«Con la misura di un bimbo, per rinascere dall’alto». Omelia del padre abate Bernardo per la XXVII Domenica del Tempo Ordinario
«Con la misura di un bimbo, per rinascere dall’alto». Omelia del padre abate Bernardo per la XXVII Domenica del Tempo Ordinario
7 ottobre 2018
Dal libro della Gènesi
Il Signore Dio disse: «Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda».
Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di animali selvatici e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici, ma per l’uomo non trovò un aiuto che gli corrispondesse.
Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio formò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo.
Allora l’uomo disse:
«Questa volta
è osso dalle mie ossa,
carne dalla mia carne.
La si chiamerà donna,
perché dall’uomo è stata tolta».
Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne.
Dalla lettera agli Ebrei
Fratelli, quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli angeli, lo vediamo coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti.
Conveniva infatti che Dio – per il quale e mediante il quale esistono tutte le cose, lui che conduce molti figli alla gloria – rendesse perfetto per mezzo delle sofferenze il capo che guida alla salvezza.
Infatti, colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine; per questo non si vergogna di chiamarli fratelli.
Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, alcuni farisei si avvicinarono e, per metterlo alla prova, domandavano a Gesù se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie. Ma egli rispose loro: «Che cosa vi ha ordinato Mosè?». Dissero: «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla».
Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. Ma dall’inizio della creazione [Dio] li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola. Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto».
A casa, i discepoli lo interrogavano di nuovo su questo argomento. E disse loro: «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio».
Gli presentavano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverarono. Gesù, al vedere questo, s’indignò e disse loro: «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso». E, prendendoli tra le braccia, li benediceva, imponendo le mani su di loro.
Omelia:
Fratelli e sorelle, pare proprio che l’adempimento pieno della nostra condizione umana non possa che passare attraverso tutto quello che scalfisce un ideale di umanità, come quella che non a caso ci consegna la grande tradizione classica che vede nella perfezione scultorea di una certa idea dell’umano, la prospettiva qualificante che è data come modello di un eroismo del corpo e delle virtù, per giungere a quella perfezione di cui il corpo è segno, di una sanità mentale, di una pienezza di capacità e di potenzialità che si restituiscono alla nostra consapevolezza come per l’appunto un canone cui uniformare, adeguare la nostra esistenza, pena una sostanziale frustrazione.
Ma in realtà nessun ginnasio, nessuna palestra potrà tener conto della prospettiva che il Vangelo oggi ci dona proponendoci due direzioni dell’umano segnate da una oggettiva lontananza rispetto a qual canone, una proprio nel segno del tempo e cioè la visione dell’infanzia, di ciò che è potenziale, di ciò che non è ancora compiuto, che non a caso in quella tradizione è ritenuto senza diritto alcuno, senza cittadinanza, senza un valore intrinseco, che non sia quello che sarà quando finalmente terminerà la crescita e avremo un soggetto, una persona con i suoi diritti, le sue virtù, le sue capacità, la sua sapienza nella misura in cui avrà addestrato proprio il ginnasio ogni potenzialità fisica e mentale.
In realtà per Gesù è vero proprio il contrario, è il bambino, colui che non ha diritti, colui che in questa prospettiva sociale e culturale non è nessuno ad essere la misura del Regno, la modalità di ingresso e di accoglienza del Regno stesso.
Troppe volte, non nel vostro caso, ahimè leggiamo questa pagina del Vangelo, questa invocazione dell’infanzia come una sostanziale esaltazione di una presunta purezza del bambino, ma voi siete già avvertiti che non è affatto così, il Signore Gesù sa che nel bambino al cotntrario esistono in una dimensione ancora estremamente istintiva e possessiva un concentrato di bisogni, di necessità, di fragilità che lo rendono certamente un abbozzo umano che deve crescere con la maturazione, con una pedagogia adeguata . Il Signore Gesù sa benissimo tutto questo e in ogni caso propone proprio questa dimensione potenziale, incompiuta, si direbbe ancora debole e fragile proprio come la misura del Regno, liquidando una volta per tutte la percezione che il Regno e una sua eventuale declinazione nel senso del potere possa qualificarsi come uno spazio in cui valga tutto ciò di cui siamo capaci, con la forza delle nostre prestazioni, delle nostre certezze, più profondamente delle nostre presunzioni.
In realtà ecco che il Signore Gesù liquida questa prospettiva invitandoci ad una esperienza chiara della rinascita in Cristo della vita di ciascuno di noi e più ancora della possibilità di sentire come ogni istante, attraverso la Pasqua di Cristo, che proprio oggi non convenzionalmente, ma certamente in modo che è in questo senso oggettivo per tutti e cioè la domenica, si propone al massimo livello nell’afflusso dei nostri giorni, cioè la possibilità che sia un inizio per ciascuno di noi, una sorta di rinascita per ciascuno di noi, una possibile risurrezione per ciascuno di noi, resa possibile mediante una scoperta, o una riscoperta, radicale della nostra figliolanza in Cristo, del nostro radicale dipendere da una origine comune, come ci ha avvertito la Lettera agli Ebrei, un passaggio di fondamentale importanza: è identica l’origine di colui che santifica e di coloro che sono santificati.
Meravigliosa prospettiva che ci dice proprio l’inizio e la sorgente che effettivamente assimila nel gesto creativo di Dio la sua progenie, come Dio della storia, Dio della provvidenza, Dio che genera vita per la nostra vita, Dio che patisce la morte per la nostra vita e la libertà dei nostri giorni chiamati possibilmente a santificarsi nella misura in cui non si dimentica, non si taglia questa origine che brilla proprio nella necessità ontologica, esistenziale, naturale di un bambino, posto proprio per questo nel cuore della comunità dei discepoli del Signore Gesù, fatto cura di un abbraccio speciale del Signore, una imposizione delle mani che segnala una ripartenza per ciascuno di noi nella misura in cui, abbassando le nostre presunzioni, ci disponiamo a rientrare in questo abbraccio generativo di nuova vita che il Signore non manca di offrire con la gloria del suo Regno all’umiltà del nostro ritornare a Lui.
Questa prospettiva, fratelli e sorelle, ci aiuta anche a capire meglio come tutta la riflessione che il Signore Gesù fa sulla delicatissima relazione maschio-femmina, sia indisponibile ad una sua rilettura esclusivamente morale e sociologica, certo questi versetti non possono non fornire all’attenzione della teologia umana della Chiesa, della teologia sponsale della Chiesa, una interpretazione forte ed una sua educazione a rinviare ciò che recupera l’attentato a questa dimensione forte nella condizione umana, ma in realtà il discorso del Vangelo è molto a monte delle questioni esclusivamente morali e sociologiche, tanto meno politiche su come si debba governare e legiferare su questo argomento; noi siamo invitati attraverso queste parole ad una riscoperta della vocazione in ciascuno di noi e in questo mi ci metto anche io monaco, che moglie non ho, cioè una vocazione che riporta al cuore dell’inizio di ogni inizio della nostra vicenda, con le sue meravigliose potenzialità, con i suoi grandi successi, ma anche, come si diceva all’inizio, i suoi come dire, sonori fallimenti tra cui ci può essere anche quello del non aver scelto il marito giusto o la moglie giusta.
Ci può stare benissimo questo errore, ma questo non implica, alla luce di questo Vangelo, che esistano quindi cristiani di serie B, dei falliti, dei peccatori incalliti, esistono ed esiste l’uomo in quanto tale che, alla luce di quel bambino posto al cuore della comunità credente e del Regno, diventa il simbolo reale di quello che è il mistero della vita in questa prospettiva, una maturazione, una crescita, un’avventura verso la perfezione, per l’appunto quella santificazione che è la perfezione in Cristo, non una perfezione di tipo morale, aretologica, cioè fondata su quelle virtù che io da solo posso apprendere nel ginnasio dei nostri padri della classicità, con quel canone di cui si diceva prima, niente affatto, Lettera agli Ebrei ci ha illuminato che la perfezione in Cristo che dobbiamo avere come modello passa attraverso lo sgretolarsi del corpo, l’invecchiare, quel fallimento reale, naturale, psicologico che è la catastrofe della morte, catastrofe è una parola con cui la teologia orientale qualifica la morte in una forza espressiva che viene a toccare i nostri cuori, che non addolcisce dunque nessuna pillola alla quale noi sentiamo di dover ricorrere per rimuovere quello che siamo di catastrofe, di fallimento, cioè una cultura di eutanasia, prima ancora del ricorso all’eutanasia in quanto tale, che è la rimozione dello scandalo, del fallimento della morte che minaccia proprio questa dimensione canonistica della vita, modellata da una struttura che non a caso deve diventare un monumento più perenne dello stesso bronzo per ancorare questa nostra fragilità in una presunta assolutezza che l’uomo con le sue forze può elevarsi.
Meravigliosamente il Vangelo ci libera da questa prospettiva titanica e, va detta con lucida umiltà, fallimentare e il Signore Gesù ce la racconta questa prospettiva di liberazione assumendo sulle sue mani, i suoi piedi, il suo costato il gancio catastrofico della morte, quindi un magistero che possiamo evocare col lessico e le parole di Agostino e cioè il Signore Gesù che dal più bello fra i figli dell’uomo accetta di diventare il più brutto sulla croce fra i figli dell’uomo, per donarci la sua bellezza.
Questa meravigliosa intuizione con cui -dice Agostino- Gesù sulla croce accetta di diventare deforme perché l’uomo diventi dei-forme, cioè la forma di Dio, perfetta, in una parola.
Capite allora che si aprono per noi due prospettive , da un lato lo sforzo titanico di salire la montagna perché la fatica modelli la nostra muscolatura, dall’altro questo precipitare in Cristo dove lui è precipitato, cioè nel mistero della morte, perché sentiamo che quella imperfezione, accolta per amore, diventa l’unica vera forza che gratuitamente, misteriosamente, nella libera necessità dell’amore che abbiamo invocato nella preghiera iniziale, può veramente restituirci come nuovi infanti quella figliolanza che è una novità di vita, anche a cento anni.
Anche per riprendere un tema che abbiamo affrontato a Pistoia ieri l’altro, anche il vecchio Nicodemo può rinascere, tornare giovane nel cuore di una notte che segnala una gravidanza di luce disponibile con la Pasqua per ciascuno di noi.
E allora vedete queste coordinate esistenziali così profonde, così liberanti così responsabilizzanti certamente, l’amore non è l’amore dei sentimenti contingenti, è l’amore forte del Signore Gesù, quello che pre-esiste alla creazione, che è appassionato di eternità perché viene dall’eternità, allora questo amore qui che proprio per questo sconfigge, valicando il tempo della morte, diventa anche lo stile, l’identità, come dire la qualità del nostro amare, del nostro stare insieme e qui finalmente arriviamo a questa pagina del Vangelo, la prima parte di questa pagina del Vangelo, che voi capite benissimo ci porta molto oltre la questione dei divorziati, risposati e annessi e connessi, è un tema ovviamente molto serio, non voglio banalizzarlo ma che non può diventare l’unico criterio, per l’appunto moralistico, di quella che è la grande posta in gioco che queste pagine fanno brillare nella nostra vita, cioè la possibilità, sì o no, che esista una perfezione per l’umano, certo che può esistere. E’ solo nelle nostre mani? No che non può essere solo nelle nostre mani, ma allora l’uomo è costretto a restare un bambino eterno, Peter Pan? No di certo perché, accogliendo questa dinamica di amore incontro all’altro eccome se finalmente riscopro quell’urgenza che si complementa nell’incontro e nel rimanere nell’altro, due verbi due parole classiche del lessico cristiano, soprattutto il rimanere.
E la dinamica dopo, pensate alla parabola del figliol prodigo, un padre che va incontro per un abbraccio che non finisce più, ma sollevate gli occhi, cosa vedete nel grande mosaico? Voi vedete il Cristo. E intorno a lui chi c’è? Ci sono un uomo e una donna che vanno verso il Cristo che è l’unità, la ricapitolazione, la sintesi, “una sola carne”!
Non a caso è un Cristo gravido, perché questo incontro di diversità che rimangono nell’orizzonte oggettivo della carne, quindi non dell’idea, non della fantasia, non dell’onirico, ma la concretezza della carne, e qui, non voglio scandalizzare nessuno, una sola carne, sia detto chiaramente è il gesto sessuale, non altro, e Dio conduce l’uomo verso quel gesto che è la fecondità, non solo biologica, non solo naturale ma finalmente esistenziale alla quale anche un monaco è chiamato! Perché se l’amore non diventa generativo col nostro donarci agli altri, nel rimanere nell’altro, ma che testimone di amore vero siamo?
Che buona notizia possiamo dare se il nostro cuore è per primo la spazio della sterilità, la misura della infecondità, la sponda contro il tempo che fluisce perché si moltiplichi questa umanità, non solo dal punto di vista quantitativo, è chiaro, ma soprattutto qualititativo, una crescita di cui il bambino posto al centro della comunità è l’icona in una prospettiva che, ripeto, non è limitata a un dato anagrafico, cronologico, peggio ancora astrologico, noi che ormai siamo smaliziati come facciano a recuperare la purezza del bambino?
Non abbiamo capito niente se restiamo in questa dimensione psicologica, perché la psicologia ormai ci ha insegnato che il bambino è tutt’altro che purezza e innocenza, ma soprattutto perché perdiamo di vista questa spinta progressiva che il tempo, rigenerato da Cristo, ricapitolato da Cristo, offre anche alla mia vita per rinascere dall’alto. Amen
Trascrizione a cura di Grazia Collini
La fotografia, scattata il 20 luglio 2015, è di Ahmad Masood (Reuters)