«Corpo a corpo, l’infinito di Dio in noi». Meditazione sul Natale del padre abate Bernardo
Meditazioni«Corpo a corpo, l’infinito di Dio in noi».
Meditazione sul Natale di Padre Bernardo
San Miniato al Monte, 19 Dicembre 2019
Vi ringrazio molto per la vostra presenza, vi ringrazio di continuare ad avere presente San Miniato e questo luogo come spazio in cui approfondire la vostra relazione col Signore facendo riferimento anche alla nostra piccola presenza monastica. E’ un dono e uno sprone per noi ad essere sempre di più quello che giustamente desiderate che noi siamo.
Quest’anno la nostra riflessione avrà come tema conduttore l’unità con Dio e la possibilità che il Natale ci dona di partecipare ad una dimensione unitiva col mistero del suo amore, della sua presenza, della sua storia.
E questa tematica nasce da una percezione forte, cioè ci domandiamo davvero cosa possa essere la nostra condizione umana senza radicarsi nel mistero di quella comunione trinitaria che la venuta nella carne del Signore Gesù inaugura, introduce nella nostra storia. Quindi ancora una volta facciamo del Natale l’occasione per rivalutare, riacquisire, una visione alta della nostra condizione umana, ma in modalità che ci vaccinino da ogni forma di autoesaltazione, sperimentando ogni giorno nel nostro cuore la debolezza della nostra carne, del nostro cuore, dei nostri pensieri, delle nostre relazioni, la debolezza della nostra storia, le abnormi configurazione con le quali cerchiamo di ignorare quelle strutture di peccato che, in modo troppo disinvolto, smaltiamo con apparati del tutto inadeguati perché si rigeneri dal di dentro la nostra condizione umana.
Sintesi di questa prospettiva è la Colletta del 17 dicembre.
Come spesso accade la liturgia ci permette di intuire con il suo linguaggio altamente sintetico ed evocativo i contenuti essenziali del mistero della Fede.
“O Dio, creatore e redentore, che hai rinnovato il mondo nel tuo Verbo, fatto uomo nel grembo di una Madre sempre vergine, concedi che il tuo unico Figlio, primogenito di una moltitudine di fratelli, ci unisca a sé in comunione di vita. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.”
Questa Colletta ci è servita anche come preghiera introduttiva che vuole davvero riportarci a questa prospettiva qualificante della nostra vicenda umana alla luce del Santo Natale che, come già detto, si lascia intuire nella sua luce come un’esperienza di unione, unione a Cristo in una comunione di vita.
Questa insistenza che alla luce della liturgia vengo a proporvi è ovviamente ben finalizzata a restituire sostanzialmente un più intenso afflato di amore, di speranza, di fede, nei nostri fragili cuori.
Si tratta di approfittare del Natale, che è la manifestazione del Signore Gesù nella nostra storia, perché in effetti tutto di noi, spirito, anima e corpo, non sfugga da questo dono che ci viene fatto col Santo Natale.
In questa modalità credo si interpreti anche molto bene come celebrare il Natale, non sia semplicemente una rievocazione storica, archeologica, erudita di un evento capitato duemila anni fa, ma riacquisire uno sguardo lucido e consapevole sul fatto che, accaduto duemila anni fa, ci permette di vivere questa esperienza di comunione che non è che banalmente si rinnovi perché noi facciamo un buon Natale, essa si rinnova, come leggeremo presto, in ogni celebrazione eucaristica, in ogni adesione umile e filiale alla volontà del Padre celeste nell’amore che il Signore ci dona. Una prospettiva dunque che fa di tutta la nostra vita un cantiere sempre aperto che tuttavia, proprio nel giorno di Natale, torna a rileggere, lasciatemi usare questa espressione, le piantine di fondazione e di elaborazione con le quali il Signore ha in un certo senso, tratteggiato una possibilità radicalmente nuova per la nostra vita, una progettazione che è un vero e proprio restauro della nostra condizione umana.
E questo è detto in modo assolutamente insuperabile nella prima fonte biblica che assumiamo a piene mani, a labbra ben spalancate, a cuore ben teso, perché sono parole meravigliose. Io credo di dirvi cose sulle quali in questa sede abbiamo tante altre volte meditato e vi chiederò perdono se effettivamente non assaporate nulla di troppo nuovo, ma questo anno per ragioni complesse sentivo davvero l’importanza di ribadire questo tema dell’unità comunionale con il Signore, perché niente di noi perda di vista questa altissima possibilità che è data alla nostra condizione umana.
Giovanni1 – Capitolo 1 – Il Verbo incarnato e la comunione con il Padre e il Figlio:
“Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta.”
Si tratteggia in questo modo un itinerario di straordinaria pregnanza esistenziale, mi piace dire così, che salda, si direbbe, teologia e antropologia in una modalità che parte proprio da un dato fondamentale che è il contenuto del mistero di Natale, la vita si è fatta visibile, inaugurando una possibilità di relazione sensoriale col Signore Gesù radicalmente nuova e del tutto inedita. Infatti vedete come l’autore giovanneo qui parli di visibilità, parli di mano, di toccare, di contemplare, di occhi, e dunque il contenuto dell’evangelizzazione è esattamente ciò che i nostri sensi hanno potuto, direi proprio, gustare e assaporare del Signore Gesù, della sua presenza divina e umanissima nella nostra vicenda storica e terrena, con la sua incarnazione.
E lo sforzo che vi chiedo di fare stasera è proprio cogliere questo duplice aspetto, cioè la possibilità di cosa comporti effettivamente ed efficacemente a noi l’incontro col Signore Gesù che nasce per noi, una riqualificazione dei nostri sensi, della nostra sintassi corporea, del nostro farci prossimo agli altri e nello stesso tempo quindi essere in una unione col Signore che non si appaga individualisticamente ed egoisticamente ma, come avete ascoltato da questo testo che ci racconta l’epopea della Chiesa apostolica, si diffonde, si diffonde perché il bene di quella vita che appare come luce di Grazia nella nostra storia, non può certo restare prigioniera di qualsivoglia egoismo, ma appunto contagia la storia, si diffonde nella storia. Ed è questa la prospettiva che la Chiesa si incarica, pur con le sue fragilità, i suoi tradimenti, le sue povertà, di fare attraverso questa forma che stasera avrà per noi, anche alla luce delle recentissime parole di Papa Francesco, quella modalità specifica di evangelizzazione che è per l’appunto la realizzazione del presepe “Admirabile signum”” come Papa Francesco giustamente chiama con la sua lettera la vicenda dell’incarnazione e la possibilità che abbiamo di realizzarla addirittura performativamente con la costruzione stessa dei presepi e più ancora, come cercheremo di fare stasera in una modalità ormai tradizionale, quasi irrinunciabile per molti di voi, quando effettivamente ci si accorga che evangelizzazione non è semplicemente una trasmissione intellettuale di una competenza estrinseca al mio cuore, che non vive nel mio cuore, ma è al contrario la possibilità di far uscire dal di dentro di noi questa luce apparsa come vita nuova e che nel presepe, e per l’appunto proprio attraverso la sua luminosità, si diffonde per portare luce dove gli altri sono nelle tenebre. Questa è la missione della Chiesa, essere ciascuno di noi un riverbero di questa luce, un riverbero di questa vita e di poterla vivere in una dimensione che, anche se in modo sempre meno sentito ahimè, in qualche misura proviamo liturgicamente a manifestare nella celebre processione della Candelora, che è una festa bellissima in cui la presentazione al tempio è l’occasione di vivere la moltiplicazione di queste luci che segnalano la fine dell’antica attesa di Israele, la sacerdotessa e il vecchio Simeone in una dimensione che fa noi stessi sorgente di quella luce che siamo chiamati ad annunciare.
Allora i contenuti di tutto questo ci riportano come sempre, parlando di dove si innesti questa potenzialità di unione con Dio. Dov’è che si innesta la potenzialità di unione? Dove ci portano i sensi che San Giovanni enuclea ed enumera come effettiva strumentazione della comunione col Signore Gesù apparso come vita? Dove portano quelle esperienze sensoriali? Quella adesione esistenziale, performativa alla venuta del Signore Gesù?
In quella sorta di zona d’ombra dove la nostra condizione umana sperimenta un suo potenziale appello all’infinitività. Qui in mezzo a noi ci sono molte persone che hanno buone ragioni, in realtà tutte, ma molte persone in particolare, hanno buone ragioni per fare del Natale la riscoperta, frugandosi dentro, uso questa espressione un po’ infelice, di questo potenziale innesto con l’infinito ed è questo che vorrei in modo tutto particolare sottolineare con voi, perché guardate che accade a tutti noi l’esperienza di sentire giorno dopo giorno consunta, limata, erosa questa potenzialità e disponibilità del nostro cuore ad essere veramente se stesso quando si abbandona all’infinitività, e quando l’accoglie l’infinitività, in quella esperienza di comunione trinitaria, amore per l’appunto infinito, che valica la nostra storia venendo dall’eternità, in una possibilità che lo ripeto, è la buona notizia del Natale.
Il Natale ci insegna davvero a riregistrare tutto alla luce di questa istanza della nostra interiorità, in questo senso il Natale ha indubbiamente una portata mnemonica nel ricordarci –e il presepe è uno strumento mirabile in questo- l’evento dell’incarnazione. Però attenzione! Non ci stanchiamo mai di dire, anno dopo anno, che se questa memoria non si sente, per così dire, autorizzata dalla forza dello Spirito essa stessa a valicare il tempo, il ricordo del Natale è inevitabilmente l’apparizione alla fine più frustrante che altro di una possibilità inedita per la nostra vita, ma che si lascia immediatamente riassorbire dall’oscurità del nostro peccato, delle nostre strutture sociali, politiche, culturali, tutto quello che fondamentalmente è il fallimento della condizione umana. Invece il Natale ci ripropone questa possibilità forte, perenne, permanente di mobilitazione dell’amore di Dio che, nella carne del Signore Gesù, continua a propiziare questa dinamica comunionale di cui noi possiamo approfittare tutte le volte che, aprendo la Bibbia, tutte le volte che partecipando all’Eucaristia, tutte le volte che vivendo un frammento delle dinamiche liturgiche, tutte le volte che riconosciamo presente Cristo in chi urla il proprio bisogno, la propria necessità, tutto questo ripeto dà questa possibilità straordinaria di sentire che quello che noi credevamo liso per sempre, cioè questa dimensione di potenziale infinitività è lì, viva nel nostro cuore, urla il suo bisogno di essere riconosciuta, urla la sua necessità di essere davvero collocata nell’unico spazio che trasforma la frustrazione in adesione e adempimento della nostra vita.
Tutto questo lo ha detto in modalità davvero insuperabili Papa Benedetto parlando a Rimini il 10 agosto del 2012.
Riconoscere di essere fatti per l’infinito significa percorrere un cammino di purificazione da quelli che abbiamo chiamato «falsi infiniti», un cammino di conversione del cuore e della mente. – e questo si opera attraverso un discernimento, cos’è veramente l’infinito offerto alla sete di assoluto del nostro cuore?- Occorre sradicare tutte le false promesse di infinito che seducono l’uomo e lo rendono schiavo. Per ritrovare veramente se stesso e la propria identità, -vedete bellissimo, che il contenuto è veramente ritrovare noi stessi, per questo il discorso ha una sua direi nobiltà ed esigenza antropologica- per vivere all’altezza del proprio essere, l’uomo deve tornare a riconoscersi creatura, dipendente da Dio. –e questo è il paradosso che costa fatica al nostro cuore, alla nostra piccola fede, alle nostre presunte certezze con le quali disponiamo e crediamo di poter disporre della realtà dentro e fuori di noi, presuntuosamente ritenendoci indipendenti da Dio e capaci di accendere quell’innesto di infinito con le nostre sole forze. Si direbbe con un carburante che renda illusoriamente la nostra vita un moto perpetuo, questo non può accadere, non può accadere perché l’uomo non ha in sé il carburante adeguato e sufficiente per diventare un moto perpetuo. E allora questa visione viene ulteriormente significata dalla parola di Papa Benedetto che, come vedete, diversamente da come leggeremo nel testo sul presepe, sono formulazioni molto più teologiche di Papa Francesco, ma noi siamo lieti che il Signore doni alla Chiesa Papi diversi, diciamolo con grande chiarezza! Non è che ci sia solo un prototipo e quello deve essere. Io devo dirvi che del mistero del Natale, in modo particolare leggendolo dall’angolatura del presepe, questa pagina di Benedetto è fondamentale. Sentite che bello:-Al riconoscimento di questa dipendenza – che nel profondo è la gioiosa scoperta di essere figli di Dio – è legata la possibilità di una vita veramente libera e piena.-questo implica un gesto di umiltà che peraltro corrisponde all’umiltà con la quale il nostro Dio si è fatto piccolo in Gesù Cristo, anche questo è un aspetto fondamentale, perché distrarci dalla portata umile e umiliante del Santo Natale? Francesco nell’invito ai suoi frati a fare il presepe vedrete che tornerà su questo tema- È interessante notare come san Paolo, nella Lettera ai Romani, veda il contrario della schiavitù non tanto nella libertà, – che è sempre una libertà autoreferenziale, inadeguata- ma nella figliolanza, nell’aver ricevuto lo Spirito Santo che rende figli adottivi e che ci permette di gridare a Dio: «Abbà! Padre!» -quindi una esperienza con la quale entriamo in una comunione resa efficace, possibile, dallo Spirito Santo il quale continua la sua dinamica di umiltà lasciandosi, per così dire, consegnare anche, non esclusivamente ma anche e moltissimo, alla nostra capacità di evangelizzazione, la quale per essere veramente fruttuosa non può prescindere dall’affidarsi costitutivamente allo Spirito Santo. Il discorso diventa ancor più bello quando si parla proprio di questo tema dell’autonomia, della dipendenza e della infinità. – L’Apostolo delle genti parla di una schiavitù «cattiva»: quella del peccato, della legge, delle passioni della carne. – le conosciamo e ahimè le subiamo, fratelli e sorelle se siamo finalmente umili e disponibili a riconoscerlo, ogni giorno, in dinamiche che il nostro cantiere di santificazione conoscerà più o meno forti, ma questa dimensione è effettivamente la schiavitù dalla quale possiamo, come dice Papa Benedetto meravigliosamente liberarci non con una presuntuosa autonomia ma addirittura attraverso la schiavitù di Cristo –A questa, però, non contrappone l’autonomia, ma la «schiavitù di Cristo», anzi egli stesso si definisce: «Paolo, servo di Cristo Gesù». –questa soggezione credo che sia davvero un contenuto molto forte che può anche fare inorridire il nostro stile umanistico così indisponibile a questa parola, così forte, così umiliante come schiavitù, ma in realtà se noi inscriviamo queste dinamiche nel mistero del Natale, cioè nella proposta che un piccolo bambino che nasce per noi ci fa, ci propone, come possiamo sentirci dispensati da una soggezione che si può qualificare assolutamente affidabile a un Dio così? Gesù non ci viene a schiacciare con la sua forza, non si presenta, come dirà Papa Francesco nell’ Admirabile signum chiuso nel palazzo di Erode o nel palazzo di Augusto, inevitabilmente refrattari a una dinamica di umiltà e di umiliazione, forti come sono alla pretesa di autoconservazione. Per questo è importante che il Natale scucia un po’ i nostri cuori, sia un’esperienza faticosa, ma anche di umiliazione, che facciamo i conti con questo tessuto lacerato che solo la dinamica dello Spirito Santo può rammendare in una dimensione efficace che ci restituisce peraltro alla vera libertà e alla nostra vera identità. – Il punto fondamentale, quindi, non è eliminare la dipendenza, che è costitutiva dell’uomo, ma indirizzarla verso Colui che solo può rendere veramente liberi. A questo punto però sorge una domanda. Non è forse strutturalmente impossibile all’uomo vivere all’altezza della propria natura? E non è forse una condanna questo anelito verso l’infinito che egli avverte senza mai poterlo soddisfare totalmente? – questa è l’esperienza con la quale, senza scivolare in casi personali ma, sento di doverlo fare e dire, chi piange un proprio figlio di fronte a un sepolcro, chi vive una perdita, chi vive un fallimento di qualsiasi genere, ha sentito una tensione con la quale, per così dire, nell’ebbrezza dell’amore è uscito da sé stesso e ha desiderato essere, su quel modello di Dio, lui stesso comunione. Ma come stiamo dicendo, noi non siamo moti perpetui, non abbiamo queste risorse da noi stessi. Papa Benedetto cita in una sua bellissima meditazione sul desiderio, questa frase molto bella di Pascal “L’uomo supera infinitamente sé stesso”; cioè la tensione dell’uomo è un suo sconfinare senza requie, però occorre che con umiltà rimettiamo a fuoco che il Natale è la grande occasione perché questa dimensione di superamento di noi stessi ci risparmi da quei “capitomboli” esistenziali, da quelle presunzioni autoidolatriche, da quella fallace persuasione con le quali, con un po’ di stucco riusciamo a foderare le fragilissime strutture della nostra storia, della nostra psiche, se non le inseriamo in questa feconda e verace dinamica comunionale che il bambino Gesù nel nostro presepe torna ad offrire al nostro sguardo e all’intelligenza del nostro sguardo. Tra l’altro, anticipo qui un tema che forse non avremo modo di toccare, ma guardate che a conferma di tutto questo i Padri sempre hanno sottolineato come il deporre il Gesù Bambino nella mangiatoia in mezzo a fasce bianche dove si rifocillano gli animali è naturamente una evidente prefigurazione dell’Eucaristia, cioè dell’esperienza comunionale più forte che abbiamo “a disposizione”. Quindi accostatevi ai vostri presepi con questa dimensione forte, intensa, si direbbe, sacramentale e vedeteci veramente una visita forte che l’amore di Dio nella sua umiltà fa nelle vostre case, nell’intimità dei vostri cuori, nell’intimità della vostra vita, degnandosi di nascere in tutto di noi. Certo noi gli disponiamo la sala migliore, facciamo il presepe in salotto, però come dire, non è che il Signore vada in giro alla ricerca di ambienti qualificati a cinque stelle, anzi come sappiamo bene in questo la successione liturgica è chiarissima anzitutto si presenta ai pastori e alla fine ai ricchi e sapienti re magi, qualcosa vorrà dire questo no? Quindi è una prospettiva che vi fa capire come il Signore si degni di scivolare nel mio cuore nonostante sia fragile, sia contraddittorio, nelle nostre case dove non sempre viviamo una esperienza di comunione, di fede, di speranza e di amore. – Questo interrogativo ci porta direttamente al cuore del cristianesimo. L’Infinito stesso, infatti, per farsi risposta che l’uomo possa sperimentare, ha assunto una forma finita. -torniamo quindi alla esperienza, perché l’incontro col Signore Gesù, come più volte ribadiscono Benedetto e Francesco è un incontro con una persona, non con un’idea, non con un’astrazione e il presepe e il Natale celebrano questa possibilità letteralmente sconvolgente della personificazione nella forma pienamente umana del figlio unigenito, preesistente a tutte le cose. Pensate che l’unica cosa che esisteva prima della creazione era l’amore eterno e sconfinato che legava il Padre e il Figlio, quindi una visione altissima del Figlio Gesù, non è che a un certo punto appare di punto in bianco e le lo ritroviamo nella cullina, è davvero ciò che contempla il Padre come suo figlio unigenito quindi una prospettiva davvero di straordinaria fecondità che vorrei restituisse a ciascuno di noi un respiro di infinitività.“ha assunto una forma finita”: ecco il cuore del Natale, la vita si è resa visibile nella sua dimensione di finitezza altrimenti insostenibile ai nostri sguardi, all’intelligenza dei nostri sensi e del nostro cuore, questo è bellissimo!
Dall’Incarnazione, dal momento in cui il Verbo si è fatto carne, è cancellata l’incolmabile distanza tra finito e infinito: il Dio eterno e infinito ha lasciato il suo Cielo ed è entrato nel tempo, si è immerso nella finitezza umana. – e torniamo a questa parola che stasera mi è molto cara, l’unità. Sento, sentiamo, fratelli e sorelle, in questa storia che si sgretola, usiamo un po’ espressioni forti ma è realmente così, in queste strutture che si sgretolano, il bisogno di aderire di nuovo al mistero del Signore Gesù, fare tesoro del suo umile manifestarsi perché l’uomo ritrovi questa possibilità efficace di sentirsi capace di un infinito che, con la premessa di una umiltà per non dire umiliazione, può finalmente abitare nei nostri cuori, in quella forma di schiavitù di Gesù Cristo che Paolo ci racconta essere la più alta forma di liberazione della condizione umana, perché non si è visto un umano migliore del Signore Gesù, quindi aderendo alla sua umanità, che è peraltro il modo con cui Dio si racconta, i miracoli sono dei segni, non sono delle magie, Gesù fin dall’inizio sfida il non essere riconosciuto, rifiuta una divinizzazione stupefacente della sua umanità, anzi, nasce in mezzo, lasciatemelo dire, al concime di una capannuccia, di una grotta, quindi ci sta in questa dimensione umana, è bellissimo questo, restituisce respiro ai nostri cuori, c’è il mio fango, la mia lordura, la mia impotenza, la mia inadeguatezza, lì nasce il Signore. Questo è molto importante e molto bello. Approfittiamone, Benedetto ci dice queste cose a Rimini il 10 agosto del 2012, non il 25 dicembre, perché vi dice queste cose il 10 agosto? Perché sa benissimo che il mistero del Natale in questa sua portata qualificante del nostro desiderio è perennemente disponibile anche nel cuore dell’estate. – Nulla allora è banale o insignificante nel cammino della vita e del mondo. L’uomo è fatto per un Dio infinito che è diventato carne, che ha assunto la nostra umanità per attirarla alle altezze del suo essere divino.
Questo è bellissimo. Io penso che cogliate anche questa dimensione si direbbe, progressiva della nostra adesione a Cristo perché solo chi vive l’umiliazione e l’umiltà come esclusiva e necessaria chiave di accesso all’umiltà di Dio sa che la sua divinizzazione non è una cosa compiuta per sempre, ma al contrario è per l’appunto questo continuo conformarsi con il quale possiamo dire, ma non frustrati, veramente consapevoli di quanto dinamismo possa inaugurarsi nei nostri cuori: l’uomo supera infinitamente l’uomo. Perché ha incontrato l’infinito nella sua dimensione finita e questa non è, io spero lo cogliate come una astratta filosofia, un’astratta teologia; certo Papa Benedetto da par suo ci porta, diciamo, al nucleo del buon annuncio, che passa anche attraverso categorie concettuali, però io queste categorie concettuali non ve le evoco per fare bella accademia o bel salotto, perché ve l’ho detto prima, quando piangiamo una persona, quando sperimentiamo un errore, quando manchiamo di riconoscere un’occasione, quando ci chiudiamo a riccio di fronte a qualcuno che ci chiede aiuto, esperienze quotidiane della nostra vita, noi tocchiamo con mano il fallimento di questa prospettiva, fallimento che in realtà possiamo invertire e convertire grazie a quello che il mistero del Natale offre alla nostra intelligenza, e lo fa anche attraverso il presepe, cioè attraverso gesti semplicissimi che naturalmente non possiamo evocare usando categorie come quelle dell’infinito, ma non per questo ci trovano indifferenti a quella loro portata per la quale nel presepe noi vediamo davvero, per usare un’espressione di Papa Benedetto, l’immersione di Dio in Cristo Gesù nella finitezza umana.
I vostri presepi rappresentano davvero questa cavità nella quale il Signore Gesù si degna di dimorare portandoci luce, la vita si è fatta visibile, la nostra vita, la vocazione vera della nostra vita e qui vedete si inaugurano dinamiche che, con umiltà dobbiamo chiedere allo Spirito Santo di propiziare sempre, di renderci sempre cantiere aperto, progressione incessante.
Io vi ho riportato anche una riflessione di San Leone Magno che ci aiuta in questa prospettiva commentando le genealogie del Signore Gesù che toccano tutti gli anni al povero Stefano e alla sua Messa vigiliare, del 24 di dicembre quando deve leggersi tutta questa sfilata di nomi. Però questa prospettiva non la dobbiamo vedere come una erudizione con la quale la parola di Dio ci vuole solleticare in questo nostro prurito erudito, ma ci vuole portare alla consapevolezza che il Signore Gesù per salvarci, questa nostra umanità l’ha presa totalmente e integralmente e questo è un assunto di formidabile potenza che dobbiamo ricordare sempre, perché noi alle volte anche lì, al Signore Gesù spalanchiamo e non spalanchiamo parti di noi e invece vedete come lui funziona.
Dalle Lettere di San Leone Magno, papa:
Certo l’onnipotenza del Figlio di Dio, per istruire e giustificare gli uomini, avrebbe potuto manifestarsi come già si era manifestata ai patriarchi e ai profeti, sotto l’aspetto di uomo, come quando affrontò la lotta con Giacobbe o dialogò o accettò l’accoglienza di ospite – riferimento alla visita dei tre misteriosi pellegrini alla quercia di Namnet- o mangiò persino il cibo imbanditogli. Ma quelle immagini erano soltanto segni di questo uomo che, come preannunziavano i mistici segni, avrebbe assunto vera natura dalla stirpe dei patriarchi che lo avevano preceduto. –ecco perché nel Vangelo della vigilia di Natale dobbiamo stare a sentire, diventa quasi una cantilena, queste generazioni che ci portano al Signore Gesù raccontandoci proprio il suo farsi strada nell’ordito della nostra vicenda generazionale per rammendare la nostra storia dal di dentro –Nessuna figura poteva realizzare il sacramento della nostra riconciliazione, preparato da tutta l’eternità, perché lo Spirito santo non era ancora disceso sulla Vergine, né la potenza dell’Altissimo l’aveva ancora ricoperta della sua ombra. –esperienze che dobbiamo leggere sulla falsa riga dell’inizio della lettera di San Giovanni, cioè l’esperienza della comunione che si fa strada nella nostra storia e nella condizione umana – La Sapienza non si era ancora edificata la sua casa nel seno immacolato di Maria. Il Verbo non si era ancora fatto carne. Il Creatore dei tempi non era ancora nato nel tempo, unendo in sé in una sola persona la natura di Dio e la natura del servo. Colui per mezzo del quale sono state fatte tutte le cose, doveva egli stesso essere generato fra tutte le altre creature. –le altre creature dove questo “fra” vi restituisce tutta la portata davvero stupefacente che ritroveremo nel commento di Papa Francesco al tema del presepe.
Se infatti questo uomo nuovo, fatto «a somiglianza della carne del peccato» (cfr. Rm 8, 3), non avesse assunto il nostro uomo vecchio, ed egli, che è consostanziale con il Padre, non si fosse degnato di essere consostanziale anche con la Madre e se egli, che è il solo libero dal peccato, non avesse unito a sé la nostra natura umana, tutta quanta la natura umana sarebbe rimasta prigioniera sotto il giogo del diavolo. – per questo mi piace che questo anno il tema del Natale lo meditiamo attraverso questa categoria dell’unità, resa possibile per l’appunto dalla vicenda natalizia e dalla dimensione evangelizzante della Chiesa nel suo farsi esperienza di comunione nella nostra storia. – Noi non avremmo potuto aver parte alla vittoria gloriosa di lui, se la vittoria fosse stata riportata fuori della nostra natura.
In seguito a questa mirabile partecipazione alla nostra natura rifulse per noi, il sacramento della rigenerazione, – ecco vi dicevo all’inizio uno sguardo sulle piantine del nostro restauro, sul progetto che i nostri bravi architetti hanno pensato per dare alla nostra condizione umana, ripeto, non gli stucchi, non gli smalti, ma una struttura di verticalità incessantemente aperta all’infinito sperimentando, bene inteso, il suo fallimento, ma nello stesso tempo anche la forza rigenerante che l’unione con Cristo apporta alla nostra vita, per trasformarla in una conversione senza fine, in quella che San Benedetto chiede ai suoi monaci, questa è anche l’occasione per annunciare pubblicamente che il 6 gennaio alle ore 17,30 Dom Costantino farà la sua professione solenne e dovrà fare il suo voto di conversatio, non di conversione, conversione è un evento accaduto, finito, ma l’uomo non può vivere questa esperienza, l’uomo vive una dimensione di durata necessariamente di durata, perché questa dialettica fra finitezza e infinitezza non può e non deve arrestarsi mai. – perché, in virtù dello stesso Spirito da cui fu generato e nacque Cristo, anche noi, che siamo nati dalla concupiscenza della carne, -il mistero di questa ferita creaturale che la tradizione occidentale chiama il peccato originale- nascessimo di nuovo di nascita spirituale. –per questo Maria è vergine, perché è un nuovo inizio, è la nuova Eva, capite che portata simbolica in senso pieno ha il fatto che con la sua Immacolata Concezione inizi una storia come l’aveva desiderata Dio e che rende possibile -non lei, Gesù Cristo- che con lo Spirito Santo si fa storia nella sua storia, carne nella sua carne, nascessimo di nuovo di nascita spirituale- Per questo l’evangelista dice dei credenti (cioè di ciascuno di noi, Prologo di Giovanni che leggiamo a Natale): «Non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati»
Questa è la nostra generazione, non è che stia parlando dei santi, degli angeli, ma di noi che col Battesimo, grazie alla comunione forte unitiva con Cristo possiamo finalmente riscoprire questo tassello di infinità che finalmente si offre quale strumentazione affidabile per questa continua dinamica di crescita.
Ecco, Papa Francesco riporta tutto questo alla dimensione del presepe, è un testo molto più semplice, quindi molto meno esigente.
Admirabile signum (sul significato e il valore del presepe) Greccio 1 dicembre 2019
Rappresentare l’evento della nascita di Gesù equivale ad annunciare il mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio con semplicità e gioia. –questo è il cuore del magistero di Francesco, non ha altro interesse il Papa che questo, cioè evangelizzare nel segno della gioia il nostro tempo perché tutti partecipino appunto di questo evento che apre una potenzialità di infinito alla nostra vita –Il presepe, infatti, è come un Vangelo vivo, che trabocca dalle pagine della Sacra Scrittura. Mentre contempliamo la scena del Natale, siamo invitati a metterci spiritualmente in cammino, attratti dall’umiltà di Colui che si è fatto uomo per incontrare ogni uomo. –E’ quello che faremo preparando il nostro presepe, il nostro, il vostro, cioè questo nostro muoverci, andando dietro al Signore Gesù, e non è una processione, è qualcosa di più importante, di più forte, è veramente l’invito che il Natale ci fa a metterci spiritualmente in cammino attratti dall’umiltà di colui che si è fatto uomo per incontrare ogni uomo, vedete di nuovo questa dimensione unitiva generata, come ci aveva già avvertito Benedetto, dall’umiltà del Signore. E questo è molto bello! Fidiamoci dell’umiltà del Signore Gesù! Parla ai nostri limiti, ai nostri insuccessi, alle nostre disperazioni e lo fa per l’appunto da par suo,
E scopriamo che Egli ci ama a tal punto da unirsi a noi, perché anche noi possiamo unirci a Lui.
- L’origine del presepe trova riscontro anzitutto in alcuni dettagli evangelici della nascita di Gesù a Betlemme. L’Evangelista Luca dice semplicemente che Maria «diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio» (2,7). Gesù viene deposto in una mangiatoia, che in latino si dice praesepium, da cui presepe.
Entrando in questo mondo, il Figlio di Dio trova posto dove gli animali vanno a mangiare. Il fieno diventa il primo giaciglio per Colui che si rivelerà come «il pane disceso dal cielo» (Gv 6,41). – qui vedete una evocazione del tema già detto dell’Eucaristia- Una simbologia che già Sant’Agostino, insieme ad altri Padri, aveva colto quando scriveva: «Adagiato in una mangiatoia, divenne nostro cibo» (Serm. 189,4). –cioè , ripeto, il presepe non è una cornicetta, è un’esperienza di Dio-comunione, quindi non può non rimandare al mistero eucaristico, non abbiate paura di sentire l’Eucaristia presente nelle vostre case, non è sacrilegio, anzi è il destino, la vocazione del nostro vivere in Cristo- In realtà, il presepe contiene diversi misteri della vita di Gesù e li fa sentire vicini alla nostra vita quotidiana.
Ma veniamo subito all’origine del presepe come noi lo intendiamo. Ci rechiamo con la mente a Greccio, nella Valle Reatina, dove San Francesco si fermò venendo probabilmente da Roma, dove il 29 novembre 1223 aveva ricevuto dal Papa Onorio III la conferma della sua Regola. Dopo il suo viaggio in Terra Santa, quelle grotte gli ricordavano in modo particolare il paesaggio di Betlemme. Ed è possibile che il Poverello fosse rimasto colpito, a Roma, nella Basilica di Santa Maria Maggiore, dai mosaici con la rappresentazione della nascita di Gesù, proprio accanto al luogo dove si conservavano, secondo un’antica tradizione, le tavole della mangiatoia. – E poi ancora, evoca le fonti francescane- Le Fonti Francescane raccontano nei particolari cosa avvenne a Greccio. Quindici giorni prima di Natale, Francesco chiamò un uomo del posto, di nome Giovanni, e lo pregò di aiutarlo nell’attuare un desiderio: «Vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello». –io mi ricordo una delle primissime meditazioni di Natale di tanti anni fa, fu proprio quando avevo a disposizione una rosa molto più ampia di argomenti, effettivamente il bellissimo racconto delle fonti francescane e vedete cosa ci sottolinea come preminente nell’interesse di Francesco, sottolineare visibilmente, concretamente lo scomodo che Gesù ha subito nella sua umiliazione che propizia la nostra umiltà per andare incontro a lui. Questo è un passaggio decisivo del Natale. – Appena l’ebbe ascoltato, il fedele amico andò subito ad approntare sul luogo designato tutto il necessario, secondo il desiderio del Santo. Il 25 dicembre giunsero a Greccio molti frati da varie parti e arrivarono anche uomini e donne dai casolari della zona, portando fiori e fiaccole per illuminare quella santa notte. Arrivato Francesco, trovò la greppia con il fieno, il bue e l’asinello. La gente accorsa manifestò una gioia indicibile, mai assaporata prima, davanti alla scena del Natale. –pensate che presunzione il biografo francescano, mai assaporata prima, ora forse non esageriamo, però è interessante notare che si riconosca una modalità inedita che tra l’altro coinvolge le persone – Poi il sacerdote, sulla mangiatoia, celebrò solennemente l’Eucaristia, mostrando il legame tra l’Incarnazione del Figlio di Dio e l’Eucaristia. – anche qui noi alle volte siamo abituati a pensare la liturgia con degli schemi ritualistici, fissi, ripetitivi, vedete la libertà dello Spirito, qui Francesco non ha problemi a chiedere a un prete di celebrare la Messa in un presepe. Questo per farvi capire come effettivamente quella presenza lì è sufficiente per ispirare una attualizzazione ancora più intensa resa possibile dalla celebrazione eucaristica, dalla liturgia eucaristica, che non è un sottofondo remoto, lontano, stilizzato, estraneo al nostro vissuto. Al contrario.
In quella circostanza, a Greccio, non c’erano statuine: il presepe fu realizzato e vissuto da quanti erano presenti – non c’erano statuine, questo è bellissimo e importante, io ve le do le statuine, giusto per ritrovarci sotto qualche segno, ma siete voi le statuine del presepe! Capito? Siamo noi le statuine del presepe, dove non abbiamo più statuine useremo le candele, ma è questo che conta, capite? Andare verso l’umiltà del Signore con altrettanta umiltà.
È così che nasce la nostra tradizione: tutti attorno alla grotta e ricolmi di gioia, senza più alcuna distanza tra l’evento che si compie e quanti diventano partecipi del mistero. –questa parola partecipazione è un altro sinonimo di quella unità che mi sta profondamente a cuore acquisiate come contenuto essenziale delle celebrazioni del Natale, unità possibile, reale, feconda, della nostra povera vita con la grazia del Signore. Io non conosco notizia migliore per la nostra umanità, vi devo dire la verità e questo, ripeto, non significa disimpegno, non significa spiritualizzazione perché anzi, potremmo pure leggere come questa dimensione qui, ci dice Francesco, “stimola gli affetti, invita a sentirsi coinvolti, nella storia della salvezza, contemporanei dell’evento che è vivo e attuale nei più diversi contesti storici, culturali”.
Perché il presepe suscita tanto stupore e ci commuove? Anzitutto perché manifesta la tenerezza di Dio. Lui, il Creatore dell’universo, si abbassa alla nostra piccolezza. Il dono della vita, già misterioso ogni volta per noi, ci affascina ancora di più vedendo che Colui che è nato da Maria è la fonte e il sostegno di ogni vita. In Gesù, il Padre ci ha dato un fratello che viene a cercarci quando siamo disorientati e perdiamo la direzione; un amico fedele che ci sta sempre vicino; ci ha dato il suo Figlio che ci perdona e ci risolleva dal peccato.
Comporre il presepe nelle nostre case ci aiuta a rivivere la storia che si è vissuta a Betlemme. Naturalmente, i Vangeli rimangono sempre la fonte che permette di conoscere e meditare quell’Avvenimento; tuttavia, la sua rappresentazione nel presepe aiuta ad immaginare le scene, stimola gli affetti, invita a sentirsi coinvolti nella storia della salvezza, contemporanei dell’evento che è vivo e attuale nei più diversi contesti storici e culturali. –qui il Papa fa un gesto di grande coraggio che ha un po’ fatto arricciare il naso a coloro che si aspettavano dal Papa un testo che limitasse il presepe ai soli confini ecclesiali, niente affatto, il Papa lo dice, abbiate il coraggio di farlo dappertutto, perché è evangelizzazione, perché è buon annuncio, siate audaci nel farlo dovunque e comunque e questo perché? Per questa ragione qui che in effetti in questa dimensione noi ci sentiamo coinvolti nella storia della salvezza, contemporanei dell’evento e includiamo gli altri in questo evento. Per questo inutile dirlo, fatelo l’albero di Natale, per carità, è importante, è un segno di verticalità, l’anno scorso lo abbiamo fatto con Roberta Pampaloni e giustamente facemmo il presepino sotto i suoi rami che ballavano al vento nella notte fredda di San Miniato generandomi le prime volte inquietudine e angoscia, sembravano degli spiriti usciti dalle tombe, poi mi resi conto che erano questi suoni, questo anno no però, come dire, sentiamoci tutti partecipi di questa dimensione che, ripeto, ci fa essere tutti coinvolti, partecipi del mistero- In modo particolare, fin dall’origine francescana il presepe è un invito a “sentire”, a “toccare” la povertà che il Figlio di Dio ha scelto per sé nella sua Incarnazione. E così, implicitamente, è un appello a seguirlo sulla via dell’umiltà, della povertà, della spogliazione, che dalla mangiatoia di Betlemme conduce alla Croce. È un appello a incontrarlo e servirlo con misericordia nei fratelli e nelle sorelle più bisognosi (cfr Mt 25,31-46). –vedete come anche qui si condensa un altro tema portante del magistero di Francesco, evangelizzazione, gioia, misericordia. Non è un cammino di perfetti, non è un perfettismo questa dinamica natalizia, anzi, è resa possibile da chi finalmente scopre di essere come quei pastori la cui unica dimensione di gradevolezza è l’ascolto che hanno perché costretti ad essere attenti nella notte per il bene interessato dei loro greggi, è un ascolto non funzionale alla lectio divina, un ascolto di mestiere per la loro miseria, per il loro lavoro, però queste orecchie aperte sono rese dal Signore dal suo disegno, che parla agli ultimi, capaci di intercettare per prime la buona notizia. Sentiamoci dunque pastori.
- Mi piace ora passare in rassegna i vari segni del presepe per cogliere il senso che portano in sé. -un altro passaggio è di taglio esistenziale, lo dedico a chi passa notti insonni per questa frustrazione nel sentire nel loro cuore l’amore infinito per i propri cari e l’impossibilità di poterlo alfabetizzare – In primo luogo, rappresentiamo il contesto del cielo stellato nel buio e nel silenzio della notte. Non è solo per fedeltà ai racconti evangelici che lo facciamo così, ma anche per il significato che possiede. Pensiamo a quante volte la notte circonda la nostra vita. Ebbene, anche in quei momenti, Dio non ci lascia soli, ma si fa presente per rispondere alle domande decisive che riguardano il senso della nostra esistenza: chi sono io? Da dove vengo? Perché sono nato in questo tempo? Perché amo? Perché soffro? Perché morirò? Per dare una risposta a questi interrogativi Dio si è fatto uomo. La sua vicinanza porta luce dove c’è il buio e rischiara quanti attraversano le tenebre della sofferenza (cfr Lc 1,79).
Una parola meritano anche i paesaggi che fanno parte del presepe e che spesso rappresentano le rovine di case e palazzi antichi, che in alcuni casi sostituiscono la grotta di Betlemme e diventano l’abitazione della Santa Famiglia. Queste rovine sembra che si ispirino alla Legenda Aurea del domenicano Jacopo da Varazze (secolo XIII), dove si legge di una credenza pagana secondo cui il tempio della Pace a Roma sarebbe crollato quando una Vergine avesse partorito. Quelle rovine sono soprattutto il segno visibile dell’umanità decaduta, di tutto ciò che va in rovina, che è corrotto e intristito. Questo scenario dice che Gesù è la novità in mezzo a un mondo vecchio, ed è venuto a guarire e ricostruire, a riportare la nostra vita e il mondo al loro splendore originario.
«La vita infatti si manifestò» (1 Gv 1,2): così l’apostolo Giovanni riassume il mistero dell’Incarnazione. Il presepe ci fa vedere, ci fa toccare questo evento unico e straordinario che ha cambiato il corso della storia, e a partire dal quale anche si ordina la numerazione degli anni, prima e dopo la nascita di Cristo. – e infine come già annunciato mi piace dire questa capacità di designare da parte del Papa questa umiliazione di Dio in termini molto forti, teologicamente più semplici, letterariamente meno raffinati ma molto chiari – Il modo di agire di Dio quasi tramortisce, perché sembra impossibile che Egli rinunci alla sua gloria per farsi uomo come noi. Che sorpresa vedere Dio che assume i nostri stessi comportamenti: dorme, prende il latte dalla mamma, piange e gioca come tutti i bambini! Come sempre, Dio sconcerta, è imprevedibile, continuamente fuori dai nostri schemi. Dunque il presepe, mentre ci mostra Dio così come è entrato nel mondo, ci provoca a pensare alla nostra vita inserita in quella di Dio; invita a diventare suoi discepoli se si vuole raggiungere il senso ultimo della vita. –qui il Papa appunto apre la possibilità di inedite vie pastorali, di evangelizzazione che alla luce della singolarità con cui Dio ci raggiunge nella notte di Natale, un mistero che tramortisce, autorizza anche noi in definitiva a questo genere di dinamiche che riportino l’umanità intera all’incontro qualificante col Signore.
Cari fratelli e sorelle, il presepe fa parte del dolce ed esigente processo di trasmissione della fede. A partire dall’infanzia e poi in ogni età della vita, ci educa a contemplare Gesù, a sentire l’amore di Dio per noi, a sentire e credere che Dio è con noi e noi siamo con Lui, tutti figli e fratelli grazie a quel Bambino Figlio di Dio e della Vergine Maria. E a sentire che in questo sta la felicità. –Tutto questo si condensa nel magistero di Francesco in questo testo molto bello a sentire che in questo sta la felicità- Alla scuola di San Francesco, apriamo il cuore a questa grazia semplice, lasciamo che dallo stupore nasca una preghiera umile: il nostro “grazie” a Dio che ha voluto condividere con noi tutto per non lasciarci mai soli.
Si ritorna a questo tema dell’unità che deve dischiudere in noi il senso della gratitudine, di una vera e propria indole eucaristica cha mai ci deve abbandonare, con un senso di stupore, di ammirazione, di prodigio che il Signore compie per sollevare le nostre povere vite, unirle a sé, condurci verso le vette che lo Spirito schiude ai nostri cuori.
Tutto questo ci è detto anche con una bellissima poesia di Giuseppe Centore che evoca immagini molto forti:
Non ci sono distanze col Cielo.
Per ciò che tocca Dio tutto è al suo posto:
nel canto pitagorico degli astri
nell’ ondulata corsa dei minuti
nel seme vivo che fiorisce in frutto.
E anche nel sangue, nella morte assurda
non ci sono intenzioni taciute,
non c’è ragione che non sia l’Amore.
E questo è il segno della Sua imminenza:
dov’è passato, ritornare, è udirlo,
dov’è restato, credergli, è incontrarlo;
e non è un gioco tra illusione e inganno,
un’altalena tra Infinito e Nulla.
Aperti oltre il crepuscolo del pianto,
come la mano che alzerà il sipario,
gli occhi di Dio oramai sono di carne.
Trascrizione a cura di Grazia Collini
Fotografia di Mariangela Montanari