«Lumen de lumine». Da San Miniato al Monte una lettera alla Direttrice de «La Nazione»

«Lumen de lumine». Da San Miniato al Monte una lettera alla Direttrice de «La Nazione»

Meditazioni

Illustre Direttrice,

con colpevole ritardo chiedo ospitalità nel Suo giornale senza la pretesa di chiudere il dibattito, ma solo animato dal desiderio di contribuire ad una riflessione iniziata su queste pagine tanto dalla attenta meditazione che Duccio Moschella ha voluto dedicare alle mie parole pronunciate nell’omelia di Capodanno, arricchendole peraltro di significato e di suggestione col suo ottimo articolo, quanto dai conseguenti e ispirati interventi di autorevolissime personalità cittadine che desidero qui sentitamente ringraziare. Sono ormai trascorsi molti anni da quando il pur grandissimo Giovanni Michelucci quasi liquidava la questione con parole non prive di una loro ragionevolezza, ma certamente segnate da una discutibile e unilaterale drasticità: «Di notte i monumenti, alcuni monumenti, i più famosi, scelti fra quelli che ormai tradizionalmente sono quasi il simbolo e la réclame turistica di una città, sono illuminati da potenti riflettori. È questa una comodità che si guarderà bene da non approvare chi passi di corsa da una città e non abbia tempo e modo di guardare di giorno. La luce converge su uno o due edifici, li fascia, li isola, suscita effetti magici, fa risaltare alcuni particolari, richiama violentemente l’ammirazione del passante allo spettacolo nuovo e diverso… il monumento è già servito, la sua forma è alterata, chiaroscuro e unità si sono perduti; tutto è diventato cartone». In realtà va detto come la successiva disciplina architettonica possa e debba giustamente rivendicare il merito di avere almeno attenuato il rischio paventato da Michelucci mediante una sempre più raffinata capacità di progettazione e di impiego delle più aggiornate tecnologie per donarci una feconda rilettura notturna delle nostre città e -nello specifico- di quella speciale «geografia della grazia» (Giorgio La Pira) rappresentata dalla albescente presenza della nostra miracolosa facciata nello skyline della città. Qui, dunque, non posso non ringraziare pubblicamente le straordinarie maestranze della Silfi che, in piena e amicale collaborazione con la comunità monastica, da anni contribuiscono a divulgare, sotto le stelle del firmamento, l’alto messaggio di pace, di speranza e di beatitudine che la bellezza di San Miniato al Monte, con silenziosa eloquenza, da secoli e secoli intende comunicare al cuore di ogni persona, credente o non credente, fiorentino o forestiero che sia. Siamo inoltre ben consapevoli noi monaci che questa pagina marmorea a noi affidata può e deve ospitare particolari declinazioni di questo messaggio, allorquando, sempre di concerto col Comune di Firenze, volentieri lasciamo che ben determinati cromatismi ricordino alla città significative ricorrenze o problematiche sociali in cui l’intera cittadinanza può riconoscersi o comunque sentirsi invitata a riflettere. Memorabile è stata la trasformazione dell’intero prospetto della nostra abbazia in un gigantesco tricolore nei primi, tristissimi giorni della pandemia, quando -era il marzo del 2020- il sindaco Dario Nardella ci chiese la possibilità di aggiungere alla bellezza teologale di questo straordinario monumento la nostra più riconoscibile e condivisa simbologia patriottica quale auspicio e appello ad una ritrovata concordia nazionale. A dimostrazione poi che le mie parole di Capodanno non avessero alcuna ottusità moralistica, rassicuro e ricordo a Sergio Risaliti che San Miniato al Monte è stata -e speriamo continui ad essere- laboratorio di creatività estetica, così come è accaduto negli esaltanti mesi del nostro recente millenario, quando, adoperando non a caso il linguaggio della luce, Marco Bagnoli, Marco Nereo Rotelli, Roberta Cipriani e Giancarlo Cauteruccio hanno lasciato una indimenticabile traccia nella vicenda artistica di questa collina. In particolare, nel settembre del 2018, la magnifica rappresentazione teatrale intitolata Dal Monte Una Luce Aurorale, la cui futura replica qui pubblicamente auspico per la sua altissima e permanente intensità etica ed estetica, ha trasformato, grazie al genio di Cauteruccio e all’estro dei suoi collaboratori, la nostra facciata, il nostro sagrato e i nostri mille anni di storia in un manifesto di ritrovata consapevolezza e partecipazione della cittadinanza tutta a quello che con coraggiosa e profetica lucidità aveva espresso nel 2015 il magistero di papa Francesco al numero 151 dell’enciclica Laudato si’: «È necessario curare gli spazi pubblici, i quadri prospettici e i punti di riferimento urbani che accrescono il nostro senso di appartenenza, la nostra sensazione di radicamento, il nostro “sentirci a casa” all’interno della città che ci contiene e ci unisce. È importante che le diverse parti di una città siano ben integrate e che gli abitanti possano avere una visione d’insieme invece di rinchiudersi in un quartiere, rinunciando a vivere la città intera come uno spazio proprio condiviso con gli altri». Le medesime parole di papa Francesco servono altresì a superare la tentazione di una fin troppo facile dicotomia fra «città celeste» e «città terrena», cui lo stesso direttore del Museo Novecento faceva riferimento nel suo intervento. Lapirianamente, invece, e senza alcun autoreferenziale fondamentalismo, vorrei umilmente ribadire che per essere vera civitas e non solo urbs, la nostra città dovrà assomigliare, anzi profetizzare e addirittura anticipare qui in terra per analogia di bellezza, di giustizia e di pace la Gerusalemme futura, la città che verrà, la città, ci avverte consolandoci san Giovanni Apostolo nell’Apocalisse, finalmente tutta luce perché lì «non vi sarà più notte» e dunque «non ci sarà più bisogno di luce di lampada» (Ap 22,5). Forse inconsapevolmente memore di questa immaginifica intuizione biblica che fa della luce il costante riverbero di una tenace speranza oltremodo necessaria nei tempi presenti così segnati da quasi incontrastabili penombre e da ancor più angoscianti oscurità, ho preso vigorosamente parola contro la trasformazione del mirabile frontespizio geometrico della facciata romanica di San Miniato in variopinta luminara da albero di Natale e contro ogni avventata riduzione della sua bellezza -bellezza, come già si è detto, teologale e civile al contempo- ad effimera e cangiante cornice esornativa, degna più del collodiano “paese dei balocchi” che della nostra Firenze e delle ardue sfide che l’anno incipiente ha già iniziato a porci con ineludibile severità.

padre Bernardo Gianni O.S.B.,

abate di San Miniato al Monte

Firenze, 6 gennaio 2022

Epifania del Signore Gesù

La fotografia è di Mariangela Montanari e ritrae un momento dello spettacolo Dal Monte Una Luce Aurorale di Giancarlo Cauteruccio, andato in scena l’8 e il 9 settembre 2018 sul sagrato della nostra basilica di San Miniato al Monte nell’ambito dei festeggiamenti del millenario di fondazione della nostra abbazia.

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