«Non più tardi di ieri, ancora oggi». Una meditazione del padre abate Bernardo per la Natività del Signore nella luce dell’Epifania
Riflettere insiemeGiovedì 21 dicembre 2017 ore 12,00

Fotografia di Mariangela Montanari
Meditazione di Natale
21 dicembre 2017
Padre Bernardo
Siamo riuniti per condividere insieme un itinerario di testi che ci aiuti ad arrivare con maggiore consapevolezza ai grandi momenti liturgici che ci attendono e a fare in modo che la loro esuberanza di contenuti, di significato e soprattutto di grazia, inondi in modo ancora più efficace la nostra quotidianità. Credo che quello che possiamo approfondire stasera, insieme come in mille altre occasioni di approfondimento che vi sono date, unitamente alla liturgia, diventa, come dire, una sorta di passaggio che rende l’essenziale del mistero che viviamo, e che celebriamo, capace di dilagare nel nostro quotidiano, sottraendoci al rischio oggettivo di concentrare nella sola liturgia quanto invece ha da diventare carne della nostra carne, storia della nostra storia, in perfetta analogia con la verticalità tutta in discesa con la quale il Signore Gesù ci viene incontro.
E questo anno ho pensato potesse essere utile e fruttuoso che la nostra meditazione si spostasse verso la fine del tempo di Natale, mettendoci in cammino con i Magi, niente di meno che con i Magi, e inaugurando, se davvero sarà possibile, una piccola trilogia che punta la sua attenzione sui tre doni dei Magi che tutti noi sappiamo, l’oro, l’incenso e la mirra.
Quest’anno vorrei con voi, se possibile, spendere qualche parola, con l’aiuto di Pavel Florenskij, sull’incenso, di modo che quello che faremo, tra l’altro come ogni anno alla fine della meditazione e cioè incensare il nostro presepe, e tutte le volte che venendo a San Miniato partecipate di quelle nuvole profumate, risvegli in voi la consapevolezza di un mistero, non un espediente, un mistero che, annebbiando il nostro raziocinio, apre lo sguardo del nostro cuore ad una intellezione più profonda, più dinamica, più partecipativa del mistero stesso. Questo proprio grazie alla nebbia dell’incenso che offusca il nostro argomentare, per dilatare il nostro intuito.
Questo è un po’ il senso del nostro percorso stasera che inauguriamo con una semplice preghiera.
La preghiera che diventa per me anche la duplice riconoscenza al Signore e a voi che donate del tempo a Lui, ma anche alle mie povere parole, perché insieme, da questo anfratto, quasi una grotta, possa iniziare la nostra celebrazione del Natale. Per questo invochiamo insieme lo Spirito Santo che accorci ogni distanza nel tempo e nello spazio, affacci Dio nel nostro cuore e il nostro cuore a Dio e renda i nostri sensi, la nostra intelligenza, il nostro cuore, disponibile a lasciarsi, come è successo ai pastori, è successo a Maria, lasciarsi interrogare da una parola ascoltata e stupire da una luce ospitata. Amen.
Al cuore della nostra riflessione sta la proposta fin troppo scontata e anche di facile esecuzione di due splendidi brani patristici, un testo di San Basilio Magno, un testo di un padre monastico, Odilone di Cluny, naturalmente centrati sul mistero dell’Epifania, quindi come ripeto davvero andiamo all’estremo del tempo di Natale e ci introduce a quel momento di straordinaria intensità teologica e nello stesso tempo anche poetica e narrativa, la indispensabile lettura del Vangelo secondo Matteo che costituisce naturalmente quella trama sulla quale si interroga la Chiesa attraverso appunto la parola di questi due grandi maestri dello spirito.
Matteo 2, 1-12
1Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi giunsero da oriente a Gerusalemme 2e domandavano: «Dov’è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella e siamo venuti per adorarlo». 3All’udire queste parole, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. 4Riuniti tutti i sommi sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Messia. 5Gli risposero: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta:
6E tu, Betlemme, terra di Giuda,
non sei davvero il più piccolo capoluogo di Giuda:
da te uscirà infatti un capo
che pascerà il mio popolo, Israele».
7Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella 8e li inviò a Betlemme esortandoli: «Andate e informatevi accuratamente del bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo».
9Udito le parole del re, essi partirono. Ed ecco, la stella, che avevano visto nel suo sorgere, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. 10Al vedere la stella, essi provarono una grandissima gioia. 11Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, e prostratosi lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. 12Avvertiti poi in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese.
Ecco la narrazione è notissima di questo testo, voglio sottolineare prima di affrontare insieme la lettura dei padri, la intensità di un tratto tipico del Vangelo di Matteo che è la gioia e avete letto quanto sia efficace questa descrizione di una grandissima gioia che pervade i Magi quando si accorgono di questa straordinaria coincidenza, nel segno proprio pieno di questa parola, fra la stella e l’incontro con il Messia, l’incontro con il Bambino, dove dobbiamo davvero riconoscere una sorta di vertiginosa intensità di quei segni che accompagnano, e hanno accompagnato, il loro cammino, un segno che è il libro della creazione, la stella appunto, che nella sua dinamica in obbedienza alle leggi degli astri, ha aperto la via ai grandi sapienti, capaci di scrutare la natura stessa cogliendone un suo intimo significato, sapendone riconoscere una sua pur misteriosa logica che avvicina, attraverso lo spettacolo della natura, pur nella sua immensità apparentemente gelida e fredda, il farsi significante di quel vivente significato che, in Cristo, rende la terra che abitiamo, il cielo che contempliamo, lo spazio che nella sua immensa bontà Dio ha costruito per noi, dove in questo per noi non sta l’egoismo di voler sottoporre ai nostri capricci quanto ci circonda, ma di volerlo contemplare, davvero come quel dono che lo sguardo dei Magi, con la loro umile sapienza, ha saputo intuire, per renderlo davvero il primo grande accesso al mistero del Dio che si svela in un bambino.
E poi la capacità di riconoscere in Gerusalemme lo spazio irrinunciabile dove la parola si è fatta profezia, dove la parola si è fatta indicazione, dove l’attesa, seppur ormai contratta in una sorta di disperante quiete, era sopravvissuta come fiume carsico fino all’istante in cui il Battista si è fatto davvero anch’egli ultimo anello di una tradizione che i Magi vanno a indagare per poter arrivare con la stella e la parola, all’incontro con il Bambino. Quindi cogliete davvero come ci sia in questo brano una sinfonia di segni, una sinfonia di mirabili indizi che avvicina il loro passo, ma anche il loro cammino, all’incontro di ogni incontro, quello con il Bambino, il Messia, l’Atteso.
E tutto questo fa scaturire nel cuore dei Magi la gioia che, ripeto, è il frutto prezioso del Vangelo; con questa premessa che ci assimila, io credo davvero, ci assimila un po’ ai Magi, anche il vostro è un pellegrinaggio, anche il vostro è un fidarvi dei segni del tempo, dell’oscurità sempre più insopportabile nel suo prolungarsi di queste cortissime giornate di inverno alla ricerca di un sole che inverta finalmente la rotta; e anche del vostro fidarvi di questo luogo per essere, seppur con maldestri custodi, un luogo della parola, ecco che insieme come i Magi siamo ormai vicinissimi a incontrare quel volto, quella presenza che doni alla nostra vita una gioia che nessuno può toglierci.
Su tutto questo il commento stupendo di Basilio (dalle Omelie di San Basilio Magno):
La stella si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al solo vedere la stella, i magi provarono un’immensa gioia. Accogliamo anche noi nel nostro cuore quella grande gioia. La stessa gioia annunziano gli angeli ai pastori. Adoriamolo insieme ai magi, diamogli gloria coi pastori, esultiamo con gli angeli, “perché oggi ci è nato un Salvatore che è il Cristo Signore”. “Dio, il Signore è nostra luce”: non nella forma di Dio, per non atterrire la nostra debolezza, ma nella forma di servo, per portare la libertà a chi giaceva nella schiavitù. Chi ha l’animo così insensibile, così ingrato, da non sentire la gioia di esprimere con doni la propria esultanza? E’ festa per tutto il creato: il cielo è dato alla terra, viene inviato un arcangelo a Zaccaria e a Maria, una schiera di angeli canta “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama”
Ecco, di questo primo importante frammento del commento di Basilio voglio sottolineare, oltre all’insistenza della gioia, anche questo stupendo riconoscere un tema abbastanza consueto nella riflessione dei padri, il tema appunto con cui si sottolinea la straordinaria umiltà di Dio che non vuole atterrire la nostra fragile umanità, riconoscendoci deboli; il Signore rinuncia a qualsiasi forma che potrebbe, per così dire, significare una imponenza inevitabilmente capace di schiacciare il nostro cuore e quello di cui parla Basilio è davvero una festa, una celebrazione della libertà che il Signore interroga, proprio lasciandosi scoprire nelle fattezze di una bambino. Dunque un bambino che ci interroga, che ci invita a riflettere se davvero sia possibile che il suo straordinario infinito amore possa essersi fatto piccolo per noi.
E’ il segno famoso di cui parlano gli angeli, troverete un bambino avvolto in fasce, l’invito alla riflessione e alla meditazione di questo straordinario mistero di liberazione con cui Dio non si impone, ma invita a lasciarsi cercare attraverso uno dei frutti più autentici e affidabili del vero amore che è l’umiltà, il sapersi far piccolo, il saper far spazio all’altro, il sapere suscitare e ispirare una ricerca che, di fatto, sarebbe stata dolorosamente, fatalmente interrotta se questo Dio dell’amore si fosse presentato con le vesti di una potenza, l’armatura di una potenza, lo scintillio di una lama che non avrebbe che costretto sempre di più la nostra umanità in una vera e propria schiavitù, non in quella figliolanza che si inaugura con la venuta del Signore Gesù. Tutto questo è invito forte in Basilio a risvegliare un senso di profondissima gratitudine in questo Dio qui, verrebbe da dire.
Io penso che sia importantissimo sottolineare davvero quanto il Natale inviti al senso di riconoscenza con cui accogliere fino in fondo il movimento autorivelativo che Dio fa di sé, spogliandosi fino ad assumere la veste delicatissima e tenue di un infante. Di fronte a un infante anche noi non possiamo che disarmarci, spogliarci, mettere a parte ogni nostro ragionamento argomentativo che voglia, per qualche ragione, dubitare di un amore così grande che invece sa farsi proprio per questo, piccolo.
Le stelle si affacciano dal cielo, i magi lasciano il loro paese, la terra è tutta raccolta in una grotta. Non ci sia nessuno che non porti qualcosa, nessuno che non sia grato. Celebriamo la salvezza del mondo, il natale del genere umano.
Basilio ci aiuta a cogliere questa prospettiva stupendamente feconda della storia che oggi, perché questo ci fa pronunciare la liturgia, ci fa cantare, oggi, è nato per noi, né ieri, né domani, ma oggi, rendendo, con la fecondità dello Spirito Santo, la memoria della Chiesa, la memoria della liturgia, la memoria della nostra devozione, capaci di una fecondità che, per la potenza dello Spirito Santo, innesta in questo nostro tempo logoro e informe quella novità di cui sentiamo così radicalmente il bisogno perché la nostra vita non sia schiava di una ciclicità stagionale, ma possa celebrare col Natale un nuovo inizio, e in questo nuovo inizio sentire che più forte della morte è la nascita di quello che diventa per noi il segno di un primato della vita, di un primato della speranza, di un primato di quella beatitudine che, pur offuscata da tante inquietudini, resta, ci sembra, la vocazione più vera del nostro cuore, il suo desiderio più prezioso e inalienabile, il diritto a contemplare nella beatitudine il senso pieno della vita.
Tutto questo propizia nel nostro cuore un sentimento radicalmente eucaristico e anche questo nostro farci dono per il Signore; ecco noi viviamo il Natale come l’orizzontalità dei doni che si intrecciano altri doni in una consuetudine, perché negarlo, molto probabilmente ispirata da questa intuizione che Basilio oggi così esplicitamente sottolinea, il nostro essere riconoscenti al Signore quasi impone l’avvicinarsi a Lui con un dono, come fanno i Magi, per dire grazie a questo suo movimento che dall’alto lo ha portato in questa nostra vicenda così piccola e periferica. Però attenzione, il nostro dono, come si dice, conosce davvero una orizzontalità ingarbugliata, spesso inevitabilmente segnata da una sostanziale fragile gratuità, io non dico che ci facciamo i doni per interesse, ma spesso dietro la logica del dono, come ci hanno insegnato grandi pensatori del ‘900, sta una sostanziale istanza di riconoscimento, di potere, di apprezzamento e quindi nel dono spesso c’è l’imposizione della mia persona verso colui al quale doniamo qualcosa, più per sentimenti di interesse, che di vera e propria gratuità. Così non fa Dio e proprio per questo è fondamentale, accanto all’orizzontalità dei doni che ci scambiano, tutelare una verticalità con la quale vogliamo offrire, con grande semplicità di cuore, il nostro perfetto nienteall’amore e alla presenza di Dio. Offrirci come niente a Dio è veramente la celebrazione di quel regalo che si può acquistare in qualsiasi istante della giornata, ricchi o poveri, colti o incolti, tutti possiamo essere capaci di offrirci come dono al mistero del Dio che si fa dono per la nostra vita. Quindi in questa prospettiva riconosciamo davvero nel Natale anzitutto il tempo di un dono verticale.
Oggi è stata rimessa la colpa di Adamo. Ormai non dobbiamo più udire “Sei polvere e in polvere ritornerai” ma, unito a colui che è venuto dal cielo, sarai ammesso in cielo. Non si udrà più “Partorirai i figli nel dolore”. Beata, infatti colei che partorì l’Emmanuele, e il seno che lo allattò! Proprio per questo “un Bambino è nato per noi, ci è stato dato un Figlio. Sulle sue spalle è il segno della sovranità”.
Il dono che Dio senza riserve, in Cristo, fa alla nostra umanità, inverte radicalmente il suo destino, il suo destino naturale, biologico, e compie, con il dono di una parola fatta carne, quella naturalità che ha parlato così mirabilmente con la stella, perché una stella sorge nei nostri cuori, la stella che è quel desiderio, sidus, che ci rende finalmente più consapevoli della vocazione alla vita piena e trasfigurata in Cristo con la quale l’uomo di terra cede all’uomo celeste; per cui davvero quell’antico avvertimento che ci riporterebbe all’argilla dalla quale veniamo, è davvero cancellato dal vento dello Spirito, perché resti in noi solo e soltanto quella configurazione a Cristo che ci fa cittadini del cielo.
Unisciti a coloro che dai cieli accolsero festanti il Signore. Pensa ai pastori ricolmati di sapienza, ai sacerdoti arricchiti del dono di profezia, alle donne inondate di gioia: Maria per l’annunzio di Gabriele, Elisabetta per Giovanni che sussulta nelle sue viscere, Anna che dava il lieto annunzio; e Simeone che accoglieva il Bambino tra le braccia. Tutti costoro adoravano in lui il grande Dio, non già sprezzando le fattezze infantili che vedevano, ma lodando la grandezza della sua divinità.
Ecco, in questo coro, fra cielo e terra, vorrei avviarvi fraternamente alle grandi azioni liturgiche che ci attendono, prima fra tutte possibilmente la grande celebrazione della notte, ove possibile, una celebrazione che ci fa gustare meglio questa luce che promana dalla grotta di Betlemme, una luce che proprio nella notte, si fa apprezzabile, in quel significato che carica di una pregnanza inaudita l’evento naturale della luce, che noi andiamo a cercare laddove la natura la nasconde, non la può non nascondere, perché la notte è fatta per la notte, è fatta per l’oscurità, ma qui si inverte la legge di natura, perché si inverte il mistero di Dio che da infinitezza si fa piccola fattezza, allora ben venga anche la luce nel cuore della notte, ad avvertirci che ci è dato un nuovo inizio, più forte delle leggi di natura; e in questa prospettiva la liturgia celebra tutto questo, accorciando anche le leggi del tempo e dello spazio, invertendole, perché nell’agire liturgico noi siamo un tutt’uno con i cori degli angeli, col sussultare di Giovanni, con lo stupore di Maria, con la sapienza di indotti pastori, con il compiacimento dei profeti che vedono adempiuta la loro parola, ecco la liturgia vorrei che la sentissimo, soprattutto nella notte di Natale, come la partecipazione ad un cono di luce che ha il suo amplissimo cerchio nella vastità dei cieli abitati da queste presenze di gloria, fino a questo zenit rovesciato che in quella grotta il nostro bambino, quello che deporremo nell’altare, inevitabilmente provvisorio della nostra Basilica, per i restauri che abbiamo, è davvero il punto dove l’infinità di Dio si fa piccolo frammento, per lasciarsi contemplare dalla nostra sete di assoluto.
La potenza divina, infatti, come raggio attraverso un cristallo, splendeva in quel corpo umano, rifulgendo dinanzi agli occhi puri del loro cuore. Potessimo anche noi trovarci con loro a contemplare con sguardo puro, come riflessa in uno specchio la gloria del Signore per essere trasformati anche noi di gloria in gloria, per grazia e bontà del nostro Signore Gesù Cristo. A lui la gloria e la sovranità nei secoli dei secoli. Amen
Ecco questo mistero del farsi piccolo del Cristo in noi, suscita e propizia il nostro poter dilatare, non la presunzione dell’uomo che cresce, e crede di crescere, con le sue sole forze, ma l’uomo che lievita e fermenta perché ha accolto nella profondità del proprio cuore questo fermento che il Signore dona a chi se ne ciba, qui l’intuizione bellissima dei padri è davvero cogliere la pregnanza di quella mangiatoia, Gesù è appoggiato in una mangiatoia perché diventi, e deve diventare, il cibo per tutti, ingoiato il quale la nostra altrimenti inguaribile fragilità e piccolezza può farsi consistenza nello spirito, strappandoci da questo destino così drammaticamente esposto al niente, al caos e configurandoci invece nella figliolanza in Cristo a quella antica vocazione con la quale Dio, creandoci, aveva pensato l’uomo.
Non un uomo da lanciare in una avventura senza ritorno, ma un uomo da contemplare in quella sua libertà, capace di farsi fino in fondo immagine e somiglianza di Dio. Tutto questo ci è adesso possibile perché Cristo, con la nostra carne, è veramente il paradigma che possiamo abbracciare, contemplare, imitare, vorrei dire con forza plastica, ingoiare, perché niente e nessuno ce lo porti via.
E poi Odilone, che ci introduce a questa qualificazione dell’essere dono del Signore Gesù, del farci dono del Signore Gesù, riconoscendo nell’incenso, nell’oro e nella mirra una simbolica del dono che arricchisce anche i nostri cuori, le nostre tasche, pur povere di tutto, anche se non abbiamo oro, anche se non abbiamo incenso, stasera lo avremo in abbondanza, anche se non abbiamo mirra, dietro questi tre doni sta la riscoperta della nostra più autentica vocazione, bene lo sanno i nostri oblati e le nostre oblate, quello di vivere la testimonianza di una vita che ha un suo senso nella misura in cui si spossessa di se stessa per essere dono a colui che si fa dono per la nostra vita. E in questa dinamica voi intuite come tutto della nostra esistenza diventa movimento, perché se noi possiamo essere dono per il Signore, è perché Lui si è fatto dono per noi e il suo farsi dono di amore non può non ispirare una dinamica di riconsegna della nostra vita, e qui cogliete proprio come lo Spirito, ci faccia davvero tensione inesausta, inquieta, appassionata, che lasciandoci un pochino morire a noi stessi, dà spazio di fecondità, alla vita degli altri.
Dai “Discorsi” di sant’Odilone di Cluny, uno dei grandi Santi Abati di questa esperienza sensazionale della Chiesa che è stata l’invenzione del monachesimo cluniacense:
Oggi Cristo si è manifestato al mondo, oggi ha ricevuto il mistero del battesimo e, ricevendolo, lo ha consacrato con la sua presenza. Oggi, come la fede insegna ai credenti, durante una festa di nozze ha cambiato l’acqua in vino. In senso spirituale, l’acqua cambiata in vino rappresenta la grazia del Vangelo che, abolita la lettera della legge, risplende per virtù del Cristo. Cristo è battezzato, è rinnovato il mondo. Cristo è battezzato, e noi siamo spogliati dell’uomo vecchio e rivestiti del nuovo.
Questo nesso fortissimo che in Cristo è perfetta unità senza confusione, cioè la vita divina e la vita umana, come vedete assicura e rende autenticamente possibile una trasformazione della nostra realtà naturale e storica. Per questo il Natale davvero va vissuto con questo senso di intima partecipazione, fibra nella fibra, del mistero di Cristo che si fa strada in noi.
Espulso quel primo uomo terreno, venuto dalla terra, ci rivestiamo dell’uomo celeste, venuto dal cielo. Quando Cristo è battezzato, il mistero del santo battesimo viene consacrato dalla presenza di tutta la Trinità: dal cielo, ecco la voce del Padre :”Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto”; lo Spirito Santo appare sotto forma di colomba, eppure solo il Figlio volle essere battezzato da Giovanni. Su ciò il beato Ilario si esprime in modo che mirabilmente traduce l’ortodossia della sua dottrina. Anche se tutta la Trinità operò nell’incarnazione del Verbo e nel mistero del battesimo, solamente il Figlio venne battezzato da Giovanni, come egli solo nacque dalla Vergine e, pur avendo assunto la carne con tutte le sua passioni, visse tuttavia senza peccato e, in forza della natura divina, rimase impassibile.
Questo giorno di festa è tanto più importante, in quanto segue da vicino quello della natività del Signore. Quando nel bambino viene adorato Dio, si venera il mistero del parto verginale. Quando all’uomo-Dio vengono offerti doni, si adora la dignità del bimbo divino. Quando il bambino viene trovato con Maria, viene affermata la natura umana di Cristo e la verginità della Madre di Dio. L’evangelista dice infatti “Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, e prostratisi lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra”
Quindi come vedete Odilone rilegge questi verbi del Vangelo, vedere il bambino con Maria, adorare e donare con questa triplice intensità, l’intensità dell’adorazione, l’intensità della venerazione, l’intensità del riconoscere la speciale natura umana del Signore Gesù che viene trovato, come qualsiasi altro bambino, con la mamma, con Maria. Quindi vedete non si esclude niente, tutto è tenuto insieme, dai verbi del Vangelo e dalla profonda rilettura di Odilone.
I doni offerti dai magi rivelano il profondo mistero di Cristo. Con l’oro essi lo proclamano re, con l’incenso lo adorano Dio, con la mirra lo riconoscono uomo. Noi dunque crediamo che Cristo assunse la nostra natura mortale affinchè, con l’unica sua morte, vedessimo distrutta la duplice nostra morte. Come Cristo sia apparso mortale e abbia pagato il debito della morte lo trivi scritto in Isaia “Era come agnello condotto al macello”. La nostra fede nella regalità di Cristo è confermata dall’autorità divina; egli stesso infatti dice di sé in un salmo: “Io sono stato costituito re da Lui” cioè da Dio Padre. E che sia il Re dei re lo dice egli stesso con le parole della Sapienza: “Per mezzo mio regnano i re, e i magistrati emettono giusti decreti”: Che Cristo, infine sia veramente Dio e Signore lo prova, ovunque ci volgiamo, tutto il mondo da lui creato. Egli stesso, infatti, dice nel Vangelo “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra”. E il beato evangelista: “Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui niente è stato fatto”. Se si riconosce che tutte le cose da lui sono state create e in lui esistono, ne segue che tutte le cose hanno riconosciuto la sua venuta.
Ne è esempio la stella che riconosce la venuta del Signore approssimandosi, come ci insegna il Vangelo, proprio a quella grotta.
E dunque voi cogliete davvero, attraverso questa profonda e verbosa riflessione di Odilone, la importanza fondamentale di questi doni.
L’oro col quale si proclama re, il Signore Gesù, una regalità che Odilone ci insegna a cogliere non certamente come esercizio di potenza, la regalità del Signore Gesù è in rapporto a tutta la creazione, costruita, per così dire, da Cristo stesso, perché fedele strumento nelle mani del Padre. Questo significa che la regalità del Signore Gesù è al servizio della nostra vita, ancora una volta non una regalità che si impone, ma una regalità che rende la creazione, pur nella sua intrinseca fragilità un luogo per la vita dell’uomo.Per questo lo ringraziamo con l’oro. E poi naturalmente la mirra: la sua umanità; la mirra con la quale venivano trattati i cadaveri e questo ci riporta al grande mistero della morte della nostra morte attraverso la morte di Cristo, un annuncio pasquale, e questo lo dico con particolare intensità per coloro che si trovano a vivere un Natale senza la presenza di alcuni loro cari, perché la morte glieli ha sottratti; sappiate che in questa prospettiva la nascita del Signore Gesù, come lucidamente ci fa ricordare la tradizione pittorica che raffigura spesso nella nascita del Signore Gesù, attraverso la tradizione delle icone, una grotta oscura, nera, simbolo di quel sepolcro dentro il quale scenderà il Signore, o per esempio l’Adorazione dei pastori che si contempla in Santa Trinita, dove dietro il Signore Gesù, sta un antico sepolcro. Dunque Gesù nasce per la morte, non diversamente da nessuno di noi, ma è appunto quella umanità così colma di amore divino che significa ed inaugura, come ancora una volta l’amore è più forte delle fatali legge biologiche, trasformando la nostra morte in vita.
Ed ecco appunto che i Magi offrono anche questo omaggio alla sua umanità, perché è il dono con cui ringraziamo un inizio nuovo per la nostra vicenda corporea, inaugurata dal Gesù che prende la nostra stessa carne.
E infine l’incenso, con l’incenso noi salutiamo davvero la divinità del Signore Gesù, una divinità mirabilmente e umilmente nascosta nella sua carne umana, una divinità che chiede adorazione, ancora una volta non per una logica di potenza e di soggezione, ma soprattutto di riconoscenza, è davvero Dio che scende in mezzo a noi e insistere sulla divinità del Signore Gesù, e salutarla con l’incenso, significa riconoscere un tratto inaudito del nostro Dio, un tratto che la Chiesa ha dovuto difendere dalle tentazioni di coloro che pensavano scandaloso che davvero Dio si confondesse con la nostra carne umana, si mescolasse con essa, si impoverisse, si deturpasse con essa.
La Chiesa ha difeso invece questo mistero straordinario che davvero in Gesù sta tutta la sua divinità, non c’è niente che si depotenzi, si deformi, si impoverisca, ma c’è davvero tutto un amore che per salvarci non esita a inabitare in pienezza quella carne che salutiamo, accogliamo dunque non solo con la mirra, non solo con l’oro, ma anche con quell’incenso che scalda i nostri cuori, profuma l’aria, perché finalmente terra e cielo si toccano, essendo disceso in messo a noi il divino.
Ed è questo l’ultimo anello di una riflessione che stasera offro alla vostra appassionata intelligenza, soprattutto alla vostra fraterna pazienza nei miei riguardi, la riflessione appunto che ci porta a familiarizzare con quello che, in forza di questa discesa vertiginosa in mezzo a noi, tutto il divino che si fa carne, senza nessuna attenuazione, senza nessun impoverimento, rende possibile tracciare anche per noi dei fili di luce che riorientino il nostro cammino verso una verticalità che non possiamo e non dobbiamo dimenticare. Giustamente il Natale è anche la grande festa con la quale, celebrando la povertà del Dio che si fa niente per consegnarci il suo tutto, apre, spalanca il nostro sguardo a coloro che vivono la povertà non per scelta, ma per fatale necessità, costrizione, quello che noi riceviamo dal Signore ci renda simili a Lui, in una generosità che si fa gesto, che si fa condivisione, che si fa contagio di una luce che Dio non ha trattenuto tutta per sé ma l’ha saputa riversare gratuitamente su tutti.
Però nello stesso tempo guai se questa orizzontalità non si nutrisse di quello che esce dalla sorgente che sovrasta le nostre vite, che va cercata, proprio come i Magi, nelle profondità inesauribili del cielo perché attraverso la stella, attraverso la parola e attraverso la carne, veramente Dio abiti nei nostri cuori.
Propizia tutto questo quella geometria impalpabile e incommensurabile che sono le nuvole di incenso e io qui vi offro una riflessione mirabile straordinariamente evocativa, teologicamente feconda, filosoficamente impossibile, che Florenskij, nella sua accesa polemica contro il razionalismo kantiano, scrive nella sua straordinaria filosofia del culto, trattato filosofico sulla liturgia di straordinaria bellezza che percorreremo, questo è il mio intendimento, nel riflettere il prossimo anno sull’oro e fra due anni sulla mirra.
Ascendendo all’uno o all’altro cielo e ridiscendendone, al contempo, verso di noi o, in altre parole, trovandosi simultaneamente lì e qui, il fumo dell’incenso del turibolo si rivela manifestazione -usando la parola nel suo senso autentico, antikantiano- qui di quanto c’è lì, quasi appendice del cielo sulla terra, estensione di una nuvola che si abbassa fino a toccare terra: non è “come il cielo”, ma il cielo stesso. In altre parole, la superficie del livello, volendo ricorrere alla terminologia della fisica, la superficie equipotenziale presenta qui una profonda curvatura, un imbuto in direzione della terra, permettendoci così di spostarci verso superfici di elevato potenziale spirituale, ovverosia di addentrarci nelle profondità celesti da un punto definito, procedendo non più in verticale, ma quasi in orizzontale, lungo linee di forza pressoché radenti al livello superiore. Vale a dire che, entrando nella nuvola di fumo d’incenso, con un movimento e uno sforzo praticamente nulli -cioè nell’ordine dei nostri sforzi terreni, della tensione della volontà, di una fatica del tutto terrena-, compiamo un’ascesa fino ad altezze vertiginose e tutto ciò, si potrebbe dire, a costo zero, dove quanto si è speso non corrisponde affatto a quanto si è ottenuto.
Io credo voi intuiate come alla radice di questa riflessione che, in piena linea con la tradizione teologica ortodossa, include molto più della nostra sensibilità latina, qualsiasi oggetto del culto in una dinamica sacramentale. Noi abbiamo griglie e categorie molto più selezionanti nel tempo, la nostra Messa che dura un’ora, guai un po’ di più, i suoi movimenti ben segmentati, che ci fanno meno apprezzare e intuire questa prospettiva orientale che tra l’altro, non a caso, conosce liturgie dall’inizio e dalla fine così molto meno confinate in una lunghezza straordinariamente estesa, e che appunto rende tutto quello che si fa si vive, si canta, si usa nella liturgia partecipazione essenziale al mistero di Cristo, per cui anche l’incenso nei suoi movimenti anzitutto verticali e poi come ci dice qui Florenskij orizzontali, partecipa di quella efficacia salvifica che il Natale del Signore ha così potentemente inaugurato in questo suo movimento reale, che porta il divino nella nostra carne e quella carne divinizzata nella nostra storia, nelle nostre geografie.
La nostra risposta è appunto quell’incenso che, improfumandosi di Cristo diventa davvero il segno di una possibilità, per così dire, lasciatemi usare questa espressione, di mappare il cosmo con i movimenti del turibolo in dimensioni, in prospettive assolutamente nuove e inedite, quasi che finalmente si possa avere una geografia microcosmica nella liturgia, tale da strappare la nostra inquietudine nel contemplare le vastità infinite dell’universo, e rendendoci in una qualche maniera signori in Cristo di quelle stesse vastità, nel piccolo di quei movimenti che tuttavia, partecipando della sapienza costruttrice di Cristo, rendono i piccoli gesti della liturgia partecipi dell’efficacia dell’infinita forza creatrice e salvifica del Cristo stesso; quindi una intensificazione di quello che noi compiamo nella liturgia di straordinaria capacità evocativa e di grande concreta utilità, perché la nostra partecipazione all’azione misteriosa della Chiesa si spogli di ogni angusto razionalismo ed entri in una dinamica dove si risveglia il poeta, il bambino, ma anche il geometra che è nel cuore di ciascuno di noi, per ridisegnare in Cristo i grandi spazi e i grandi tempi che troppe volte subiamo con le nostre contingenti unità di misura, anziché trasfigurare con i parametri che il Vangelo consegna ai nostri cuori.
E qui vedete come Florenskij sottolinei un dato essenziale, tutto è grazia e gratuità, lo sforzo che l’uomo fa nell’incensare è uno sforzo minimo, quello che bruciamo è incenso, se è di buona qualità perché viene, come il nostro, dal Monte Athos, potrà costare un po’ di più, ma è niente rispetto a quello che ci viene donato, torna no? Questa tipica economia dello scambio che i padri non hanno avuto paura di evocare, per sottolineare quanto costi tutto a Dio farsi carne e quanto guadagniamo noi, tutto, senza spendere niente, facendo nostro questo mistero.
Si potrebbe affermare che con un solo passo varchiamo soglie su soglie per ritrovarci d’un tratto a tagliare questa strada regale, i cerchi del paradiso dantesco, così come, nell’altro caso, quello che tanta paura incuteva ai martiri o, più precisamente, nel caso della magia nera e di altre opere oscure, ci troveremmo a tagliare -sì- i cerchi danteschi, ma discendendo lungo l’imbuto degli inferi. Nell’uno e nell’altro modo, però, l’incenso è comunque un mezzo che favorisce il reciproco avvicinamento delle forse spirituali e degli esseri di questo e di altri mondi. Nel fumo altri esseri si manifestano a noi, così come noi ci manifestiamo a loro: nel fumo ci vediamo gli uni con gli altri. Di qui anche l’importanza, la necessità quasi, del turibolo nella memoria dei defunti.
So di chiedervi tantissimo nel congedarci da parametri che costituiscono la nostra comune percezione anche del mistero liturgico. So che queste parole di un grande martire della Chiesa, di un grande pensatore, di un grande scienziato e di un grande matematico come è stato Pavel Florenskij, potrebbero essere lette in questo piccolo assaggio come le considerazioni di un folle, ma d’altra parte col Natale noi celebriamo la follia del Dio che si fa carne, come possiamo pensare di corrispondere a questa sua discesa dove Lui che è tutto, niente guadagna e tutto dona, con una ragioneria mercantilistica fatta di buoni propositi, di meriti, di attenzione, di decifrazione, di intellezione del mistero? Non è forse davvero più vero e fecondo riconoscere nella nebbia dell’incenso, come si diceva all’inizio, la provvidenziale arresa del nostro raziocinio perché attraverso la bellezza di quello che odoriamo finalmente si dilati l’intuizione bella, vera e buona con cui dall’alto, senza alcun merito e senza alcuna riserva Dio si è affacciato per donarci la sua luce e la sua salvezza.
Scrive Mario Luzi, e concludiamo, in Epifania
Notte, la notte d’ansia e di vertigine
quando nel vento a fiotti interstellare,
acre, il tempo finito sgrana i germi
del nuovo, dell’intatto, e a te che vai
persona semiviva tra due gorghi
tra passato e avvenire giunge al cuore
la freccia dell’anno… e all’improvviso
la fiamma della vita vacilla nella mente.
Chi spinge muli su per la montagna
tra le schegge di pietra e le cataste
si turba per un fremito che sente
ch’è un fremito di morte e di speranza.
In una notte come questa,
in una notte come questa l’anima,
mia compagna fedele inavvertita
nelle ore medie
nei giorni interni grigi delle annate,
levatasi fiutò la notte tumida
di semi che morivano, di grani
che scoppiavano, ravvisò stupita
i fuochi in lontananza dei bivacchi
più vividi che astri. Disse: è l’ora.
Ci mettemmo in cammino a passo rapido,
per via ci unimmo a gente strana.
Ed ecco
il convoglio sulle dune dei Magi
muovere al passo dei cammelli verso
la Cuna. Ci fu ressa di fiaccole, di voci.
Vidi gli ultimi d’una retroguardia frettolosa.
E tutto passò via tra molto popolo
e gran polvere. Gran polvere.
Chi andò, chi recò doni
o riposa o se vigila non teme
questo vento di mutazione:
tende le mani ferme sulla fiamma,
sorride dal sicuro
d’una razza di longevi.
Non più tardi di ieri, ancora oggi.
Ecco, Mario Luzi ci fa intuire l’oggi della liturgia che, come l’incenso, come nube che si espande col suo profumo di bellezza ci introduce, non in un passato per sempre perduto, ma in un presente reso fecondo dal vento di mutazione di cui noi vigili ci accorgiamo, per non lasciarci uccidere dalla freccia dell’anno, bellissima immagine, che rappresenterebbe l’inevitabile uccisione di un nostro cammino, perso come semivivi, fra due gorghi fra passato e avvenire. E invece no! In una notte come questa, l’oggi ci viene incontro per portarci una vita che ci fa tenere le mani ferme sulla fiamma, come faremo avvicinandole a quel presepe che anche quest’anno, con la vostra pazienza allestiamo, per profumarlo di quell’amore che ci fa già essere nell’oggi di un Natale, che non morirà mai.
Amen
Trascrizione a cura di Grazia Collini