Lectio divina sulla Lettera ai Colossesi: trascrizione dell’undicesimo incontro animato il 12 giugno 2025 da dom Stefano
Lectio divina
San Miniato al Monte
Giovedì 12 Giugno 2025
XI Incontro della Lectio Divina sulla Lettera ai Colossesi
Dom Stefano Brina
Preghiera iniziale
Padre Santo che ci hai dato il tuo Figlio amato, in cui hai posto il tuo compiacimento, come luce del mondo che ci libera dal potere delle tenebre e ci conduce nel regno del suo amore, accogli il nostro desiderio di guardare a Lui e di contemplarlo attraverso l’ascolto della Scrittura. Effondi il tuo Santo Spirito perché possiamo riconoscere in Lui la nostra origine e il nostro capo e ricevere la sua pace.
Ti ringraziamo o Padre per il dono totale che il tuo Figlio ha fatto di sé offrendo il suo sangue sulla croce per rappacificare tutte le cose sulla terra e nei cieli.
A te Signore Gesù vogliamo consegnare la nostra fatica e lo smarrimento nel constatare quanto le tenebre sono ancora fitte, il mondo è lontano dalla pace e gli uomini dalla riconciliazione col creato, con sé stessi, tra di loro e con te.
Rinnova o Padre l’effusione del tuo Spirito perché possiamo credere più fermamente alla buona notizia della Risurrezione del tuo Figlio e al trionfo del tuo amore che vince il male e la morte per noi.
Questo amore indefettibile fonda la nostra speranza, possa anche rinnovare il nostro zelo e l’impegno per vivere fin da ora da risorti con Cristo, da figli e fratelli, artigiani di pace
Amen
Oggi faremo un excursus del percorso fatto fino a ora e man mano rileggeremo anche alcuni dei brani più significativi attinenti al capitolo secondo della Lettera ai Colossesi.
Se ricordate, abbiamo visto come Paolo dopo l’indirizzo e i saluti ringraziava e pregava per i Colossesi, dei quali aveva sentito la fede e l’accoglienza del Vangelo da parte di Epafra, che era stato il loro evangelizzatore.
Paolo scriveva che pregava costantemente per loro e ringraziava per la loro fede, speranza e carità, poi li esortava a fare altrettanto. Allora avevamo letto un testo di Oscar Cullmann sulla preghiera nel Nuovo Testamento, in particolare su quella di Paolo in relazione allo Spirito Santo.
Nella Lettera ai Colossesi abbiamo solo un riferimento allo Spirito Santo, all’inizio, al v. 8 del primo capitolo, quando Paolo dopo aver citato Epafra come “nostro caro compagno nel ministero”, aggiunge:
“1 8 Egli è presso di voi un fedele ministro di Cristo e ci ha pure manifestato il vostro amore nello Spirito.”
Come già detto questa è l’unica citazione esplicita dello Spirito Santo perché per Paolo in Colossesi è prioritaria la cristologia; invece nella lettera sorella, la Lettera agli Efesini, sviluppa di più proprio la parte pneumatologica, in ordine alla maggior importanza attribuita alla formazione della Chiesa.
Dice Oscar Cullmann:
“Per capire meglio il senso profondo che, secondo Paolo, la preghiera assume nei suoi diversi contenuti, partiamo dal rapporto inscindibile che lega, per lui, la preghiera e lo Spirito Santo; su questo rapporto si fondano tutti gli aspetti della preghiera: l’esigenza di perseverare,”
Se ricordate Paolo diceva che lui pregava costantemente per i Colossesi e chiedeva loro di perseverare nella preghiera per lui.
“(…) l’essere uniti al volere di Dio, l’oggetto della preghiera, l’esaudimento.
(…) lo Spirito Santo, essendo colui che parla nella nostra preghiera, ne è il soggetto. (…)
Ecco la verità profonda della preghiera, di cui siamo debitori riconoscenti all’apostolo. (…)
La presenza dello Spirito Santo nella preghiera significa due cose: lo Spirito ci fa conoscere la sua presenza e noi possiamo e dobbiamo cercare in questa presenza la risposta alla nostra preghiera.
Lo sperimentò Blaise Pascal quando si sentì interpellato da Dio: “Non mi cercheresti, se tu non mi avessi già trovato.”
In questa concezione paolinica la preghiera supera in dignità ogni altro discorso umano;” (O. C.)
Questo primato di dignità della preghiera è importante ricordarcelo.
È necessario entrare nella preghiera con tutta la nostra realtà, corpo, mente, anima e spirito. Per questo è necessario, nel limite del possibile, porsi in una dimensione di silenzio e di ascolto di sé, degli altri con cui preghiamo, per rendersi consapevoli della presenza di Dio. Solo così eviteremo di rivolgerci a Dio semplicemente spinti dai nostri veri o presunti bisogni e con l’intento di dirgli ciò che desideriamo che faccia.
Questo può anche essere un modo spontaneo di pregare, però è un livello tutto sommato abbastanza superficiale che arriva solo alla mente; invece, noi dobbiamo tenere presente quello che insegna Paolo nella Lettera ai Romani:
“Allo stesso modo anche lo Spirito Santo viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito, perché egli intercede per i santi secondo i disegni di Dio”. (Rm 8, 26-27)
Quindi la nostra preghiera è un entrare nella preghiera, non è un fare la preghiera, – differenza non banale -, e il soggetto di essa è lo Spirito Santo.
“… è l’unica parola umana con la quale possiamo trascendere la nostra umanità. Si profila un superamento nel “non ancora”; la preghiera è un parlare escatologico.” (O. C.)
La preghiera ci permette di arrivare dove noi non siamo neppure capaci di conoscere: “Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano.” (1Cor 2, 9) Noi con la preghiera ci portiamo già là.
Per comprendere cosa intendiamo, provate a domandarvi: Quando mai si vedono accadere le cose di cui parla la Madonna nel Magnificat, ad esempio che i superbi sono dispersi nei pensieri dei loro cuori, che gli umili sono innalzati?
Io prego spesso, di questi tempi, che il Signore disperda i superbi nei pensieri del loro cuore, in modo da renderli innocui.
Purtroppo, quello che noi vediamo non corrisponde affatto a quello che dice lei, ma è lei che ha ragione, in quanto è piena di Dio, è incinta del Figlio di Dio mentre pronuncia queste cose.
Elisabetta la saluta dicendo: “Beata te che hai creduto” e Maria comincia a cantare quello che vede con il suo sguardo illuminato e che su un piano superficiale non appare.
Anche noi con la preghiera ci portiamo in sintonia con quello che non si vede; infatti, Oscar Cullmann dice che la preghiera è un ‘parlare escatologico’, perché arriva già alle cose ultime.
San Pietro nella sua prima Lettera afferma che noi trasciniamo il futuro verso la realtà presente, ossia affrettiamo la venuta del Regno.
“(…) Se lo Spirito parla in noi, non vuol dire che noi non siamo coinvolti; anzi proprio per questo dobbiamo cercare il dialogo con Dio. Infatti, se lo Spirito Santo fin d’ora “ci rinnova di giorno in giorno” (2Cor 4,16), ciò non significa che non dobbiamo fare la nostra parte: anzi, tutto il nostro pensiero e tutta la nostra condotta ne ricevono impulso.” (O. C.)
Vi faccio un esempio. Ci sono situazioni della nostra vita che noi non riusciamo a risolvere, tanto meno possiamo risolvere il problema della pace del mondo, ma a volte non riusciamo a risolvere neppure le problematiche di condominio o quelle con una persona di famiglia. Cosa succede di fronte a questo tipo di esperienza?
Tendenzialmente noi, volenterosi, ci proviamo una, due, tre volte, ma poi ci avviliamo, cominciamo a raffreddarci e tendiamo a chiuderci per sopravvivere. In questa maniera però noi respiriamo poco.
La preghiera invece ci porta su una rotta diversa; quando preghiamo “Padre nostro che sei nei cieli …” in quel ‘nostro’ è compreso anche il nostro vicino di casa e quindi già ci portiamo là dove ancora non è la realtà storica e già ci si apre un po’ di più l’anima. Perché se il Signore offrendo la sua vita ha vinto, nel momento in cui ci chiama a dare la nostra, anche noi ce la possiamo fare.
Perciò è vero che lo Spirito Santo fin da ora ci rinnova di giorno in giorno e tutto il nostro pensiero e tutta la nostra condotta ne ricevono impulso. Ecco perché durante la Messa quando il sacerdote dice
“In alto i nostri cuori”, i fedeli rispondono “Sono rivolti al Signore” e poi ancora al “Rendiamo grazie al Signore nostro Dio”, rispondono “E’ cosa buona e giusta.”
Voi dovreste imparare queste formule per poterle poi usare come strumenti tutte le volte che vi trovate in difficoltà. La violenza va usata nel modo giusto, in questa maniera si fa violenza alla nostra indolenza. Lo Spirito Santo ci dà questo impulso e ci fa alzare come la colomba; le ‘lingue di fuoco’ e il ‘vento gagliardo’ sono i suoi segni. Quindi dobbiamo pensare all’azione dello Spirito come a qualcosa che chiede alla nostra coscienza una collaborazione, attraverso lo spostamento del nostro pensare, parlare, relazionarci su un piano che ancora non si vede o si intravede appena.
“E’ quindi del tutto naturale che Paolo, appunto perché radica così profondamente la preghiera nello Spirito, non si stanchi di esortare i lettori a perseverare nella preghiera e dia egli stesso l’esempio di una vita totalmente forgiata dalla preghiera.” (O. C.)
Quindi uno dei temi che abbiamo visto fin dall’inizio della Lettera era quello della preghiera perseverante e dello scambio di preghiera fra l’apostolo, che non conosceva i Colossesi se non tramite Epafra e i Colossesi stessi a cui come vedremo alla fine della Lettera, Paolo chiede di pregare per lui perché gli si aprano le porte per la predicazione del Vangelo. Dunque, c’è questa dimensione relazionale alta, che fa spazio allo Spirito Santo che rinnova interiormente.
La nostra lettura poi è arrivata al grande Inno di Colossesi, che noi ogni volta non ci stanchiamo di trasformare in preghiera. L’inno è una forma di preghiera che in qualche modo ha un profondo valore sia di contenuto (come abbiamo avuto modo di sviscerare), sia di professione di fede. Di fronte a tutte le difficili situazioni, da quelle più piccole quotidiane a quelle più grandi in cui siamo immersi, noi riposizioniamo il nostro sguardo del cuore e approfondiamo sempre di più la nostra confessione di fede nella primazia di Cristo.
Questo è un altro aspetto molto importante, ed è per questo che Paolo chiede varie volte nel testo della Lettera ai Colossesi di avere una fede perseverante, o per usare un’espressione tratta da quella bella meditazione di Papa Benedetto XVI che abbiamo letto durante l’incontro precedente: ‘di essere radicati, edificati su Cristo’.
Questi non sono preziosismi retorici, bensì i fondamenti di un vero e proprio modo di stare al mondo. Per noi è molto importante crescere in una dimensione che sempre ogni volta, ogni giorno sceglie di riposizionare e ricollocare la nostra vita al suo centro, pur di fronte alle varie erosioni che l’esperienza, le circostanze, i momenti veramente difficili o esaltanti determinano. In tutti i casi noi ricollochiamo sempre la nostra vita al suo centro. In tempi di così facili manipolazioni, di così facili confusioni, di così ardua difficoltà di lettura della realtà (che però come sapete è un nostro compito, come ci esorta anche il magistero della Chiesa quando afferma la necessità di scrutare i segni dei tempi), noi dobbiamo sempre immergerci nella luce di Cristo, “Alla tua luce Signore vediamo la luce” (Salmo 36 v.10), non dobbiamo permettere che nulla l’affievolisca e nel caso in cui questo capiti, dobbiamo subito metterci vicino a chi quella luce ce l’ha più viva in quel momento. Come la candela che sta per spegnersi, messa vicina ad un’altra accesa, immediatamente riprende fiamma, così bisogna fare anche noi.
Io insisto molto sulla necessità di una fede confessante e a chi talvolta mi dice di non saper pregare, io rispondo di cogliere le numerose occasioni che ci sono offerte, di cominciare a entrarci dentro, poi pian piano si seleziona e comunque s’impara a capire che non siamo sempre capaci di pregare, ma siamo sempre bisognosi che il Signore ci istruisca, che lo Spirito preghi in noi.
Ora rileggiamo tutti insieme l’Inno della Lettera ai Colossesi, cap. 1, vv. 15-20, poiché anche noi come san Giovanni vogliamo mettere l’orecchio del nostro cuore sul petto del Signore Gesù:
“1 15 Egli è immagine del Dio invisibile,
primogenito di tutta la creazione,
16 perché in lui furono create tutte le cose
nei cieli e sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili:
Troni, Dominazioni, Principati e Potenze.
Tutte le cose sono state create
per mezzo di lui e in vista di lui.
17 Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono.
18 Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa.
Egli è principio, primogenito [di quelli che risorgono] dai morti,
perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose.
19 Perché in lui è piaciuto [a Dio] che abiti tutta la pienezza
20 e per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose,
avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra,
sia quelle che stanno nei cieli.”
È bello poter riposizionare il nostro sguardo e rimettere ordine sul fatto che di fronte a tutte le esperienze di caos, di disordini vari, c’è però un disegno di amore che precede e agisce. Questa non è una semplice favola, né un’illusione, perché come abbiamo avuto modo di vedere, al fondo c’è un riferimento molto concreto e consistente: “… avendo pacificato con il sangue della sua croce …”, non con bei discorsi, ideologie o utopie. Proprio grazie a questa realtà, quando a ciascuno di noi viene chiesto in cosa crediamo, possiamo rispondere: “Credo nel Signore Gesù Cristo.”
Poi da lì si comincia a ragionare, ma il nostro centro deve sempre essere quel: “Io credo nel Signore Gesù Cristo.”
Non perdiamo questo centro, perché Lui ha dato la sua vita e questo è qualcosa di concreto. Dopo possiamo aggiungere che Lui non era solo un Maestro, non era solo un innocente, non era solo una vittima, fino ad arrivare a dire che Lui era il primogenito della creazione, che tutto è stato fatto per mezzo di Lui, in vista di Lui e per Lui. In questo non c’è alcuna illusione, ma una capacità di dilatazione e di lettura della realtà grazie all’amore, un amore non idilliaco o romantico, ma un amore che ha i segni della vita donata totalmente per tutti e per ciascuno, un amore gratuito grazie al quale io sono stato amato prima che potessi fare qualsiasi cosa di buono.
Vi riporto sempre all’essenziale, perché ritengo sia necessario confessarlo e rimetterlo al centro. Ci sono volte nella vita in cui tutto si incaglia e non vedi una prospettiva né per te, né per chi ti sta a cuore; quindi, cominci a perdere i punti di riferimento e anche la tua fede ti sembra inutile perché lì per lì non appare efficace. Se resti avvinghiato a questo ti senti portare giù come in un gorgo, ma se invece hai dei punti di appiglio, anche se hai un crollo poi riparti e risali la montagna. Noi qui cerchiamo di mettere a fuoco i punti di appiglio più solidi, quelli più efficaci per aiutarci.
Proprio in funzione del fatto che il Signore ha “… pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli”, io vi avevo dato un testo di Papa Francesco, che ancora una volta poneva l’attenzione sull’importanza di possedere lo sguardo della fede, uno sguardo cioè che a partire dall’esperienza della vita letta alla luce del Cristo, permette di dare una visione diversa delle situazioni e soprattutto del conflitto, non solo il conflitto della guerra, ma anche i nostri personali conflitti interiori o quelli del nostro ambiente. Riporto qui sotto questo testo completo, perché possiate leggervelo da soli, poi però insieme commenteremo le parti che vi ho sottolineato.
Esortazione apostolica Evangelii Gaudium di Papa Francesco. L’unità prevale sul conflitto:
“226. Il conflitto non può essere ignorato o dissimulato. Dev’essere accettato. Ma se rimaniamo intrappolati in esso, perdiamo la prospettiva, gli orizzonti si limitano e la realtà stessa resta frammentata. Quando ci fermiamo nella congiuntura conflittuale, perdiamo il senso dell’unità profonda della realtà.
227. Di fronte al conflitto, alcuni semplicemente lo guardano e vanno avanti come se nulla fosse, se ne lavano le mani per poter continuare con la loro vita. Altri entrano nel conflitto in modo tale che ne rimangono prigionieri, perdono l’orizzonte, proiettano sulle istituzioni le proprie confusioni e insoddisfazioni e così l’unità diventa impossibile. Vi è però un terzo modo, il più adeguato, di porsi di fronte al conflitto. È accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo. «Beati gli operatori di pace» (Mt 5,9).
228. In questo modo, si rende possibile sviluppare una comunione nelle differenze, che può essere favorita solo da quelle nobili persone che hanno il coraggio di andare oltre la superficie conflittuale e considerano gli altri nella loro dignità più profonda. Per questo è necessario postulare un principio che è indispensabile per costruire l’amicizia sociale: l’unità è superiore al conflitto. La solidarietà, intesa nel suo significato più profondo e di sfida, diventa così uno stile di costruzione della storia, un ambito vitale dove i conflitti, le tensioni e gli opposti possono raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita. Non significa puntare al sincretismo, né all’assorbimento di uno nell’altro, ma alla risoluzione su di un piano superiore che conserva in sé le preziose potenzialità delle polarità in contrasto.
229. Questo criterio evangelico ci ricorda che Cristo ha unificato tutto in Sé: cielo e terra, Dio e uomo, tempo ed eternità, carne e spirito, persona e società. Il segno distintivo di questa unità e riconciliazione di tutto in Sé è la pace. Cristo «è la nostra pace» (Ef 2,14). L’annuncio evangelico inizia sempre con il saluto di pace, e la pace corona e cementa in ogni momento le relazioni tra i discepoli. La pace è possibile perché il Signore ha vinto il mondo e la sua permanente conflittualità avendolo «pacificato con il sangue della sua croce» (Col 1,20). Ma se andiamo a fondo in questi testi biblici, scopriremo che il primo ambito in cui siamo chiamati a conquistare questa pacificazione nelle differenze è la propria interiorità, la propria vita, sempre minacciata dalla dispersione dialettica. Con cuori spezzati in mille frammenti sarà difficile costruire un’autentica pace sociale.
230. L’annuncio di pace non è quello di una pace negoziata, ma la convinzione che l’unità dello Spirito armonizza tutte le diversità. Supera qualsiasi conflitto in una nuova, promettente sintesi. La diversità è bella quando accetta di entrare costantemente in un processo di riconciliazione, fino a sigillare una specie di patto culturale che faccia emergere una “diversità riconciliata”, come ben insegnarono i Vescovi del Congo: «La diversità delle nostre etnie è una ricchezza […] Solo con l’unità, con la conversione dei cuori e con la riconciliazione potremo far avanzare il nostro Paese»”
Il Papa, dunque, come vi ho sottolineato, dice che “è necessario postulare un principio che è indispensabile per costruire l’amicizia sociale: l’unità è superiore al conflitto.”
L’unità si postula molto bene a parole, ma poi nella pratica è molto più difficile.
Questo vale anche per noi della nostra comunità monastica, che siamo tutti diversi, di provenienze diverse e non ci siamo scelti. Con alcuni magari si è insieme da oltre venti o trent’anni, come nel mio caso, e questo però è anche peggio perché le cose fra noi non cambiano mai. Succede un po’ come tra moglie e marito, tra i quali accade che col tempo certe cose si vanno strutturando in una certa maniera e ognuno dei due ormai ha ben chiaro che le cose accadranno così e che niente cambierà.
Noi postuliamo, stiamo ore a pregare e cantare l’amore, ma poi le dinamiche sono sempre le stesse. Quante volte mi viene da pensare “Ma chi me lo fa fare? Cosa ci sto a fare qua?” Succede a me come può succedere anche a voi.
Ma l’unità è più grande del conflitto!
Questo a San Miniato l’ho imparato molto bene, soprattutto nei momenti critici che ho attraversato durante i vari decenni da quando sono qua. Ricordo benissimo quella più seria che ho avuto personalmente, quando a 42 anni c’è stato un passaggio un po’ delicato in cui mi dicevo “Ma chi me lo fa fare?”
Ma proprio in quel periodo venivano persone in negozio, (il luogo apparentemente meno deputato), che mi dicevano senza alcuna mia sollecitazione: “Meno male che ci siete voi monaci!” Non mi era mai successo prima di imbattermi in persone che mi dicessero così spesso “Meno male che ci siete voi.”, in precedenza infatti potevo essermi sentito dire “Meno male che ci sei tu” o “Meno male che c’è il tal altro.”
Evidentemente però in quel momento la gente percepiva molto l’unità della nostra comunità, e per me è stato uno stimolo forte che mi ha aiutato a perseverare, ritenendo che in questo caso valesse il detto “vox populi, vox Dei”.
Anche nel periodo di chiusura generale per il Covid ricevevamo tante telefonate in cui ci dicevano questa stessa cosa “Meno male che ci siete voi lassù che continuate la preghiera insieme e alimentate la speranza.”
Vi dico questo perché ci sono dei valori che ci trascendono, che sono più grandi, e l’unità è uno di questi.
Ognuno di noi preso singolarmente ha dei doni, delle qualità, ma insieme, in comunione in un luogo in cui questo tipo di esperienza continua con alterne vicende da più di mille anni, si crea una sorta di vera roccia, un vero punto di riferimento che è molto più grande della testimonianza dei singoli e anche della comunità nella sua realtà contingente. C’è un di più e questo è una piccola profezia che però in qualche modo testimonia che l’unità è più grande del conflitto e come con gli sposi che hanno trascorso insieme una lunga storia fatta di varie cose e momenti di ogni genere, così proprio nel tempo lungo si riesce a vedere cosa il Signore ha fatto, cosa ha costruito con loro.
Nonostante tutto, noi non siamo più bravi degli altri, a volte purtroppo la vita ci riserva anche dei fallimenti. Noi non siamo una élite, né siamo qui per giudicare gli altri, anzi la Lettera ai Colossesi ci aiuta a non giudicare gli altri, però vediamo che a volte ci costa mettere in secondo piano certe cose per dare priorità ad altre, come per esempio dare priorità all’unità rispetto alla nostra personale realizzazione.
Ognuno di noi potrebbe dire di sé: “Avrei potuto fare questo o quello. Sarei stato capace di fare quello, ma la situazione non me ne ha dato l’opportunità.”
Molte persone a volte hanno questo genere di frustrazioni, perché?
Magari alcune in passato non hanno avuto il coraggio di cogliere quelle opportunità, e allora va bene, si può sempre cercare di aver coraggio oggi; ma tante altre persone, per esempio molte mamme, talvolta mi dicono che per la famiglia hanno dovuto fare delle scelte, hanno messo da parte certe opzioni e poi però in certi momenti hanno pensato che, se avessero fatto scelte diverse sarebbe stato meglio, almeno sarebbero state felici loro. Sono modi di dire che si capiscono benissimo e si accolgono anche con tanta tenerezza, ma in realtà il peso dell’amore è questo. Guardiamo al Signore Gesù, quante volte avrebbe potuto pentirsi di quello che ha fatto guardando all’ingratitudine e al rifiuto di molti.
Ma l’amore non si pente mai, l’amore vince e va oltre.
Papa Francesco diceva che questo principio è indispensabile per costruire l’amicizia sociale, che è proprio quella che oggi è lesa in maniera feroce anche dal modo che abbiamo di comunicare.
Fino a pochi anni fa il modo di comunicare dominante consisteva nell’usare ipocritamente tutto il politically correct possibile, cercando di omettere tutto ciò che potesse sottolineare ciò che non era comune a tutti e contemporaneamente però senza mai rispettare le differenze accogliendole nel loro diritto ad essere riconosciute; in questa maniera si mette la società nell’incomunicabilità reale e a quel punto la si rovina.
La modalità alternativa che è in uso adesso, è altrettanto rovinosa, dal momento che si gioca a chi grida più forte, senza nessun rispetto, senza dare tempo, anzi incalzando, per mettere l’altro in una situazione di paura o di debolezza. Ne avete esempi costanti.
Queste due modalità di comunicazione sono terribili, non generano certo l’amicizia sociale. Papa Francesco ci indica una terza via e ci invita a scegliere, cosa che è faticosa perché ripaga solo nel tempo, ed è però necessaria per costruire.
Papa Francesco continua dicendo che:
“Non significa puntare al sincretismo, né all’assorbimento di uno nell’altro, ma alla risoluzione su di un piano superiore che conserva in sé le preziose potenzialità delle polarità in contrasto. (…) Cristo ha unificato tutto in Sé (…). La pace è possibile perché il Signore ha vinto il mondo e la sua permanente conflittualità avendolo «pacificato con il sangue della sua croce» (Col 1,20). Ma se andiamo a fondo in questi testi biblici, scopriremo che il primo ambito in cui siamo chiamati a conquistare questa pacificazione nelle differenze è la propria interiorità, la propria vita, sempre minacciata dalla dispersione dialettica. Con cuori spezzati in mille frammenti sarà difficile costruire un’autentica pace sociale.”
Questo ci riguarda tutti perché su di noi possiamo lavorare, sugli altri ci si può solo provare.
Tutto questo mi interessa anche perché vorrei sempre cercare di coniugare questo impegno di ascolto e di scavo che facciamo sulla Scrittura, – e che indubbiamente ci serve per crescere interiormente, anche come persone in comunione -, con uno sguardo al suo scopo più vero e più alto che, come sapete, consiste nel fatto che la Chiesa esiste perché il mondo possa incontrare Cristo.
La Costituzione Lumen Gentium del Concilio Vaticano II al numero 1 dice in modo splendido:
“La Chiesa è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano”.
Proseguendo nella lettura della Lettera ai Colossesi siamo arrivati a quella parte del testo che viene chiamata Partitio, cap. 1, vv. 21-23:
“1 21 Un tempo anche voi eravate stranieri e nemici, con la mente intenta alle opere cattive;
22ora egli vi ha riconciliati nel corpo della sua carne mediante la morte, per presentarvi santi, immacolati e irreprensibili dinanzi a lui;
23purché restiate fondati e fermi nella fede, irremovibili nella speranza del Vangelo che avete ascoltato, il quale è stato annunciato in tutta la creazione che è sotto il cielo, e del quale io, Paolo, sono diventato ministro.”
Quando abbiamo affrontato questo brano vi ho detto che questi versetti del primo capitolo servivano proprio a mettere in evidenza i tre punti fondamentali che sarebbero stati svolti nel corpo della Lettera.
Ad oggi nella lettura e commento di Colossesi siamo ancora nel corpo della Lettera e abbiamo svolto i primi due punti. Il procedimento retorico è fatto in maniera tale che gli argomenti che vengono annunciati nella partitio siano svolti in ordine opposto nel corpo della lettera.
Vi rileggo questi versetti:
“1 21 Un tempo anche voi eravate stranieri e nemici, con la mente intenta alle opere cattive; 22ora egli vi ha riconciliati nel corpo della sua carne mediante la morte, per presentarvi santi, immacolati e irreprensibili dinanzi a lui;”
Vedete che questo tema ha a che fare con la vita, certamente centrato in Cristo, ma riguardante la vita dei credenti, ovvero la parte etica che verrà svolta nella seconda manche della nostra Lectio Divina, alla ripresa degli incontri in autunno.
Nella parte centrale di questo brano, al v. 23, Paolo dice:
“1 23 purché restiate fondati e fermi nella fede, irremovibili nella speranza del Vangelo che avete ascoltato, il quale è stato annunciato in tutta la creazione che è sotto il cielo, e del quale io, Paolo, sono diventato ministro.”
Qui Paolo sottolinea gli atteggiamenti relativi a fede e Vangelo – fondati e fermi nella fede, irremovibili nella speranza del Vangelo – che sono necessari per affrontare le tentazioni che abbiamo visto la volta scorsa, trattando della cosiddetta ‘Eresia dei dottori di Colosse’, relativa a quanto nell’esperienza dei Colossesi metteva in discussione l’affermazione della supremazia assoluta della mediazione di Cristo, a cui Paolo invece ribatte sottolineando che non c’è niente sopra Cristo, non c’è niente di più necessario di Cristo, non c’è niente che si può frapporre tra noi e Cristo. Per i dettagli vi rimando alla sintesi della scorsa lectio.
In fondo al v. 23 poi, Paolo specifica di essere diventato ministro del Vangelo che i Colossesi hanno ascoltato e questo riferimento personale, come abbiamo visto, è il primo che viene sviluppato nel corpo della lettera, infatti al versetto dopo, in Col 1, 24 si legge:
“1 24 Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa.
Ci siamo soffermati a lungo su questo versetto, attingendo anche da vari altri testi, data la sua rilevanza; Paolo, infatti, ci manifesta come può dare senso alle sofferenze che deve affrontare nella sua missione. Anche noi siamo spesso alle prese con lo stesso problema, perché la sofferenza in sé non ha senso, il male è male, non ha giustificazione, ma cosa ne facciamo? Non lo si può negare, spesso ce lo ritroviamo addosso o dentro il cuore, ma sempre male è. Paolo però ci dice cosa possiamo farne e qui sta la grande occasione tutt’altro che banale, perché lui intravede una possibilità di partecipazione e di doppia relazione: la vita di Cristo e in particolare la sua passione entrano dentro la vita di Paolo e le danno senso; Paolo con la sua vita partecipa e completa, per ciò che riguarda la sua carne, quello che manca ai patimenti di Cristo.
Uno dei punti più rilevanti della Lectio sulla Lettera ai Colossesi è proprio questo, ossia il fatto che Paolo ci apre una possibilità di interpretazione del senso della sofferenza, di che cosa ne possiamo fare noi e di come anche quella può diventare per noi, come è stato per Cristo, qualcosa di salvifico, qualcosa che fa del bene pur non essendo in sé un bene.
Tra i vari testi significativi che vi avevo portato a commento di questo bellissimo passo di Paolo, c’era quello tratto dalla Lettera apostolica Salvifici doloris n. 24, in cui San Giovanni Paolo II spiega proprio questo nesso importante:
“Cristo in un certo senso ha aperto la propria sofferenza redentiva” – la sofferenza che guarisce il mondo, cioè quella della croce – “ad ogni sofferenza dell’uomo.”
È Cristo che opera e Paolo ci manifesta la sua intelligenza riguardo a questa opera di salvezza. È questa la cosa bellissima! Dovrebbe essere un’indicazione di metodo: quando cogliete qualcosa di rilevante per la vostra vita, che vi viene dalla vostra esperienza del Vangelo, del Signore, della preghiera …, siete abilitati a trasmetterlo. Paolo ci fa questo dono.
“In quanto l’uomo diventa partecipe delle sofferenze di Cristo – in qualsiasi luogo del mondo e tempo della storia -, in tanto egli completa a suo modo quella sofferenza, mediante la quale Cristo ha operato la redenzione del mondo. Questo vuol dire, forse, che la redenzione compiuta da Cristo non è completa?” (Papa G.P.II)
Qui, come già segnalato, c’è il problema della vecchia traduzione un po’ mediocre che Papa Giovanni Paolo II aveva fra le mani. La nuova traduzione è un po’ più precisa e infatti dice: “1 24 … do compimento a ciò che dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa.”
È questa capacità di pensare che l’affrontare con il Signore le sofferenze che la vita ci presenta (ovviamente non andarsele a cercare, perché sarebbe follia!), fa sì che questo possa essere un beneficio per altri. Questa cosa – lo ribadisco – non è scontata, né automatica, ma Paolo afferma con certezza che le sue sofferenze servono ai Colossesi, che pure lui non conosce se non attraverso la testimonianza di Epafra. Questo apre uno squarcio e il Papa lo mette in evidenza:
“No. Questo significa solo che la redenzione, operata in forza dell’amore soddisfattorio, rimane costantemente aperta ad ogni amore che si esprime nell’umana sofferenza. In questa dimensione – nella dimensione dell’amore – la redenzione già compiuta fino in fondo, si compie, in un certo senso, costantemente.
Cristo ha operato la redenzione completamente e sino alla fine; al tempo stesso, però, non l’ha chiusa: in questa sofferenza redentiva, mediante la quale si è operata la redenzione del mondo, Cristo si è aperto sin dall’inizio, e costantemente si apre, ad ogni umana sofferenza. “Sì, sembra far parte dell’essenza stessa della sofferenza redentiva di Cristo il fatto che essa richieda di essere incessantemente completata.” (Papa G.P.II)
Secondo me questo è bellissimo, perché conserva una profonda verità, quella che tutta la nostra vita, anche la parte meno piacevole, anzi per certi versi quella meno piacevole, può essere meno ‘depistante’ di quella piacevole, cioè può diventare una vera partecipazione alla vita di Cristo: Io mi offro a Cristo proprio perché gli voglio bene e il Suo bene passa attraverso di me per gli altri, perché il bene del Signore mi permette di affrontare le situazioni con qualcosa che io da solo non ho.
Viktor Frankl, nel suo libro “Uno psicologo nei lager”, cita le parole di Friedrich Nietzsche: “Se hai un perché, puoi sopportare ogni come.” Ossia, se noi abbiamo un motivo alto, profondo, di amore, possiamo dare senso e patire le situazioni difficili che dobbiamo affrontare, maturando anche nell’esperienza della gratuità: Non amo il Signore per i Suoi doni o perché mi preserva dai mali, ma amo il Signore perché lo amo. Così come Lui ama me non perché gli do qualcosa, ma perché mi ama. È chiaro che non si può andare al ribasso, perché al ribasso non regge nulla e il Signore invece ci porta sempre al rialzo. È duro, ma è bellissimo.
Papa Francesco in un discorso ai membri della Pontificia Commissione Biblica del 20 Aprile 2023, riprende in parte il testo di Papa Giovanni Paolo II e precisa ulteriormente:
“Anche il credente talvolta può vacillare di fronte all’esperienza del dolore. È una realtà che fa paura e che, quando irrompe e assale, può lasciare l’uomo sconvolto, fino ad incrinarne la fede. La persona allora è posta di fronte a un bivio: può permettere alla sofferenza di portarla al ripiegamento su di sé, fino alla disperazione e alla ribellione; oppure può accoglierla come un’occasione di crescita e di discernimento su ciò che nella vita conta veramente, fino all’incontro con Dio.”
Noi siamo sempre di fronte ad un bivio.
Perché è così importante la libertà, la libertà abitata da Cristo?
Perché noi siamo sempre messi in condizione di prenderci in mano, non di subire la vita. Anche quando la vita ci mette di fronte alle sofferenze, alle contrarietà, noi possiamo prenderla in mano come Gesù ha preso in mano la sua e l’ha donata come eucarestia, prima che gliela togliessero come vittima innocente.
Questo testo mi sembra molto importante. Noi siamo qui per esercitarci nel discernimento. In certi casi, ci viene detto che non ci sono altre soluzioni se non la fuga o il cercare di mettersi in condizioni un po’ migliori, magari sgomitando, così da avere più risorse per proteggerci dal dolore, dal male. Ma il Signore non ci dice questo. Il cristianesimo è sempre scelta, Cristo libera la nostra libertà perché noi scegliamo, non da soli ovviamente ma grazie a Lui, scegliamo di lasciarci amare da Dio e di seguire le logiche del suo amore.
Finalmente arriviamo al brano della Lettera ai Colossesi che abbiamo affrontato nello scorso incontro e che è quello più difficile di tutta la Lettera, perché soprattutto nella parte centrale e finale affronta le difficoltà che minacciano la fede dei Colossesi.
Dalla Lettera ai Colossesi cap 2, 6-23 – La fedeltà al Vangelo ricevuto:
“2 6 Come dunque avete accolto Cristo Gesù, il Signore, in lui camminate, 7radicati e costruiti su di lui, saldi nella fede come vi è stato insegnato, sovrabbondando nel rendimento di grazie.”
A commento di questi primi versetti vi avevo portato un brano del Messaggio del Santo Padre Benedetto XVI per la XXVI Giornata Mondiale della Gioventù del 2011.
“2 8 Fate attenzione che nessuno faccia di voi sua preda con la filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo.”
Qui Paolo mette in guardia i Colossesi dai raggiri che possono essere generati da una certa filosofia e da certe tradizioni ‘umane’, che si oppongono alla centralità di Cristo e del suo Vangelo.
Stiamo andiamo su cose delicate: la filosofia, la tradizione umana e gli elementi del mondo, qui hanno connotazioni evidentemente negative che però non vengono ancora precisate, si coglie solo la pericolosità di essere presi come in una rete e ingannati, presumibilmente in funzione di dottrine, ragionamenti, e pratiche che all’apparenza sembrano qualificanti e invece sono fuorvianti e pericolose.
Voi sapete che questo tipo di operazione viene costantemente messa in atto anche ai nostri tempi; spesso e volentieri vengono presentate obiezioni e ragionamenti basati su quella che è l’esperienza, la tradizione umana. San Paolo ci dice di fare attenzione a questo e nei versetti che seguono ci da alcuni punti di riferimento a cui attenerci ricentrando l’attenzione su Cristo. Aggiunge anche che, quando ci accorgiamo che questi punti vengono messi in discussione, dobbiamo tagliate corto e non stare a perdete tempo perché altrimenti veniamo confusi e usciamo fuori rotta.
“2 9 È in lui che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità,” Come a dire che bisogna guardare a Cristo e non bisogna perdere di vista questo.
“2 10 e voi partecipate della pienezza di lui, che è il capo di ogni Principato e di ogni Potenza.”
Perciò come ho già detto l’altra volta, l’Inno ai Colossesi da una parte sottolinea la mediazione che il Signore Gesù opera su tutta la creazione e sulla redenzione, dall’altra sottolinea la nostra possibilità di partecipare alla sua vita.
Qui Paolo parla in una maniera più esistenziale, più forte e fa riferimento al grande sacramento del battesimo, mediante il quale noi siamo stati immersi nella Pasqua di Cristo e siamo entrati nel suo corpo che è la Chiesa, e non perché abbiamo fatto delle iniziazioni speciali, esoteriche, o grazie a una speciale istruzione da parte di un maestro che ci ha insegnato le cose segrete.
L’amore è un’altra cosa, l’unico segreto è il pudore che deve circondare l’amore, per ‘non gettare le perle davanti ai porci’ come dice Gesù (Mt 7,6), perché l’amore non sia svilito. Se l’amore non circola non cresce e non fruttifica, si bloccano e si seccano sia chi lo ha ricevuto e lo trattiene senza donarlo, sia ovviamente chi non lo riceve.
Perché la Chiesa è missionaria?
Non certo perché deve convincere gli altri, ma perché l’amore di Cristo deve circolare e le persone devono poter conoscere la Sorgente ed entrare nel grande bacino idrografico della grazia. Noi dobbiamo scoprire e fare nostra questa dinamica, che è anche rischiosa, dobbiamo riconoscerlo, ma è imprescindibile.
“2 11 In lui voi siete stati anche circoncisi, non mediante una circoncisione fatta da mano d’uomo con la spogliazione del corpo di carne, ma con la circoncisione di Cristo: 12 con lui sepolti nel battesimo, con lui siete anche risorti mediante la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti.”
Questa è la novità di Colossesi: l’unione che porta anche alla resurrezione.
“2 13 Con lui Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti a causa delle colpe e della non circoncisione della vostra carne, perdonandoci tutte le colpe e 14 annullando il documento scritto contro di noi che, con le prescrizioni, ci era contrario: lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce.”
Papa Francesco coniando un neologismo avrebbe detto che siamo dei ‘misericordiati’. Perché noi abbiamo ricevuto misericordia e questa consapevolezza è ciò che ci distingue. È il Signore che ci viene in contro, ci rialza, ci conduce nel cammino, prendendoci così come siamo e non perché ce lo siamo meritati con i nostri sforzi e le nostre pratiche, ma perché ci ama.
Gesù vale qualcosa perché ha trasformato tutto, anche la cosa più orribile, la croce, l’ha assunta e per amore l’ha trasformata da segno di obbrobrio in simbolo dell’alleanza indefettibile col Padre e di salvezza per tutti.
“2 15 Avendo privato della loro forza i Principati e le Potenze, ne ha fatto pubblico spettacolo, trionfando su di loro in Cristo.”
Questi versetti sono molto difficili anche per gli esegeti, ma al di là delle difficoltà testuali, io vado dritto perché voglio arrivare a portarvi a quello che non dobbiamo perdere. Noi non siamo degli eruditi e non vogliamo nemmeno passare per quelli che non capiscono niente del testo, per cui è chiaro che cerchiamo anche di capire meglio quale era il problema dei Colossesi, ma quello che ci interessa capire più di tutto è quale vantaggio porta a noi questa Lettera ai Colossesi.
È molto importante il fatto che grazie al suo perdono, alla sua redenzione, al dono che ha fatto di sé sulla croce, Gesù ha tolto la possibilità a tutti quegli esseri che potevano avere un ruolo di governo – le potenze angeliche di cui si parla nella Lettera – di avere qualcosa da recriminare nei nostri confronti, perché noi non abbiamo le carte in regola, ma ci mette in regola Gesù per amore. Perciò il chirografo, il manoscritto di tutte le nostre malefatte, viene stracciato grazie al sangue di Cristo e noi quindi siamo liberati. Questo non significa che possiamo continuare a fare il male peggio di prima, ma anzi che il male stesso non ci inchioda e non fa della nostra vita una passione inutile, una pura velleità.
“2 16 Nessuno dunque vi condanni in fatto di cibo o di bevanda, o per feste, noviluni e sabati: 17queste cose sono ombra di quelle future, ma la realtà è di Cristo.
18Nessuno che si compiace vanamente del culto degli angeli e corre dietro alle proprie immaginazioni, gonfio di orgoglio nella sua mente carnale, vi impedisca di conseguire il premio: 19costui non si stringe al capo, dal quale tutto il corpo riceve sostentamento e coesione per mezzo di giunture e legamenti e cresce secondo il volere di Dio.
20Se siete morti con Cristo agli elementi del mondo,” in quanto battezzati “perché, come se viveste ancora nel mondo, lasciarvi imporre precetti quali: 21«Non prendere, non gustare, non toccare»? 22Sono tutte cose destinate a scomparire con l’uso, prescrizioni e insegnamenti di uomini, 23che hanno una parvenza di sapienza con la loro falsa religiosità e umiltà e mortificazione del corpo, ma in realtà non hanno alcun valore se non quello di soddisfare la carne.”
Qui Paolo mette in evidenza questa deriva: i dottori di Colosse pensavano che bisognasse avere una prassi particolare, delle regole alimentari e l’osservanza delle festività ebraiche.
Digiunare, fare esercizi, seguire delle tecniche, sono tutte cose che in sé non sono sbagliate, – anche noi monaci le facciamo e le abbiamo nella nostra tradizione -, ma lo diventano quando si fa dipendere da questo la possibilità di avere un’esperienza reale del Signore, perché si parte dal presupposto che si debba avere una esperienza particolare, non ordinaria, una sorta di visione. Ecco allora che Paolo al v. 18 ci dice:
“2 18 Nessuno che si compiace vanamente del culto degli angeli e corre dietro alle proprie immaginazioni, gonfio di orgoglio nella sua mente carnale, vi impedisca di conseguire il premio.”
Perché per Paolo noi che siamo stati battezzati nel Signore siamo già suoi, siamo già dentro un cammino e non abbiamo bisogno di avere una particolare visione, perché in realtà noi andremo a giocarcela su un altro fronte; il punto su cui dovremo vedercela sarà la nostra azione quotidiana, ed è lì, nel nostro prossimo che incontreremo Gesù. È nella prassi concreta che ce la giocheremo, non in quale tipo di sapienza, o di particolare visione, o di particolare esperienza sensibile. Questa è una discriminante importante e tuttavia ciò non significa che ognuno di noi non vorrebbe raggiungere una luce più grande del mistero di Dio e che questo desiderio non sia legittimo e prezioso.
Quelli a cui è capitato, persone di particolare santità, dopo aver fatto questo tipo di esperienza avevano un timore terribile di sbagliarsi, di ingannarsi e poi non si ritenevano affatto meglio degli altri.
L’umiltà cristiana è una virtù imprescindibile: tanto più sei grande, tanto più sei umile, perché riconosci la distanza tra il mistero di Dio che ti è rivelato, che si rivela in te e la tua povertà.
Invece, anche oggi ci sono dottrine che ti dicono che devi seguire un certo tipo di tecniche e devi raggiungere un certo tipo di visioni per ottenere le quali devi avere un certo tipo di alimentazione, altrimenti le visioni non ti arrivano e di conseguenza tu non ti realizzerai.
Paolo in tutto questo ci vede qualcosa di molto grave: il rischio è rompere l’unità del corpo di Cristo e quello ancora più grande è mettere fra parentesi il valore di Cristo.
La rivelazione cristiana in altri contesti e soprattutto nell’Apocalisse di S. Giovanni, recupera tutto il valore del modo spirituale, ma tutto è sottomesso al primato di Dio e di Cristo. Se ricordate nell’Apocalisse si legge che Giovanni a un certo punto si mette in ginocchio davanti all’angelo, che gli dice di tirarsi su perché non ci si deve mai inginocchiare davanti a nessuno se non davanti al Signore.
A noi interessano questi due punti: il nostro riferimento fondamentale a Cristo e un cammino sincero, autentico, verace, che fa crescere in una capacità di comunione, con tutti e non con la selezione di un gruppo di persone speciali che in quanto tali saranno le sole e uniche che si salveranno.
A commento di questi versetti, vi leggo questo testo del già citato esegeta J.N. Aletti:
“L’importanza data alla mediazione e al potere degli esseri celesti costituisce molto probabilmente la causa o la radice del male che Colossesi vuole guarire. Ma questa mediazione delle potenze si opera a proposito di pratiche ascetiche e rituali che hanno anche effetti nocivi a livello comunitario (giudizio, discredito, ecc.).
Col 2 mostra che queste pratiche dovevano costituire, secondo i “dottori”, un mezzo indispensabile per avere delle visioni – in altri termini per essere ammessi nel santuario celeste e partecipare del culto reso dagli angeli. Questo viaggio verso il cielo doveva a sua volta essere considerato come una primizia della salvezza, come un essere-con-Dio prefigurante la glorificazione finale e unico in grado di permetterla. Non si può spiegare diversamente l’accentuazione posta dall’autore di Colossesi sull’essere-con-Cristo di ogni battezzato fin d’ora e senza visione, precisamente per dire il contrario dei “dottori.
Se, come dice l’apostolo, abbiamo già ricevuto tutto in Cristo e possiamo sperare tutto in lui (soprattutto la gloria) perché abbandonarsi a pratiche che si ritiene favoriscano e preparino la comunione con Dio, ma che in realtà negano gli effetti già presenti della mediazione cristica?”
Per noi è importantissimo questo fatto: che noi non ci salviamo per quello che abbiamo visto, ma per la fede; la fede ci unisce a Gesù e fin da ora noi siamo partecipi di Lui, fin da ora sappiamo che Lui non ci abbandonerà come ci ha dimostrato, perché Lui che aveva tutto, nel Getsemani ha vissuto lo spogliamento più totale, ha vissuto il silenzio del Padre, ma ha continuato a fidarsi e ad affidarsi. È questo che salva il mondo. Questo è un aspetto qualificante importante, che ci aiuta. Quante volte, soprattutto le persone che hanno perso i loro cari, mi dicono: “Chissà se poi ritroverò mio marito/mia moglie!?”
La fede dice che certamente lo/la ritroverai, e questo è il punto!
Se ti basi solo su quello che vedi e senti, non ci arrivi, ma se ti basi su quello che la fede ti dice, allora certo che ci arrivi, non sai come, non sai quando, non sai in che modo esattamente, e nel frattempo patisci l’assenza, ma ti è stato garantito che ci arrivi. Gesù infatti ha detto “Vado a prepararvi un posto” (Gv 14, 2), altrimenti avrebbe detto che ci lasciava orfani. Noi ci fondiamo su questo, non perché abbiamo visto il Paradiso, ma perché crediamo in Gesù. La mia fede diventa qualcosa su cui un altro può appoggiarsi, ognuno si appoggia anche alla fede degli altri. Scalda il cuore il fatto di essere insieme a tenerci per mano perseveranti nel continuare a rimanere uniti e sperimentare nella nostra vita questa unione che produce frutto, che fa circolare amore, che è vera e ci rende persone vere.
Concludiamo questo nostro incontro spostarci nell’abside della nostra basilica, dove ci lasciamo ancora suggestionare da Paolo che nella Lettera ai Romani, cap. 8, vv. 35-39, ci dice:
“8 35 Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? 36Come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo considerati come pecore da macello. 37Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. 38Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati né presente né avvenire, né potenze, 39né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore.”
Queste parole di Paolo le proclamiamo nella parresia dello Spirito Santo qui, davanti al mosaico che raffigura il Cristo Pantocrator, sotto il quale noi ci siamo radunati per confessare la nostra fiducia in Lui e per affidargli le situazioni della nostra vita e di tutta l’umanità.
E sempre Paolo prega per noi, così come pregò per gli Efesini nella sua Lettera agli Efesini, cap. 3, vv. 14-21, dicendo:
“3 14 Per questo io piego le ginocchia davanti al Padre, 15dal quale ha origine ogni discendenza in cielo e sulla terra, 16perché vi conceda, secondo la ricchezza della sua gloria, di essere potentemente rafforzati nell’uomo interiore mediante il suo Spirito.
17Che il Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori, e così, radicati e fondati nella carità, 18siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, 19e di conoscere l’amore di Cristo che supera ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio.
20A colui che in tutto ha potere di fare molto più di quanto possiamo domandare o pensare, secondo la potenza che opera in noi, 21 a lui la gloria nella Chiesa e in Cristo Gesù per tutte le generazioni, nei secoli dei secoli! Amen.”
E se questo, come ci dice Paolo, vale per tutte le generazioni, allora vale anche per la nostra.
Al termine di questa prima parte della nostra Lectio Divina sulla Lettera ai Colossesi, mi piace e recitare di nuovo tutti insieme le parole di Efrem il siro, (lo avevamo già incontrato nel corso del nostro cammino), il quale ci spalanca lo sguardo sul Paradiso, rappresentato anche dagli alberi raffigurati nel mosaico del catino absidale.
Inni al Paradiso, IX, 24-25:
“Torrenti di soavità
Fluiscono dallo splendore
Del Padre mediante il suo Primogenito,
verso la folla dei veggenti.
Là si daranno avidamente al godimento
del pascolo delle visioni divine,
Chi mai ha visto degli affamati
saziarsi,
impinguarsi e inebriarsi
dei flutti della gloria,
che fluiscono nella bellezza
di quella Essenza bella?
Il Signore di ogni cosa
è il tesoro di ogni cosa.
A ogni uomo, secondo le sue forze,
mostrerà attraverso una fessura
la sua bellezza celata
e la sua lucente maestà.
Egli è lo splendore che, nella sua misericordia,
fa tutto brillare:
i piccoli mediante i suoi lampi,
i perfetti mediante i suoi fasci di luce.
Solo il Figlio suo è all’altezza
della veemenza della sua gloria.”
Sono molto belle queste parole di Efrem il siro e anche noi ci immergiamo in questa contemplazione mediata dalla bellezza che ci sta di fronte.
Infine, concludiamo con un testo di Pierre Teilhard de Chardin, che ci aiuta ad allargare ulteriormente lo spazio del nostro cuore, perché noi abbiamo bisogno di respirare in una dimensione addirittura più grande di tutta la creazione, siamo fatti per l’infinito e la preghiera ci deve servire anche a ritrovare lo spazio dell’infinito.
All’inizio O. Cullmann diceva che “la preghiera è un parlare escatologico”, che permette questa apertura oltre il confine, e noi nella nostra piccolezza e anche con l’ancoraggio nella realtà del dramma che l’umanità e la creazione vivono, cerchiamo di accogliere lo squarcio di apertura che la fede ci permette di scorgere.
“Dio nostro, Tu sei al centro di tutto e tutto circondi. Tutto si curva al Tuo passaggio:
gioie, progressi, dolori, fallimenti, errori, opere, preghiere, bellezze, potenze del cielo, della terra e degli inferi.
E tutto mette la propria energia a servizio del Tuo spazio divino e da esso tutto è pervaso con potenza.
Tu non distruggi le cose e neppure le forzi: le liberi, le orienti, le trasfiguri, le animi.
Non le abbandoni, ma Ti appoggi su di loro, e avanzi trascinando con Te ciò che in loro è santo.
Donaci la purezza di cuore, la fede, la fedeltà, perché con questi doni si costruisce la nuova terra, e si vince il mondo in Gesù Cristo, nostro Signore.”
Amen
Trascrizione a cura di Gaia Francesca Iandelli e Cecilia Prandi