Israele, suo servo,
ricordandosi della sua misericordia,
come aveva detto ai nostri padri,
per Abramo e la sua discendenza, per sempre».
Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua.

 

OMELIA

Cari fratelli e sorelle, ringrazio lo Spirito Santo che vi ha condotto in questa architrave estiva delle nostre ragioni di speranza costituita dal fondamento pasquale di quella energia di portamento che assicura alla nostra malferma storia un approdo di luce, di gloria, di infinito, di eternità, di pienezza, di bellezza. Abbiamo bisogno di insistere su questo lessico non per una banale esercitazione retorica, ma perché percepiamo (e lo diciamo avendo particolarmente a cuore le apprensioni dei nostri più giovani e giovanissimi figli, figlie, fratelli e sorelle nella fede e l’umanità tutta intera) che davvero questo nostro tornante storico espone come non mai il nostro futuro ad un destino quasi ineluttabile di dissipazione e distruzione. Oggi, invece, l’obbedienza nello spirito conduce i nostri cuori e l’intelligenza della nostra fede a riacquisire una consapevolezza meravigliosamente aperta sia all’umile coscienza del nostro limite, ma nello stesso tempo alla consapevolezza che, quando questo nostro limite è consegnato all’amore, alla provvidenza, all’intelligenza della sapienza di Dio (che nello stesso tempo è parola, gesto, carne e nutriente comunione nell’eucarestia), questo limite, che, acquisito con umiltà, ci protegge da qualsiasi forma di presunzione, superbia, assolutezza ideologica, consegnato all’amore creativo del Padre, eccome se restituisce tutto di noi e i nostri talenti alla consapevolezza di essere chiamati, cari fratelli e sorelle, ad una mirabile vocazione, quella di restituire al peso, alla gravità, alla malferma struttura della nostra consapevolezza storica, un vertice abissale di gloria, direi, di leggerezza bella, quella che ha permesso a Maria, assopita nel consumarsi della sua generosa e servizievole esistenza terrena, di vincere qualsiasi legge fisica di gravità per avviarsi verso Colui dal quale tutto ha preso origine; anzi il Poeta immagina questa ascensione di Maria come una vera e propria apparizione di Maria, non, come pure è successo, succede e succederà tutte le volte che il Padre celeste vorrà, allo sguardo pieno di stupore di uomini e donne, piccoli e grandi, colti e incolti, che nel corso di questa nostra faticosa storia hanno ricevuto il grande privilegio di contemplare mirabilmente Maria che ha consolato, educato, rassicurato il popolo santo di Dio nelle apparizioni di cui è davvero ricca la storia della Chiesa; stavolta Maria appare a Dio, la sua apparizione è allo sguardo di Colui dal quale aveva preso le mosse quella storia di salvezza che è centrata tutta (ed è qui la ragione delle nostre parole di speranza, stamani), tutta centrata – va detto questo con coraggio – nel mistero della condizione umana, nel mistero della creazione, nel mistero, per dirla in termini più teologici e filosofici, dell’alterità rispetto a Dio. Un’alterità che – è bene ridircelo – cari fratelli e sorelle, non si dà da se stessa, non si dà per una legge di necessità, meno ancora per qualche gioco strano della casualità, l’alterità della nostra creaturalità è data per amore, dal Padre celeste; una percezione di cui siamo spesso inconsapevoli, esposti come siamo sia alla forza degli accadimenti che, spesso volutamente, spesso inconsapevolmente, sganciati dal mistero della salvezza e della storia sacra del Signore, appaiono davvero come un argine alla sua bontà, alla sua sapienza e alla sua bellezza, e ci fanno credere, complice la nostra presunzione, di poter e dover agire in uno spazio che pare ormai insuperabile anche allo stesso amore di Dio, esiliati, per nostra volontà e, in questo orizzonte di nostra presunzione, per sua incapacità, alla sua azione, condannandoci così a vivere senza speranza, senza luce, senza futuro.

Cari fratelli e sorelle, la festa dell’Assunzione, invece, come già detto, oltre ad essere l’architrave di questa interpretazione della storia come luogo nel quale s’incontra l’infinito amore di Dio e la nostra vicenda creaturale, è anche la celebrazione di questo varco, di questa porta spalancata dall’amore del Padre, che restituisce al nostro tempo, ai nostri spazi, quella realtà che per noi è comprensibile in pienezza soltanto quando entriamo nei perimetri architettonici di luoghi come questo, che assomigliano tantissimo, anzi anticipano quello che Giovanni ha contemplato nell’Apocalisse, “il tempio del cielo” che si apre, si schiude per far entrare allo sguardo del visionario di Patmos proprio lei che è la madre della Chiesa, la nuova Gerusalemme, la donna delle donne, colei che, come nuova Eva, restituisce alla nostra creaturalità tutta quell’avvincente bellezza di libertà e di fecondità, che possiamo non solo gustare, ma soprattutto attuare in pienezza nella misura in cui questa porta resta spalancata dalla forza indicibile e incrollabile non delle nostre presunzioni, ma dall’apparente debolezza della nostra umiltà; e questo argine, apparentemente insuperabile, si atterra d’un colpo nella misura in cui, anche se in piccolo numero, la nostra disponibilità ad accogliere la Parola, la Rivelazione, lo Spirito che agisce, ci rende, cari fratelli e sorelle, anche noi, come l’apostolo, per usare l’immagine dantesca, “vasi di elezione”, dove cioè si percepisce che questo Dio continua a farsi strada nella nostra storia, continua a cercare passaggi pasquali per assicurare significato, senso, verità e bellezza alla disarmonia nella quale siamo precipitati, di cui, di cui, cari fratelli e sorelle, le notizie di guerre che arrivano da molteplici fronti della nostra disgraziata geografia, sono soltanto l’esito estremo di un contenzioso che attraversa e dilania le nostre relazioni, anche in zone apparentemente sottoposte alla pace, alla concordia, alla giustizia, alla democrazia delle nostre strutture politiche. Dunque, cari fratelli e sorelle, una visione che, ancora una volta e non a caso, lo Spirito Santo, agendo, davvero, col collirio della fede, spalanca e propizia, nella divina liturgia, questa finestra senza la quale condanniamo tutto di noi, innanzitutto il nostro essere Chiesa, ad una sorta di cecità  e di sordità e di inintelligenza del mistero, quello che oggi invece, consegnandosi con la sua estrema generosità e forza immaginifica, restituisce tutti noi alla consapevolezza di essere chiamati (lasciatemi usare questa espressione, nella città della moda) ad essere stilisti di una fantasia che vorrebbe veramente gareggiare, lasciandosi ispirare dalla e con la parola di Dio. Vi consegno soltanto un’immagine fra tante: questa splendida donna “vestita di sole”; cosa significa una donna “vestita di sole”? Cari fratelli e sorelle, quello che tutti noi siamo, quando, grazie al battesimo, qualcuno ha messo sulla nostra corporeità una vestina bianca, che abbiamo cura di spiegare, nella nostra spesso affrettata mistagogia, essere molto più di un segno di purificazione, è davvero essere rivestiti della luce intramontabile, dunque pasquale del cristiano, Cristo risorto; dunque tutti noi, come battezzati, siamo vestiti di sole, e la luna, la cui luce è il riflesso del sole, non può che essere ai nostri piedi, sottraendo, cari fratelli e sorelle, questa nostra perseveranza ostinata di fede, di speranza, di amore, nutrita, alimentata, ispirata dalla divina liturgia, a quelle fasi lunari, che sono un simbolo mirabile delle nostre umoralità, delle nostre contingenze delle nostre provvisorietà, di questa indebita psicologizzazione, sempre più estrema e incontenibile, dei grandi misteri che l’amore di dio consegna alla solidità della nostra vita pneumatologica, non psicologica.

Dunque, cari fratelli e sorelle, da questo repertorio di ricchezza (non lo chiamerei altrimenti), quanta consapevolezza della centralità dell’umano, nella misura in cui il suo limite è consegnato, senza riserve, all’infinita grandiosità di Colui che il serpente divisore ci faceva credere essere nostro rivale, nostro contendente, nostra minaccia, e che, invece, la parola e poi, finalmente, il corpo del Signore Gesù restituiscono la consapevolezza che di Lui e soltanto di Lui possiamo, senza riserve, avere fiducia, in una prospettiva che si chiama (e non a caso) “alleanza”, portata prima in un’arca di cui Maria è il compimento pieno. E in questa prospettiva, amati fratelli e sorelle, noi comprendiamo molto bene questo nostro destino di luce e di gloria, che possiamo contemplare in Colei che, avendo generato il Cristo nella carne – così pregheremo nel “Prefazio” che tra poco eleveremo, nella liturgia eucaristica, al Padre celeste – proprio Lui non poteva permettere che Ella vedesse la corruzione del sepolcro. Vedete che le ragioni estreme di questa leggerezza, di questa gloria, di questa Pasqua estiva, di questo volo, in anima e corpo, di Maria Santissima, hanno a che fare con la verità di una umanità trasfigurata, salvata, glorificata dall’amore del Padre celeste, attraverso l’economia pasquale del Signore Gesù; una economia, cari fratelli e sorelle, senza la quale non si dà verità, non si dà bellezza, non si dà futuro, e lo diciamo, questo, con grande slancio e passione inclusiva di tutti coloro che a noi, con grande simpatia e affezione, sembrano quasi inevitabilmente esposti al rischio della tristezza, se non della disperazione, nella misura in cui non lasciano che la loro vita sia completamente immessa in questa dinamica dell’economia pasquale, che, ancora una volta, salvaguardando la coscienza del limite, lo lascia pienamente trasfigurare dalla sovrabbondanza di amore del Padre celeste, in una dimensione, cari fratelli e sorelle, che parte proprio dalla oggettività della nostra corporeità e concorporeità con Cristo; lo avete ascoltato nel Vangelo: la cifra rivelativa di questa presenza, di questa eccedenza, di questa gloria, e soprattutto di questo compimento della storia, che Maria ha cantato nel Magnificat – storia, che dal nostra punto di vista creaturale, ancora non è compiuta, ma dal loro punto di vista abissale, è già compiuta – è il Battista che riconosce, ancora nel grembo di Elisabetta, la presenza nel grembo di Maria, del Signore Gesù, suo salvatore. È bellissima questa sorta di melodia – oggi si direbbe, con un linguaggio un po’ discutibile, di “energia” – che viene colta l’un corpo dall’altro corpo, l’un feto dall’altro feto, feto (e si capisce molto bene, cari fratelli e sorelle) che è carne destinata alla gloria, perché è da quella carne che scaturisce la gloria della nostra speranza pasquale, della nostra sete e fame di risurrezione, che non è una generica aspirazione egoistica di sopravvivenza e di infinita immortalità, come nei miti antichi: si tratta di quella vita eterna che corrisponde alla pienezza del nostro cuore, alla pienezza della nostra vita spirituale, perché no? All’intensità della nostra vita psicologica e, direi anche, alla bellezza dei nostri corpi che, quando si abbracciano per pienezza d’amore, eccome se non sentono che il loro palpito, la loro passione, – lasciatemelo dire in questi giorni caldissimi – il loro sudore è promessa, caparra, pegno di vita eterna, a meno che non vogliamo ridurci e rassegnarci all’idea che quella nostra è soltanto vita biologica e fisiologica! Nulla di tutto questo! Maria, tempio dell’infinito, cari fratelli e sorelle, “terra del cielo” (come amano dire gli orientali), annuncia ben altro, e di questa testimonianza pasquale, voi, avendo obbedito allo Spirito Santo, ne sarete, in queste ore caldissime di trepida attesa per la pace nel Medio Oriente e in tutto il mondo, significativi profeti e testimoni. Amen!

 

Domenica 15 settembre 2024 – XXIV domenica del tempo ordinario (anno B) –

Prima lettura

Dal libro del profeta Isaìa (Is 50, 5-9)

Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio
e io non ho opposto resistenza,
non mi sono tirato indietro.
Ho presentato il mio dorso ai flagellatori,
le mie guance a coloro che mi strappavano la barba;
non ho sottratto la faccia
agli insulti e agli sputi.
Il Signore Dio mi assiste,
per questo non resto svergognato,
per questo rendo la mia faccia dura come pietra,
sapendo di non restare confuso.
È vicino chi mi rende giustizia:
chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci.
Chi mi accusa? Si avvicini a me.
Ecco, il Signore Dio mi assiste:
chi mi dichiarerà colpevole?

Seconda lettura

Dalla lettera di san Giacomo apostolo (Gc 2, 14-18)

A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha opere? Quella fede può forse salvarlo?
Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: “Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi”, ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve? Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta.
Al contrario uno potrebbe dire: “Tu hai la fede e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede”.

Vangelo

Dal Vangelo secondo Marco (Mc 8, 27-35)

Dal Vangelo secondo Marco

In quel tempo, Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: “La gente, chi dice che io sia?”. Ed essi gli risposero: “Giovanni il Battista; altri dicono Elìa e altri uno dei profeti”.
Ed egli domandava loro: “Ma voi, chi dite che io sia?”. Pietro gli rispose: “Tu sei il Cristo”. E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno.
E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere.
Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: “Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”.
Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà”.

OMELIA

Cari fratelli e sorelle, era importante evocare, all’inizio di questa celebrazione, la qualità tutta speciale di intimità e di comunione che, mediante la fede e la grazia, il Padre celeste ha donato ai nostri cuori e all’intelligenza della nostra stessa fede, un’intimità che fa diventare questa pur vasta basilica una tenda, un padiglione, dentro il quale, come accadeva nei tempi passati, il sovrano riceveva, in tempi di prova e di battaglia, i suoi dignitari, magari per renderli partecipi delle strategie difensive o di attacco, per condividere angosce, speranze, per esternargli i pensieri del proprio cuore. Ecco, quest’immagine, cari fratelli e sorelle, la impiego perché ci si senta tutti partecipi dell’intimità del Signore Gesù, un’intimità che rende possibile lo svolgimento tutto spirituale della divina liturgia, questo accadimento, cari fratelli e sorelle, cui accediamo perché anche noi, come il profeta Isaia, abbiamo aperto l’orecchio, che il Signore ha scucito perché, accogliendo la Sua parola, noi fossimo letteralmente trascinati dove Lui ci attende, Lui ci parla, Lui si rivela, ed è esattamente nella penombra di questo padiglione che, grazie alla nostra obbedienza, entriamo nel cuore del Signore Gesù; è importante, cari fratelli e sorelle, sottolineare questa accelerazione temporale e spaziale di una consapevolezza che ci rende partecipi di qualcosa che di molto profondo e di molto significativo il Signore Gesù vuole che anche noi sappiamo, di cui anche noi veniamo a conoscenza, anche noi ci si senta privilegiati dignitari di un’esperienza più profonda, di una verità che altri possono intuire soltanto in modo parziale, “Gli altri cosa dicono che io sia?” – domanda il Signore Gesù – e la risposta che il Signore Gesù si sente dare è una risposta importante, significativa, perché sono tutte esperienze (dal Battista ad Elia) che dicono una consapevolezza mnemonica del popolo di Israele, che si ricorda di importantissime persone che hanno significato la storia di salvezza dell’autocoscienza di Israele e del suo resto migliore. E dunque, come spesso accade, il sentimento popolare, forte della sua memoria, individua una verità significativa, una verità addirittura pregnante, ma di fronte all’eccedenza misteriosa di Cristo, questa verità è insufficiente, c’è una novità, un inedito, un inaudito.

E mi piace, cari fratelli e sorelle, in questa domenica di metà settembre, alla vigilia della riapertura delle scuole, ipotizzare con voi che ricominci anche per noi, qui a San Miniato, l’anno pastorale. Usiamo queste espressioni ecclesiastiche e non ecclesiali, convenzionali, dunque, non indicative di un mistero; tuttavia ci fanno comodo, stamani, perché restituiscono alla nostra presenza qui, che non è presenza ecclesiastica, ma presenza ecclesiale, cioè misteriosa, cioè dovuta all’iniziativa dello Spirito Santo, non perché ve l’ha detto quello o quell’altro prete; è un’iniziativa che ha trovato il vostro cuore lacerabile e dunque disponibile a salire quassù, per riprendere un cammino inevitabilmente, direi, con tutto il rispetto, sfilacciato, per forza di cose, dalle anche doverose ferie estive, per chi ha avuto la possibilità di farle, e ci compiaciamo di questo; adesso, a metà settembre, anche noi, cari fratelli e sorelle, torniamo a scuola, e torniamo per fare un salto di qualità d’interpretazione del nostro vivere, illuminato dall’intimità, prossimità, amicizia, confidenza che il Signore Gesù intende tornare a stabile con forza con ciascuno di noi, domandandoci intimamente, alla luce di tutto quello che ho cercato di dirvi, mostrarvi, comunicarvi, alla luce delle vostre esperienze nel magma della storia: “Voi chi dite che io sia?”. È bellissimo questo rimettere tutto dell’intelligenza della fede dei suoi interlocutori; per il Signore Gesù non è chiaramente un sondaggio d’opinione, come fanno, direi per forza di cose, i nostri politici, per capire che aria tira, no! Il Signore Gesù intende vagliare e cogliere il potenziale di vita spirituale dei suoi discepoli, quanto, cioè, davvero, l’orecchio lacerato dalla lama dello Spirito Santo dei suoi discepoli è diventato fecondo, partecipe, espressivo di una verità, che sta a cuore dell’intimità di Cristo che loro conoscano, vivano, respirino, partecipino, perché al Signore Gesù sta a cuore, cari fratelli e sorelle, lasciatemelo dire, non tanto la piena nostra consapevolezza della sua identità, al Signore Gesù sta a cuore la nostra salvezza, il nostro lasciarci amare, il nostro sentirci attratti, guidati, calamitati dalla forza di amore senza la quale la nostra vita non ha più destino, non ha più orientamento, non ha più passo, non ha più ritmo, non ha più significato! Questo interessa al Signore Gesù! Ed è per questo che in quella intimità ai suoi Egli vuole misurare, diciamo così, la febbre di una passione di discepolato, che è un’espressione, cari fratelli e sorelle, che dice tutto e nulla, cosa significhi essere oggi essere discepoli. Anzi è una parola che ci insospettisce perché lascia quasi intendere che ci sia un qualche guru che vuole tenere delle persone vessate dalla sua autorità e dai suoi saperi: non è così per il Signore Gesù! Anzi vi dovete proprio immaginare (l’immagine della tenda aiuta in questo) un cammino di fatica, come possono aver fatto coloro che hanno praticato il cammino di Santiago di Compostela, altri pellegrinaggi, ma, lo voglio dire, anche una bella vacanza insieme (non voglio scandalizzarvi), quando si condivide finalmente tutto con degli amici, una rotta di mare, una giornata sulla spiaggia, anche questo è condividere la vita come un viaggio vissuto, in modo integrale, totale, il sorriso, il pianto, la preoccupazione, la gioia, lo sguardo sui figli che crescono; il Vangelo è per la vita, dal bordo delle nostre spiagge alle cime dei monti, passando per il caos della nostra città! Se non caliamo questo discepolato nel concreto del nostro vivere questa chiesa ecclesiastica diventa sempre di più un satellite lontano dal nostro vivere, dal nostro respiro, dal nostro cuore! Quindi questo Gesù che cammina coi suoi, fatica coi suoi, consola i suoi, solleva i suoi, rianima i suoi, dà tutta una energia di condivisione e di reciprocità che invita i suoi discepoli a condividere nel profondo, nel concreto vissuto cosa significhi amare per sentirsi salvati! Dunque sono i grandi gesti che Gesù ha compiuto (quelli che noi chiamiamo miracoli) quelli che hanno acceso l’entusiasmo, quelli che hanno proiettato su Gesù tutta un’aspettativa che, illuminato dalla Spirito, fa dire a Pietro: “Pe noi, noi che abbiamo mangiato, dormito, vissuto tutto questo tempo con te, per noi, per me, tu sei il Messia!”. Ed è la risposta che Gesù si aspettava e desiderava sentirsi dire, perché questo fa parte anche del nostro umano, cari fratelli e sorelle, quando c’è qualcuno che ha capito chi veramente sia il mio cuore, i miei pensieri, le mie angosce, le mie paure, e finalmente non si ferma ai giudizi del sentito dire, dell’apparenza. È importantissimo anche questo significato metodologico dello stare insieme da parte del Signore Gesù, che è anche un invito per ciascuno di noi a ponderare bene i giudizi sulle persone, ad entrare nel cuore del cuore di colui che di fatto mette la sua vita nella valutazione dell’altro, perché anche questo il Signore Gesù fa coi suoi discepoli in quest’intimità di reciprocità, cari fratelli e sorelle, che è la vita della vita, quindi il Vangelo, perché il Vangelo è la vita della vita, in una condivisione che, lo voglio ridire per non farvi sentire in colpa, ma davvero dai bordi della spiaggia fino alla cima della montagna! Tutto l’insieme del nostro vivere, senza preclusioni o gerarchie, come noi, con saccenteria, spesso dall’altare, diamo, in una dimensione che, invece, il Signore Gesù vuole festosa, inclusiva, coinvolgente, cari fratelli e sorelle, e proprio per questo reale e vitale, perché al Signore Gesù, in obbedienza la Padre, sta a cuore l’integrale dell’umano come destinatario di una salvezza che non fa esclusione, che non si limita a trarre i margini della nostra persona e del nostro camminare insieme come popolo di Dio.

Allora, cari fratelli e sorelle, il Signore Gesù è molto contento, è molto rasserenato di questa intuizione, però nello stesso tempo non può non rimproverare quel Pietro che, avendo azzeccato, per così dire, la definizione di un Gesù davvero carico di talenti, carico di carismi, carico di potenzialità, un Gesù che, avendo fatto finora tanto bene, è diventato veramente, cari fratelli e sorelle, una sorta di meccanismo che niente e nessuno può disattivare, una rincorsa verso il successo… un’immagine che anche questa confido a voi per farvi capire le aspettative di Pietro; è come se noi fossimo accanto a Jannik Sinner, ormai, questa persona meravigliosa, perché è una persona meravigliosa, io lo amo tantissimo, per noi ormai è un congegno che niente e nessuno può bloccare! C’hanno provato, ma senza successo; quel rigore interiore mostra che veramente ci possiamo fidare e vedrete che arriva dove altri non arrivano.

La stessa cosa accade un po’ intorno al Signore Gesù, ed è umano, è bellissimo che ci sia tutto questo! Ma non basta, non basta! Gesù deve introdurre Pietro e i suoi a qualcosa che non perde validità quando arriverà quel giorno in cui il nostro Sinner, più tardi possibile, se non altro per ragioni anagrafiche, dovrà piano piano rallentare e poi fermarsi…. Ma cosa significa questo? Scusate, è la prima lezione dopo le vacanze, si deve anche cercare un po’ di accorciare le distanze!!

Pensate che l’invecchiamento di Gesù, la sua morte, alla fine anche per Lui inevitabile, rimette in discussione tutto questo impianto d’amore? Perché questa è la questione, cari fratelli e sorelle: dov’è il destino del Messia? Cosa intende significare questo cuore del Cristo ricolmo della grazia del Padre? Di essere un super atleta destinato a una carriera rapidissima e straordinaria, ma poi finire come altri nel ricordo del passato, evocabile come una comparazione che certamente può riscaldare per un attimo il cuore, ma alla fine resta nostalgia e rimpianto? Il Cristo ci vuole dire che nel suo mistero c’è un’eccedenza di grazia che, effettivamente, sfonda, lacera le barriere temporali e spaziali e dunque la diagnosi azzeccatissima di Pietro (“è il Messia”) troverà una sua pienissima conferma, paradossale, che è anche il punto culminante di tutto il Vangelo di Marco, quando Gesù, abbandonato sulla croce, muore, e il centurione (ve lo ricordate? Chissà quante volte abbiamo insistito su questo!) dice: “Quest’uomo è veramente il Figlio di Dio!”. Ecco la qualificazione che suggella, che invera, che trasfigura la denominazione di Messia: essere Figlio di Dio, riconosciuto quando Egli, fidandosi completamente dell’amore del Padre, staccandosi da se stesso sulla croce, lascia che in questa apertura, in questa scissura, in questo iato oscuro, terribile, che è la morte, la nostra morte, il nostro fallimento, la nostra sconfitta, ma voglio anche dire la nostra vecchiaia, le nostre carriere finite, le lacerazioni delle nostre relazioni, il nostro peccato, in tutta questa voragine, terribilmente e grandiosamente umana, s’insedia il fuoco dello Spirito Santo inviato dal Padre che è davvero una ricapitolazione oltre il tempo e oltre lo spazio: questo Gesù intende vivere in prima persona, come Isaia definirà: “Si presentino coloro che mi vogliono affliggere, percuotere, facciano tutto! Io ho il Signore dalla mia parte!”. Questa fede, che lacera le mie orecchie e le pareti del mio cuore, fa già entrare dentro di me fiotti di luce, di consolazione, di speranza, di visione, di profezia, e questo mio cuore si dilata! Potrà invecchiare, certamente, ma già respira qualcosa di quell’eterno, di quell’infinito, cari fratelli e sorelle, di cui è fatta questa nostra tenda che il vento dello Spirito ha sollevato tra queste pietre, perché ci si renda partecipi dell’intimità con cui Gesù ci dice: “Non abbiate paura quando finisce la mia carriera e mi vedrete inchiodato alla croce, non è finito il mio campionato, anzi, da queste ferite e in queste ferite c’è spazio per voi che (ormai devo proseguire la metafora) non siete bravi come Sinner! Ma anche per voi c’è un premio, anche per voi c’è una gioia, la consapevolezza, la soddisfazione di vedere la vita, qualunque vita, premiata dall’amore, salvata dall’amore, trasfigurata da quest’energia, cari fratelli e sorelle, che ci restituisce, anche grazie alla Parola del nostro Giacomo, un’energia straordinaria di bene, di comunione, di attenzione con cui riprendere questo nostro anno scolastico. Discepoli, alla fine, significa essere scolari disciplinati dall’amore del Signore, ne abbiamo oltremodo bisogno! Le cronache terribili, da lontano e da vicino, ci raccontano lo spregio della vita, cari fratelli e sorelle, che deve trovare in noi non dei facili moralisti, ma delle persone che innanzitutto mettono il dito nella piaga della propria oscurità, della propria paura, lasciatemi usare questa parola, del proprio peccato, e quindi, fermano il giudizio e imparano ad affidarsi all’amore e alla misericordia del Padre celeste e fare di questa energia che scivola nei nostri cuori, qualcosa che, prendendoci per mano, io dico scende ancora più veloce di quella del pur grandissimo Jannik. Perché questo è il destino dell’umanità! Non è uno sbaglio di Dio l’umanità, cari fratelli e sorelle, lo riaffermiamo con forza, lasciandoci amare in questa tenda di luce dall’infinità di Gesù Cristo. A Lui, al Padre, allo Spirito Santo ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli! Amen!

Domenica 22 settembre 2024 – XXV domenica del tempo ordinario (anno B) –

Messa vespertina

Prima lettura

Dal libro della Sapienza (Sap 2, 12.17-20)

Dissero gli empi: “Tendiamo insidie al giusto, che per noi è d’incomodo e si oppone alle nostre azioni; ci rimprovera le colpe contro la legge e ci rinfaccia le trasgressioni contro l’educazione ricevuta. Vediamo se le sue parole sono vere, consideriamo ciò che gli accadrà alla fine.
Se infatti il giusto è figlio di Dio, egli verrà in suo aiuto e lo libererà dalle mani dei suoi avversari. Mettiamolo alla prova con violenze e tormenti, per conoscere la sua mitezza e saggiare il suo spirito di sopportazione. Condanniamolo a una morte infamante,
perché, secondo le sue parole, il soccorso gli verrà”.

Seconda lettura

Dalla lettera di san Giacomo apostolo (Gc 3, 16 – 4, 3)

Fratelli miei, dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni. Invece la sapienza che viene dall’alto anzitutto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera. Per coloro che fanno opera di pace viene seminato nella pace un frutto di giustizia.
Da dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che fanno guerra nelle vostre membra? Siete pieni di desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi e non riuscite a ottenere; combattete e fate guerra! Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per soddisfare cioè le vostre passioni.

Vangelo

Dal Vangelo secondo Marco (Mc 9, 30-37)

In quel tempo, Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: “Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà”. Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo.
Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: “Di che cosa stavate discutendo per la strada?”. Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: “Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti”.
E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: “Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato”.

OMELIA

Cari fratelli e sorelle, i nostri confini così frammentari e frastagliati, questa nostra autocoscienza così, nello stesso tempo, duramente messa alla prova ma anche così ovattata in una zona di conforto col quale tutelarci dagli scossoni che sembrano squarciare le nostre certezza in un tempo storico così cupo e minaccioso, rende questa nostra celebrazione un momento d’incontro con una verità che scende dall’alto con la sua umile sapienza che arreca pace ai nostri cuori, che ci dispone alla consapevolezza che, senza la ricezione di un’esperienza d’amore che trasfiguri questo nostro frastagliato limite, tutto di noi, nel mentre che si protegge, si espone in realtà a quello che potremmo definire senz’altro lo strazio della nostra esistenza, che appare in modo evidente, senza mediazione, purtroppo senza grande ragione di speranza, nei volti insanguinati delle vittime di ogni età, negli scontri di violenza e di odio che feriscono la dignità umana in numerose porzioni del nostro pianeta, uccidendo con quelle vite anche la possibilità di un futuro riconoscibile come potenziale fecondo di bene, di verità e di giustizia. Dunque, la nostra non è esperienza, cari fratelli e sorelle, di autoprotezione; la conca absidale che, ospitando il volto del Dio-uomo Gesù Cristo, ospita anche i nostri cuori impauriti e oppressi, non è una zona generica di conforto e di benessere, certamente è un luogo dove questi nostri confini frastagliati possono sperimentarsi amati dal Signore e dunque convocati in un’esperienza di armonia, di significato, di pregnanza, che rende tutto di noi una estensione ancora più bella, perché viva, delle mirabili decorazioni geometriche del nostro millenario romanico; siamo noi la più vera bellezza della nostra basilica, nella misura in cui tutto di noi sia lascia plasmare nell’obbedienza e con l’obbedienza allo Spirito Santo perché diventi espressione melodica, grata, memore, consapevole e intercedente di un amore che scende copioso nei nostri cuori e nella nostra intelligenza, per attuare nella nostra vicenda umana quello che sembra ai più se non altro una pietosa illusione, quello che per noi, invece, è l’essenziale, non solo una feconda connessione cielo e terra, di più, una connessione viva nei nostri cuori e nella nostra intelligenza fra la nostra storia e l’eternità metastorica e metaspaziale dell’amore del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, la loro vita eterna che, in realtà, appartiene anche a noi, mediante quel vincolo filiale che lo Spirito Santo ha inaugurato nei nostri fragili cuori, con le grandi azioni pasquali del battesimo, della confermazione; una parentela filiale, che fa della nostra verticalità credente le colonne su cui sostenere, attendere e propiziare una nuova storia di amore e di correlazione nella somiglianza e nell’immagine fra l’umano e il divino, fra la nostra contingente storia e le eterne e infinite vastità della perfezione del cielo. Non c’è disconnessione, cari fratelli e sorelle! Più ancora, dal cielo – per dirlo e ridirlo con l’apostolo Giacomo, in una sorta di critica ragionata che la parola ispirata del Primo e del Secondo Testamento compie contro ogni fatalismo e ogni visione paganeggiante – dal cielo non scendono, per infierire contro di noi, energie negative, invidie di divinità bieche nei nostri confronti, non scendono forze di incalcolabile potenza distruttrice, e va detto con forza, cari fratelli e sorelle: la nostra vicenda temporale non è prigioniera di energie estranee allo stesso amore del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo!

Il vero dramma, come fotografa con grande lucidità l’antropologia sottesa all’epistola di Giacomo poca fa proclamato, è tutta questa nostra scomposta passionalità che, per sopravvivere, assolutizza tutto quello che in realtà è mirabilmente relativo alla ricezione, alla custodia e alla condivisione di quei doni che vengono dall’assoluto di Dio, perché, condivisi, diventino il metodo, la ragione e l’orizzonte di una comunione che, innanzitutto, risplende in quella pace di cui parla l’apostolo Giacomo, una pace che non è una generica ideologia, meno ancora, cari fratelli e sorelle, va detto, un qualche programma genericamente politica, ma è l’esperienza di quella armonia che il nostro cuore scopre e riscopre sentendosi amato dall’unica volontà coesiva che, salvaguardando la nostra libertà e le nostre differenze, ci chiama, mediante la figliolanza dell’unico Padre, ad un’esperienza di fraternità che rende l’intera famiglia umana convocata per diventare segno e strumento di un’alleanza di pace, di relazione, di condivisione, che se trova, come è logico che trovi, attrito nelle plaghe controverse delle nostre vicende sociali, politiche e culturali, almeno nel nostro essere Chiesa, almeno nel nostro essere Chiesa, dovrebbe trovare, come ci avverte nella sua consapevolezza, arricchita dalla grande tradizione della Chiesa, il Concilio Vaticano Secondo, fermento, segno, strumento e profezia di quell’unità e di quella pace che la nostra fraternità ecclesiale annuncia e testimonia al mondo.

Cari fratelli e sorelle, è con questa premessa, in questi tempi di ora in ora sempre più cupi e agghiaccianti e che destano enorme preoccupazione per chi ha a cuore il futuro dell’intera famiglia umana, che il nostro essere qui deve essere, prima ancora che testimonianza e missione, prima ancora che arricchimento personale di una generica spiritualità tutta destinata ad una presunta pace psicologica, tutto di noi oggi deve esporsi all’azione evangelizzatrice della sapienza del Signore, per rendere il nostro cuore, la nostra fiducia, la nostra umanità, la nostra creaturalità, il nostro desiderio di bene, di pace, di giustizia – messo alla prova dalle notizia che giungono da tante parti del mondo -, paragonabile e comparabile a quel “giusto” di cui ci parla oggi la Sapienza, colui che, messo alla prova, non cessa di confidare nell’amore di Dio Padre che non gli farà mancare l’aiuto e che, proprio attraverso quella fede, quella fiducia, quell’abbandono, senza per questo, e anzi, grazie a questo, senza allontanarsi dalla sua prassi così inattuale, ieri, oggi e sempre, di giustizia e di mitezza, raccorda nella sua persona, con la sua persona, il cielo alla terra: essere, in tempo di guerra, cerniera, anzitutto, fra cielo e terra; dal cielo, da dove piovono missili, bombe, intelligenze sempre più sofisticate che fanno esplodere le nostre tasche, con la presunzione di una guerra chirurgica, che crede di essere progresso, senza calcolare anche uno, anche uno di bambini che muore per sbaglio in questa follia che trasforma, cari fratelli e sorelle, la ricerca (salviamola), la ricerca di giustizia in un gioco di vendetta inqualificabile, che deve scuotere la nostra coscienza, perché non possiamo sottomettere la nostra libertà e la nostra intelligenza a nessun istinto vendicativo, pena, pena la fine del nostro futuro, cari fratelli e sorelle; chi vince, in una gara di rivendicazioni sempre più sofisticate? Nessuno vince! Questo ci dice con grande chiarezza la sapienza che risuona in questa basilica a un piccolissimo numero di persone che, tuttavia, obbedendo allo Spirito Santo, lasciano che il proprio cuore sia evangelizzato da quest’amore, che scende dall’alto non per dirci che padre Bernardo è migliore di un altro, che qualcuno è primo rispetto ad altri, siamo tutti abitati da queste gelosie, da queste passioni, da queste rivalità, da queste angosce, da queste paure, Giacomo è chiarissimo, cari fratelli e sorelle: non si tratta di dare una patente morale, che attribuisca a qualcuno un punteggio maggiore che ad un altro. Qui abbiamo esordito questa nostra celebrazione col canto del Kyrie per affermare in modo chiaro e netto che tutti abbiamo bisogno del perdono e della misericordia del Signore. Nell’arsenale del nostro cuore non ci saranno i razzi katiuscia, non avremo i telecomandi per far scoppiare il cercapersone di chi che sia, ma c’è anche in noi la lingua che ferisce, il giudizio che segrega, c’è anche in noi, cari fratelli e sorelle, l’indifferenza che uccide lentamente, il giudizio che trafigge, l’odio che cova, la tentazione di fare della vendetta lo strumento dell’affermazione di noi stessi, senza rimettere la causa della giustizia a Colui che della giustizia è sorgente, quel cielo che la nostra presenza qui, obbediente allo Spirito Santo, ribadisce con fermezza connesso a questa nostra terra, anche se, leggendo le notizie, saremmo tentati di pensare il contrario, ed è esattamente in questa coscienza, prima che antropologica, teologica, che si qualifica la nostra missionarietà, la nostra evangelizzazione, che non è andare a dire agli angoli delle strade: “Pace, pace, pace!”; significa innanzitutto una inevitabile conversione dei nostri cuori, cari fratelli e sorelle, perché si lascino tagliare dalla lama della parola del Signore, perché dentro attecchisca “la sapienza che viene dall’altro”, così dice Giacomo, portando frutti che germoglino come opere di giustizia. È chiarissimo Giacomo, e fotografa la nostra attualità, cari fratelli e sorelle, una nostra attualità polarizzata fra questa esposizione macroscopica ad un gelosia e ad una vendetta omicida e, nello stesso tempo, espone i nostri cuori e la nostra intelligenza al trastullo (non trovo parola migliore), al trastullo con cui domandarci chi sia il primo fra noi, che è la scena che il Vangelo delinea all’intelligenza della nostra fede, dopo averci detto che Gesù, cari fratelli e sorelle, espone sì, ciò che sta per accedere, che sarebbe stato consegnato, sarebbe stato arrestato, crocifisso e dopo tre giorni sarebbe risorto, ma avrete notato come queste affermazioni di Marco sono dette con freddezza; il Signore Gesù non è che capisca molto meglio dei suoi discepoli ciò che gli sta per accadere, affatto! Il Signore non capisce, e tuttavia è già aperto alla consapevolezza che non ha altra risorsa che non sia l’amore del Padre, che lo confermerà nella figliolanza anche in quella suprema ingiustizia, scartando così la vendetta e la ritorsione e ospitando nel suo corpo e riversandolo sulle nostre vite il fiume di grazia, di amore di luce, che sono le Sue parole, anzi direi meglio, la Sua parola e quanto sta per nutrire, fra qualche istante, la nostra fame e sete di giustizia e di verità, cioè la divina eucarestia, il corpo e il sangue del Signore Gesù. E tuttavia il Signore Gesù non fa commenti, e in questa consapevolezza drammatica, in forza della quale Egli non vuole che nessuno sappia di questo suo attraversamento, a significare, con pochissime parole, che Gesù sta vivendo un dramma, cari fratelli e sorelle, un dramma di solitudine, un dramma che vorrebbe condividere con i suoi, cosa accade ai suoi? “Chi è il primo fra di noi?”. Il trastullo, cari fratelli e sorelle, che a me sembra la stessa parola da spendere – se non fosse per un contesto non meno tragico di sangue, di ingiustizia, di orrore – lo scambio di parole che ogni giorno noi dobbiamo ascoltare fra quella e quell’altra forza in guerra, come se l’esibizione di potenza, di intelligenza, di astuzia, alimentando una vendetta che è una spirale che non vuole fermarsi mai, affermi una qualche presunta priorità! Ma qui si sconfigge l’umano, cari fratelli e sorelle, qui si sconfigge la nostra libertà, qui si sconfigge il futuro dei vostri figli e nipoti, se noi non ci sottraiamo, come Chiesa, come popolo di Dio, a questa perversa illusione, a questa menzogna, cari fratelli e sorelle, che svela in tutta la sua orrenda forza distruttiva la passione del Signore Gesù, che accoglie su di sé, cari fratelli e sorelle, senza scaricarla su alcun capro espiatorio, questa male del mondo, cari fratelli e sorelle, questo male che possiamo vedere specchiato nel corpo del Signore Gesù come riflesso delle mie ombre, delle mie paure, delle mia angosce, delle mie gelosie, delle mie contese, di questo mio “io”, cari fratelli e sorelle, nella sua abbarbicante pretesa tutta istintiva di confondere vita con sopravvivenza, chiudendosi, così, inevitabilmente, in un individualismo che è tutto il contrario di questa esperienza di comunione nella bellezza, nell’armonia, nella pace, che per noi diventa un‘esperienza performativa irrinunciabile, cari fratelli e sorelle: potete mai immaginare un grande violinista che non dedichi del tempo alle prove necessarie prima del concerto o un ballerino che affronti il palco di qualche teatro celebre senza aver sudato prima quei movimenti e quei gesti per poi condividerli col suo pubblico? E voi, cari fratelli e sorelle, pensate di poter diventare, noi pensiamo di poter diventare colonna che sostiene la connessione fra cielo e terra senza questa prova, che è la liturgia, dove impariamo, nella bellezza e con la bellezza, a diventare splendore vivente che promana dai nostri pur fragili cuori questa verità che salva, questa verità che fa sperare, questa verità che annuncia la beatitudine in tempo di guerra, di dissoluzione e disillusione?

Cari fratelli e sorelle, noi, pur con le nostre debolezze e fragilità, intendiamo restare con il Signore Gesù; la sua parola è dura, i suoi gesti sono forti, ma soltanto Lui ha parole di vita eterna, Lui che ancora una volta sceglie di rivelarsi ai suoi e a noi con il bambino, la fragilità creaturale; capite che il bambino non è la presunta innocenza dell’infante? Queste sono letture moralistiche, banali, del Vangelo! Quel bambino siamo noi nella misura in cui riscopriamo, con la grazia e la sapienza che viene dall’alto, che la nostra vera grandezza è la piccolezza, quando l’affidiamo tutta all’abbraccio di un Padre che, anche nei momenti di prova, di guerra e di notte non ci abbandona mai! Amen!

Ringraziamo di cuore Grazia Collini per il suo paziente e prezioso servizio di trascrizione delle omelie pubblicate su questo nostro sito ormai da tanti anni. In queste ultime settimane è subentrata Stefania Ruggiero cui va la nostra riconoscenza e l’augurio di un fruttuoso lavoro a beneficio delle non poche persone che, con affetto e interesse, seguono il nostro cammino di fede e di ricerca del Signore in ascolto della sua Parola di vita. 

La fotografia è di Mariangela Montanari

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