Omelie

«Una disciplina per il discepolato del regno dei cieli». Omelia del padre abate Bernardo per la XVII Domenica del Tempo Ordinario

Domenica 30 luglio 2023 – XVII Domenica del tempo ordinario

Messa Vespertina

 Dal primo libro dei Re
In quei giorni a Gàbaon il Signore apparve a Salomone in sogno durante la notte. Dio disse: «Chiedimi ciò che vuoi che io ti conceda».
Salomone disse: «Signore, mio Dio, tu hai fatto regnare il tuo servo al posto di Davide, mio padre. Ebbene io sono solo un ragazzo; non so come regolarmi. Il tuo servo è in mezzo al tuo popolo che hai scelto, popolo numeroso che per la quantità non si può calcolare né contare. Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male; infatti chi può governare questo tuo popolo così numeroso?».
Piacque agli occhi del Signore che Salomone avesse domandato questa cosa. Dio gli disse: «Poiché hai domandato questa cosa e non hai domandato per te molti giorni, né hai domandato per te ricchezza, né hai domandato la vita dei tuoi nemici, ma hai domandato per te il discernimento nel giudicare, ecco, faccio secondo le tue parole. Ti concedo un cuore saggio e intelligente: uno come te non ci fu prima di te né sorgerà dopo di te».

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno.
Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinato, li ha anche chiamati; quelli che ha chiamato, li ha anche giustificati; quelli che ha giustificato, li ha anche glorificati.

Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli:
«Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo.
Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra.
Ancora, il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti.
Avete compreso tutte queste cose?». Gli risposero: «Sì». Ed egli disse loro: «Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche».

Omelia:

Cari fratelli e sorelle, bello, bellissimo, ritrovarsi in questa esperienza coesiva generata dallo Spirito che ci fa essere unico corpo in piena, duttile ricezione del dono dell’amore che dall’alto si fa, nell’attrito con la storia, parola e carne ad adempiere tutto quel potenziale umano che guardato con lucida umiltà si mostra in tutta la sua fragilità e inconsistenza.

Ma noi, proprio perché abbiamo questa consapevolezza, ci riconosciamo con gioia i piccoli, i fragili, i vulnerabili, i senza parola, cioè gli infanti, che dispongono i loro corpi in questa esperienza tutta speciale della liturgia perché, accogliendo e lasciandoci ispirare da ciò che entra profondamente nelle viscere, negli abissi del nostro cuore, ci fa dire anche a noi quel sì, abbiamo compreso le parabole del Signore.

Sarà vero? Per quello che mi riguarda posso dirvi che no, non è vero, e tuttavia insieme a voi, con voi, posso dire per questo slancio generato dall’impeto di una ricezione condivisa, posso dire che, anche se non ho capito, ho capito.

Ho capito l’essenziale di questa verità dinamica, paradossale, di cui si fa carico il linguaggio parabolico, a inquietarci, a lasciarci uscire da ogni ovvietà, banalità, per questa continua transignificazione di parole che, restituite alla loro radicalità, possono dirci finalmente cose antiche e cose nuove, inquietandoci, costringendoci, come le immagini paraboliche di oggi, a conclusione di questa straordinaria sezione matteana, così difficile, così ardua, e tuttavia così necessaria, anno dopo anno, per restituire alla nostra consapevolezza ecclesiale, tutta l’avventura della nostra sequela del Signore Gesù, davvero un cercare, un trovare, un perdersi, un lasciarsi riconquistare da una rete dentro la quale la nostra povera vita è pescata dallo sguardo attento di chi ci ama, e proprio perché ama, libera tutto di noi.

Ed è così che noi ci stiamo finalmente sentendo, fratelli e sorelle, ben al di là di ogni vana meritocrazia, discepoli del Regno.

Essere discepoli del Regno.

Lo siamo, lo diventiamo perché plasmati, scomodati, inquietati da questa forza paradossale di immagini che implicano sempre un gesto coraggioso, di liberazione da tutto quello che definirebbe il nostro essere per quello che noi abbiamo. Un passaggio estremamente difficile ma lo avete ben compreso in queste parabole, siamo portati inevitabilmente nella strettoia della storia a definirci attraverso quello che abbiamo laddove invece, l’immagine parabolica è una spoliazione, un denudamento, vendere tutto, abbandonare tutto, per qualcosa che è piccolo, minuscolo, il granello di senape, il pugnello di lievito, oggi la perla preziosa, il tesoro che di nuovo si nasconde nel campo.

Bellissima tutta questa inquietudine fratelli e sorelle, inquietudine delle cose, degli accadimenti, di tutto quello che noi vorremmo strutturare, disporre, archiviare, incasellare, sistemare.

Oggi questa parola trasversale del Signore Gesù è qui davvero a disarticolare, destrutturare ogni nostra autodifesa che si struttura nell’avere, per lasciarsi liberare in un dinamismo dello Spirito che presuppone fratelli e sorelle, quello che ci pare il dono più prezioso correlato ad una fede – fiducia, così delicata, fragile che non a caso sentiamo il bisogno di sentire irrobustita dalla dinamica performativa della liturgia pasquale di ogni domenica, una fede – fiducia grazie alla quale ci sentiamo, pur nella variabilità dei nostri stati d’animo e della nostra emotività e della contingenza dei molteplici accadimenti, ci sentiamo amati.

Amati perché raggiunti da una parola, amati perché nutriti da un amore incondizionato, che ha una sua attualizzazione davvero performativa nella dinamica eucaristica, che ci raggiunge così come siamo, nutrendoci, alimentandoci, liberandoci. Quanto è importante fratelli e sorelle, attualizzare l’antico di tutta la grande espressione liturgica con parole che toccano l’essenziale della nostra condizione umana, così duramente messa alla prova di settimana in settimana. È interessante catalogare parole ed espressioni, sintagmi si direbbe, che ci dicono la temperatura, la febbre, di questa nostra psicopatologica esposizione alla storia e la parola di questa settimana è sicuramente l’ecoansia.

Una parola sulla quale è facile ironizzare, senz’altro, ma nello stesso tempo segnala e lo ha segnalato anche davvero con un’espressione psicologicamente profonda e complessa come può essere il pianto di una giovane ragazza, la nostra indisponibilità all’inconoscibilità del futuro che ci attende, cari fratelli e sorelle.

Davvero.

E allora ci sentiamo davvero discepoli del Regno perché la disciplina che ci fa essere attenti all’ascolto, umili nella ricezione di questo nutrimento, apre i nostri cuori ad un amore che viene dal futuro, per condurci in esso e verso di esso, attraverso una dinamica che, essendo la grande dinamica pasquale, sperimentata da Israele nell’esodo, è una dinamica di liberazione anzitutto, fratelli e sorelle, contro ogni idolo, contro ogni oppressione, contro ogni cosificazione di tutto quello che può banalmente tranquillizzare con quella o con quell’altra ideologia, l’irrinunciabile esposizione dei nostri cuori e della nostra intelligenza all’avventura dell’esistenza, perdendoci e lasciandoci ritrovare, cercando, trovando, nascondendo ancora e di nuovo, avendo perso tutto, ritrovando la perla preziosa.

Quanto della nostra vita si lascia, e credo si debba lasciare leggere in questa prospettiva dinamica e paradossale?

Ci aiuta in questa prospettiva l’umiltà di Salomone che viene riproposta in questa lettura, non certo fratelli e sorelle, per proporci un medaglione moralistico dentro il quale ammirare una figura del passato, dal basso verso l’alto, sperando che anche i nostri sovrani, i responsabili delle nazioni, abbiano qualcosa di quell’umiltà.

È banale ridurre così l’inerenza che si stabilisce fra questo dono della parola e le esigenze del mio cuore in ordine all’avventura della storia e della vita.

Perché fratelli e sorelle, col Battesimo ognuno di noi è diventato re in questa nostra controversia storia e lo è diventato fratelli e sorelle, perché, diversamente dal gesto rapace e dalla scorciatoia con la quale Adamo ed Eva hanno tentato di assimilarsi a Dio sollevandosi sulla loro fragilità, carpendo il frutto dell’albero del bene e del male, tale discernimento, tale sapienza ci è data se ci riconosciamo umilmente sprovvisti, sprovvisti, di questo criterio che sarà tanto più efficace in ordine alla trasformazione della controversa storia in cui viviamo nel Regno di cui parla il Signore Gesù, quanto chiedendo quella sapienza diventiamo custodi di relazioni che sappiano essere strumento di un’alleanza nel segno della misericordia, della pazienza, della reciprocità, della condivisione di un bene comune ancora una volta, fratelli e sorelle, frazionando questo primato individualistico dell’avere in una interazione dell’esserci che restituisca alla nostra regalità in Cristo il sapore sociale, politico, di un popolo che contribuisce con altri e con l’altro all’edificazione di un mondo più giusto, più vero, più accogliente, più disponibile a lasciarsi ispirare, non dalle nostre vetuste certezze, ma da quell’ispirazione che lo Spirito ci dona per tornare ad essere profezia del nuovo senza timore, con coraggio, aprendoci anzitutto con intelligenza e lucidità al pianto delle nuove generazioni, senza ridicolizzarle e soprattutto senza chiuderci nei nostri egoismi, aprendoli invece a questa sorta di sacrosanta ecologia intergenerazionale con la quale già Genesi ci avvertiva che la terra c è data in dono perché anche altri dopo di noi ne sappiano gustare il frutto.

Questo è il discepolato fratelli e sorelle, che si raggiunge attraverso l’inattualità di una disciplina che come voi udite lavora sul vecchio per assaporare, intuire e soprattutto generare, il nuovo.

Bene lo sa chi nel teatro è abituato a lavorare su testi già scritti, già recitati ennesime volte e che tuttavia in quell’istante, con la forza dell’ispirazione, la lucidità dell’interpretazione, il dono di tutto di noi, diventa il dono che è stato fatto a me, perché condiviso con gli altri, possa essere vettore di novità.

È così che noi raggiungiamo questa consapevolezza mirabile e credo si possa concludere questa arruffata meditazione ma, tanto appassionata perché tocca davvero dinamismi messi alla prova in questi giorni così difficili.

Non riesco davvero a togliermi dal cuore, fratelli e sorelle, l’immagine di quella piccola chiesa palermitana che è gemella di questa nostra basilica, anch’essa circondata da un cimitero, anch’essa oratorio per chi sale su quel monte a ricordare i propri morti -come oggi si ricorda Natalino- una chiesa sfigurata nella sua bellezza, una chiesa che ci dice paradossalmente e parabolicamente però una verità che non dobbiamo mai dimenticare: nella liberazione pasquale di cui siamo protagonisti con la regalità, il sacerdozio e la profezia battesimale non c’è alcuna mediazione che freni, contenga, attenui questa libertà del nostro posizionarci, con lo Spirito e nello Spirito, davanti al Padre, con Cristo in una immediatezza che scoperchia ogni chiesa, rendendola davvero finestra del cielo aperta sulla nostra ottusa paura e chiusura.

Trascrizione biblica di questa consapevolezza che sta al fondo, credo, della portentosa capacità di fare del vecchio il nuovo, nel segno della bellezza e che ha reso l’umanesimo fiorentino un capitolo così decisivo della nostra civiltà, sono queste parole paoline “noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno”.

Sono dette a ciascuno di noi queste parole!

Ognuno di noi è chiamato qui, non è qui per caso, è convocato, lo sappia o non lo sappia, ne sia consapevole, la liturgia è il frutto di questa mozione fratelli e sorelle, che per un attimo ha sincronizzato i nostri cuori, li ha condotti in uno stesso spazio, in una stessa temporalità, assumendo un unico, grande, mirabile, polifonico coro, sentendoci chiamati fratelli e sorelle per diventare, attraverso questa disciplina -adesso la vostra mirabile e paziente disciplina dell’ascolto- tutto, tutto, tutto nelle nostre mani concorre al bene.

Questo portento, lo chiamerei davvero così, importantissimo in forza del quale, nelle nostre povere mani, fragili, vulnerabili, spesso sporche, qualsiasi cosa noi tocchiamo, quasi fossimo re Mida diventano, non oro, ma quella minuscola perla preziosa, quel minuscolo seme, quell’impalpabile lievito che, nascosto nella massa della storia, le restituisce quella sua vocazione a lasciarsi dilatare dall’amore, per diventare inclusione dentro la quale chiunque, la persona più semplice, lontana, abbandonata, negletta e sofferente, come autentico sovrano, avrà la sua parte per scrivere un futuro migliore del nostro presente. Amen!

Trascrizione a cura di Grazia Collini

La fotografia ritrae quanto resta della chiesa di Santa Maria di Gesù a Palermo, andata a fuoco il 25 luglio 2023

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