Lectio divina sulla Lettera ai Colossesi: trascrizione dell’ottavo incontro animato il 24 aprile 2025 da padre Stefano

Lectio divina sulla Lettera ai Colossesi: trascrizione dell’ottavo incontro animato il 24 aprile 2025 da padre Stefano

Lectio divina

S. Miniato al Monte 24 Aprile 2025
Lectio divina sulla lettera ai Colossesi
VIII Incontro con padre Stefano Brina

“Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen”

Vorrei rinnovare la nostra preghiera e il nostro ringraziamento per il dono che è stato Papa Francesco, con i suoi carismi, la sua disponibilità a donarsi tutto, anche rompendo tante volte certi schemi, però facendosi prossimo a chiunque. Noi ti vogliamo rendere grazie per ciò che hai seminato attraverso di lui secondo il compito che gli avevi dato nella storia; in particolare grazie per avergli concesso di concludere la sua vita benedicendo tutto il mondo e potendo essere in mezzo alla gente come lui desiderava e non avendolo fatto ulteriormente peggiorare nella sua condizione di salute, in modo tale da non avere la necessità di una dimissione che lui non reputava opportuna in questo caso per la Chiesa. Noi vediamo in questo sicuramente un’opera della tua misericordia, della tua attenzione, della tua sensibilità, o Signore.
Ovviamente la Chiesa ora si trova un attimino (altro che sede vacante!) in una condizione di bisogno; quindi, chiediamo per Papa Francesco la beatitudine eterna insieme a tutti i nostri cari e poi invece per la Chiesa il dono dello Spirito Santo, perché possa donarci un nuovo pastore che possa aiutare la Chiesa anche in una dimensione di maggiore coesione, in un momento storico in cui invece la grande tentazione è la polarizzazione più violenta e distruttiva.
Che l’azione dello Spirito possa invece guidare la Chiesa verso una condizione (questo è veramente il mio auspicio, che condivido con voi) perché si crei quel terreno fertile attraverso il quale si possano manifestare e crescere, tutti quei nuovi testimoni che serviranno come punti di riferimento per riorientare il cammino dell’umanità. In questo momento sembra tutto il contrario, come se stessimo un po’ arando. Che il Signore però possa mediante il suo Spirito far concimare e germogliare (come diceva Gesù in una parabola), perché possa poi nuovamente dare un frutto visibile. Questo noi lo chiediamo non solo perché ne sentiamo un grande bisogno per noi, ma soprattutto per le nuove generazioni.
Tutti insieme ci affidiamo alla Vergine Maria che è la madre della Chiesa:

“Ave Maria, …… Amen”

Oggi cominciamo il corpo della lettera, come vi avevo preannunciato. Nell’incontro precedente a quello della Collatio avevamo finito l’exordium, cioè tutta la parte introduttiva in cui venivano anticipati tutti i temi, però ora entriamo in una triplice scansione che ci permetterà di affrontare i tre temi principali che sono stati presentati nei versetti 21-23 del capitolo 1 di quella che retoricamente abbiamo chiamato la Partitio. Come ricorderete, vi dicevo che quei versetti presentavano i temi che poi il corpo della lettera avrebbe trattato in ordine inverso. In particolare, l’ultimo versetto, il 23b ricompariva Paolo come testimone ed ora infatti ecco che ripartiamo da una nuova sezione dove Paolo viene nominato e si presenta dicendoci qualcosa anche di autobiografico. Che sia il Paolo che scrive in prima persona, o che siano i discepoli di Paolo che riportano già una visione matura e completa del personaggio Paolo, però sicuramente la testimonianza è autentica. Paolo come vedremo ci parla di come lui partecipa e quindi tratta tutta la dimensione della sua passione, assumendo e integrando l’esperienza delle sue sofferenze, addirittura come partecipazione all’opera di Gesù Cristo, che nella seconda parte dell’Inno avevamo visto già essere portatore della redenzione mediante il suo sangue sulla Croce.
Tutta l’opera di salvezza del Cristo ovviamente si è calata dentro l’esperienza umana della sofferenza. Ricordate la Lettera agli Ebrei, che tante volte troviamo proclamata nella liturgia, quando si legge che:

Eb 5 7Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. 8Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì 9e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono.

Reso perfetto, dall’interno, svuotandosi in qualche modo della sua divinità il Signore Gesù ha partecipato in pieno dell’esperienza drammatica e dolorosa della condizione umana.
Allora, questa dimensione così forte e dura che il Signore ha assunto, attraverso l’esperienza della Pasqua, apre la possibilità che anche noi possiamo partecipare con le nostre tribolazioni a questo grande processo di salvezza, di redenzione. Questa è una delle tematiche che troveremo, forse la principale, poi finalmente verrà introdotto quel tema che io vi ho anticipato nei primi incontri dedicati all’introduzione alla Lettera, ovvero il mystèrion, il mistero che in qualche modo sostituisce il termine Vangelo nel corpo della lettera, ma che dice anche qualcos’altro e poi in mezzo a tutto questo c’è un rivolgersi in questo caso ai Colossesi, e per estensione anche a tutti i lettori, in ordine a tutto quello che permette la rivelazione del mistero, che è Cristo, ossia un aumento di esperienza, di conoscenza delle cose di Dio e della realtà, di partecipazione intima ad essa e quindi anche di testimonianza.

Ora leggiamo il nostro testo che inizia con la lotta di Paolo per la diffusione del Vangelo.

Il mystèrion (1,24-2,5) La lotta di Paolo per la diffusione del vangelo

24Ora io sono lieto (cai,rw) nelle sofferenze (paqh,masin) che sopporto per voi e do compimento a
ciò che, dei patimenti (qli,yewn) di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è
la Chiesa.
25Di essa sono diventato ministro (dia.konoj), secondo la missione (oi`konomi,an) affidatami da Dio verso di voi di portare a compimento la parola di Dio,
26il mistero nascosto da secoli e da generazioni, ma ora manifestato ai suoi santi. 27A loro Dio volle far conoscere la gloriosa ricchezza di questo mistero in mezzo alle genti: Cristo in voi, speranza della gloria.
28 È lui infatti che noi annunciamo, ammonendo ogni uomo e istruendo ciascuno con ogni sapienza,
per rendere ogni uomo perfetto in Cristo.
29Per questo mi affatico e lotto, con la forza che viene da lui e che agisce in me con potenza.

2 1Voglio infatti che sappiate quale dura lotta devo sostenere per voi, per quelli di Laodicea e per tutti quelli che non mi hanno mai visto di persona,
2perché i loro cuori vengano consolati.
E così, intimamente uniti nell’amore, essi siano arricchiti di una piena intelligenza per conoscere il mistero di Dio, che è Cristo: 3in lui sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della conoscenza.
4Dico questo perché nessuno vi inganni con argomenti seducenti: 5infatti, anche se sono lontano con il corpo, sono però tra voi con lo spirito e gioisco (cai,rw) vedendo la vostra condotta ordinata e la saldezza della vostra fede in Cristo.

La disposizione in cui vi ho messo il testo rivela chiaramente una struttura concentrica.
Notiamo come anche qui il termine Chiesa non si limita all’individuazione di una comunità locale ma ha senso universale ed è legata a Cristo. Nella seconda parte dell’inno (Col 1,18) abbiamo visto la sottolineatura del Signore qualificato come capo della Chiesa, qui invece l’accento è posto sulla Chiesa come corpo di Cristo, cosa meno rara nelle lettere paoline, perché avevamo già visto che la metafora del corpo applicata ai credenti era già stata usata nella Prima Lettera ai Corinzi e anche in quella ai Romani (per questo vi rimando alle sintesi degli incontri precedenti, perché questo argomento l’abbiamo già abbastanza sviscerato).

Ora invece vorrei affrontare questo tema della sofferenza, della fatica, della lotta dell’apostolo, che fra l’altro oltre che all’inizio, viene ripreso al centro della nostra struttura, al versetto 29 del capitolo primo leggiamo: “Per questo mi affatico e lotto, con la forza che viene da lui e che agisce in me con potenza.”

Paolo è sempre molto attento a non attribuire mai a sé la forza e la potenza, non è perché lui è bravo, senza macchia, senza paura che affronta tutto per loro, compreso il carcere, ma perché lui è interiormente rafforzato, sostenuto, stimolato dal suo rapporto con Cristo. E questo ci dice anche quanto sia essenziale nel nostro cammino di Lectio Divina crescere nella comunione con Cristo, che ovviamente poi ci permette di affrontare la missione di partecipazione al suo progetto di salvezza, al suo disegno, che non è solo per noi, ovviamente, ma per tutta l’umanità.
Ebbene, Paolo si affatica, lotta e dice:

“Voglio infatti che sappiate quale dura lotta devo sostenere per voi, per quelli di Laodicèa e per tutti quelli che non mi hanno mai visto di persona, tutti quelli che non mi hanno mai visto di persona.”

Mi colpisce il fatto che si prenda l’arbitrio di dire che sta soffrendo per loro che neanche lo conoscono, se non per sentito dire, ovviamente per la testimonianza di Epafra. Quando noi soffriamo tendiamo ad essere schiacciati dalla sofferenza, al più, dopo aver chiesto al Signore che ti aiuti a venirne fuori, magari anche con la preghiera degli altri, affidiamo tutto al Signore perché ne faccia qualcosa di buono. Ma questa consapevolezza forte dell’apostolo che lo porta a dire che loro beneficiano delle sue sofferenze colpisce.
Noi potremmo individuare le cause della carcerazione di Paolo a partire dall’invidia che ha suscitato nei suoi correligionari e in altri esponenti religiosi con il frutto della sua predicazione, o il timore di conseguenze nell’ordine pubblico, per le autorità romane. ma da questo a dire che soffre per i fedeli che neppure conosce di persona, ce ne passa.
Questo però vuol dire che Paolo riesce a fare un po’ come ha fatto Gesù, che nell’ultima cena ha preso in mano la sua vita e l’ha donata “per voi e per la vostra salvezza, per la nuova alleanza”, assumendo così in anticipo le conseguenze del rifiuto della sua missione che comportano la condanna e la morte violenta a prescindere dalle intenzioni di coloro che l’avrebbero causata materialmente il Venerdì Santo, e mutandone il significato cosicché la vita non gli è tolta ma è lui che la dona.
Assumere le proprie sofferenze e dare loro un senso è un esercizio di libertà e se non fosse che lo fa per primo il Signore Gesù, rasenterebbe la presunzione, invece, Paolo imitando il Signore ha scoperto che funziona e ce lo testimonia.
È per questo che ci interessa leggerlo anche se ci può sembrare arduo, perché noi della sofferenza nostra e di quella che ci viene dall’esperienza con le persone che amiamo, ne abbiamo già un bel bagaglio.
La possibilità alternativa, che la sofferenza che noi patiamo non sia solo un orrore, una cosa senza senso, del tutto inutile, vana e tragica, – anche se il male lo è -, è quella che sia dentro un progetto di amore in cui il nostro amore a Cristo ci mette in comunione con i fratelli, faccia sì che possiamo assumere tutto quello che nella nostra vita passa di dolore, di sofferenza, di solitudine e possa orientarlo per il bene loro. Questo è veramente un grande portato conoscitivo, se uno ne prende coscienza e comincia ad esercitarlo, cambia il modo di vivere.
Ricordate cosa dice San Pietro: “Stringendovi a Lui pietra viva, allora anche voi venite edificati.”
Le testimonianze degli apostoli su questo punto di vista in realtà convergono e testimoniano una modalità nuova di interpretare la vita.
Se voi pensate che Paolo sia uno che si sia inventato una religione e ce l’abbia spiattellata come un grande falsario, come scrisse Nietzsche e come sostengono anche molti scrittori contemporanei, oppure che sia tutta una grande illusione, allora tutta questa prospettiva viene a perdere il suo fondamento.
Ecco perché Paolo insiste e poi, come vedremo la prossima volta, mette in guardia i suoi lettori dalle deviazioni rispetto alla fede; a lui non interessa che noi abbiamo il pedigree di buoni cristiani, ma vuole che abbiamo un’esperienza viva di Cristo capace di trasformare il nostro modo di stare al mondo e di presentare una testimonianza credibile perché passa attraverso la nostra vita e perché intercetta e assume le fatiche, le difficoltà e i travagli che attraversano anche gli altri uomini e donne, i quali spesso da soli non sono nelle condizioni di ri-significarli e ri-orientarli.

Ora leggiamo qualche testo che ci può aiutare da questo punto di vista, in particolare sono andato a ripescare un testo di Giovanni Paolo II, pubblicato l’11 febbraio 1984, la “Salvifici doloris”:

“1. «Completo nella mia carne – dice l’apostolo Paolo spiegando il valore salvifico della sofferenza – quello che manca ai patimenti di Cristo, in favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1,24)”
Queste parole sembrano trovarsi al termine del lungo cammino che si snoda attraverso la sofferenza inserita nella storia dell’uomo ed illuminata dalla Parola di Dio. Esse hanno quasi il valore di una definitiva scoperta, che viene accompagnata dalla gioia; per questo l’Apostolo scrive: « Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi »(Col 1,24). La gioia proviene dalla scoperta del senso della sofferenza”

Qui Papa Giovanni Paolo II, che non mancava di esperienza personale nella sofferenza, secondo me fa un ulteriore passo avanti rispetto al testo di Paolo, perché il testo è molto centrato sulla dimensione dell’evangelizzazione e di quello che comporta questo grande impegno per Paolo, in termini di sofferenza; invece, il Papa coglie più profondamente la scoperta del senso stesso della sofferenza. Una domanda sempre riproposta nella storia di ciascuno di noi.

“ed una tale scoperta, anche se vi partecipa in modo personalissimo Paolo di Tarso che scrive queste parole, è al tempo stesso valida per gli altri. L’Apostolo comunica la propria scoperta e ne gioisce a motivo di tutti coloro che essa può aiutare – così come aiutò lui – a penetrare il senso salvifico della sofferenza.”

Al numero 24 della Salvifici doloris, dopo aver fatto un interessante excursus biblico sul tema che per limiti di spazio non riportiamo, il Santo Padre riprende:

“Tuttavia, le esperienze dell’Apostolo, partecipe delle sofferenze di Cristo, vanno ancora oltre. Nella Lettera ai Colossesi leggiamo le parole, che costituiscono quasi l’ultima tappa dell’itinerario spirituale in relazione alla sofferenza.”
“San Paolo scrive: «Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, in favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1,24). Ed egli in un’altra Lettera interroga i suoi destinatari: «Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo?» (1Cor 6,15).
Nel mistero pasquale Cristo ha dato inizio all’unione con l’uomo nella comunità della Chiesa. Il mistero della Chiesa si esprime in questo: che già all’atto del Battesimo, che configura a Cristo, e poi mediante il suo Sacrificio – sacramentalmente mediante l’Eucaristia – la Chiesa di continuo si edifica spiritualmente come corpo di Cristo. In questo corpo Cristo vuole essere unito con tutti gli uomini, ed in modo particolare egli è unito con coloro che soffrono. Le citate parole della Lettera ai Colossesi attestano l’eccezionale carattere di questa unione. Ecco, infatti, colui che soffre in unione con Cristo – come in unione con Cristo sopporta le sue «tribolazioni» l’apostolo Paolo – non solo attinge da Cristo quella forza, della quale si è parlato precedentemente, ma anche «completa» con la sua sofferenza «quello che manca ai patimenti di Cristo». In questo quadro evangelico è messa in risalto, in modo particolare, la verità sul carattere creativo della sofferenza.”

Questo è più facile quando soffriamo personalmente, ma diventa molto più difficile quando a soffrire è chi ci sta a cuore. È chiaro che quando qualcuno soffre bisogna cercare di fare come faceva il Signore Gesù, ovvero di dare cura e cercare di alleviare la sua sofferenza, di mettersi in gioco. Però certa sofferenza (Ahimè!) è ineludibile. Pensate a quando si è in presenza di una malattia e si cerca di rallentarla perché non si può fare altro o a quando si perdono persone care o si è alle prese con le varie tragedie che colpiscono il mondo, rispetto alle quali non si ha possibilità di poter intervenire per cambiarne il corso e proprio perché si percepisce la nostra impotenza si vorrebbe scappare, si vorrebbe avere la potenza per fare dei miracoli e far star bene le persone. Invece qui ci viene chiesto di andare su un altro. Il testo parla di un carattere creativo della sofferenza. Ora tenete conto che nessun pontefice e nessuna persona spirituale sana fa l’errore di stimolare un atteggiamento ‘doloristico’, cioè un’esaltazione della sofferenza come valore in sé, cosa che sarebbe assurda o patologica, totalmente contraria al Vangelo. La sofferenza uno la combatte in sé e negli altri e quando non può evitarla la assume, ma il Papa ci vede questa dimensione di carattere creativo e la spiega così:

“La sofferenza di Cristo ha creato il bene della redenzione del mondo.”

Il Papa ribadisce il dato centrale della fede cristiana per il quale la salvezza del mondo e la vittoria sul peccato, in una parola sola la redenzione è il frutto della passione e morte in croce di Gesù Cristo. È l’amore che fa vedere il bene. L’amore che affronta lo smacco del male, non smettendo di amare. Pensate alla pro-esistenza di Gesù: si dona e si continua a donare fino alla fine “avendo amato i suoi che erano nel mondo li amò fino alla fine”. E non li amò a parole, ma sulla croce. Patendo l’abbandono continuò a rimanere fedele al Padre e all’uomo. È lì che si realizza la salvezza. E il Padre partecipa nell’amore, nella speranza che il Figlio non scenda dalla croce, perché deve andare più a fondo di ogni dolore di ogni uomo, in modo che l’abbraccio tra il Padre e il Figlio possa raggiungere tutti. Noi lo vediamo esemplificato nella croce, nella quale il Signore viene bloccato in un abbraccio, ma in realtà in realtà è quasi come se la Trinità si aprisse, il grande teologo H.U. Von Balthasar ha scritto pagine di grande intensità parlando di diastasi della Trinità.
Per questo dobbiamo stringerci a Gesù, sempre e costantemente, perdete tutto ma non il Signore Gesù, perché Lui è con noi, vicino a noi, la sua kenosi è formidabile (cfr Fil 2,6-11 lo splendido inno dove il termine greco è tradotto con svuotamento della sua divinità) e la ragione è il suo amore, è questo che salva il mondo. Un amore che non è un gioco di potenza o di magia, il nostro Dio è un Dio che non gioca di potenza, la sua potenza è una potenza kenotica, attraverso l’amore, altrimenti ci schiaccerebbe. Noi spesso vorremmo che risolvere i problemi con la potenza: avendo la potenza fai felici tutti e non ti costa niente. E invece no. Non sei tu il “Super” ma scendi, ti fai prossimo, e lì l’amore semina già una resurrezione. Ecco la potenza creativa della sofferenza.

“Questo bene in sé stesso è inesauribile ed infinito. Nessun uomo può aggiungervi qualcosa. Allo stesso tempo, però, nel mistero della Chiesa come suo corpo, Cristo in un certo senso ha aperto la propria sofferenza redentiva ad ogni sofferenza dell’uomo”.

È come se la sofferenza di Cristo che ha valore redentivo ovvero fa circolare l’amore divino, essendo aperta, può essere connessa alle nostre sofferenze e renderle anch’esse circuito di amore e di salvezza per gli altri.

“In quanto l’uomo diventa partecipe delle sofferenze di Cristo- in qualsiasi luogo del mondo e tempo della storia- in tanto egli completa a suo modo quella sofferenza, mediante la quale Cristo ha operato la redenzione del mondo”.

È come se, grazie all’innesto, il suo dono circolasse dentro la nostra libertà e in tutto ciò che è correlato a noi, cioè il corpo, e, nello stesso tempo, l’innesto si fa comunicando a Lui le nostre lotte, le nostre sofferenze, i nostri patimenti. La forza di Paolo risiede proprio nel fatto che ci sta dicendo queste cose, e il Papa Giovanni Paolo II, che di esperienza di sofferenza ne ha fatta molta, ne fa un’esegesi profonda e le rende possibili alla nostra comprensione.

“Questo vuol dire, forse, che la Redenzione compiuta da Cristo non è completa? No. Questo significa solo che la redenzione, operata in forza dell’amore soddisfattorio, rimane costantemente aperta ad ogni amore che si esprime nell’umana sofferenza. In questa dimensione -nella dimensione dell’amore- la redenzione già compiuta fino in fondo, si compie, in un certo senso, costantemente. Cristo ha operato la redenzione completamente e sino alla fine; al tempo stesso, però, non l’ha chiusa: in questa sofferenza redentiva, mediante la quale si è operata la redenzione del mondo, Cristo si è aperto sin dall’inizio, e costantemente si apre, ad ogni umana sofferenza”.

Scopriamo che ciò che per noi è la cosa meno piacevole, meno auspicabile, racchiude dentro una possibilità di innesto, che ci fa partecipare nella nostra vita, qui e oggi, alla esperienza viva e all’azione risolutiva del cammino della storia che è stata la redenzione di Gesù Cristo. E la invera, la rende in qualche modo attiva, qui e oggi, insieme ai nostri compagni di viaggio.
“Sì, sembra far parte dell’essenza stessa della sofferenza redentiva di Cristo il fatto che essa richiede di essere incessantemente completata”.
Direi inverata dentro le singole esperienze.
“In questo modo, con una tale apertura ad ogni umana sofferenza, Cristo ha operato con la propria sofferenza la redenzione del mondo. Infatti, al tempo stesso, questa ritenzione, anche se compiuta in tutta la pienezza con la sofferenza di Cristo, vive e si sviluppa a suo modo nella storia dell’uomo. Vive e si sviluppa come corpo di Cristo, che è la Chiesa, ed in questa dimensione ogni umana sofferenza, in forza dell’unione nell’amore con Cristo, completa la sofferenza di Cristo. La completa così come la Chiesa completa l’opera redentrice di Cristo. Il mistero della Chiesa – di quel corpo che completa in sé anche il corpo crocifisso e risorto di Cristo – indica contemporaneamente quello spazio, nel quale le sofferenze umane completano le sofferenze di Cristo. Solo in questo raggio e in questa dimensione della Chiesa- corpo di Cristo, che continuamente si sviluppa nello spazio e nel tempo, si può pensare e parlare di “ciò che manca” ai patimenti di Cristo. L’apostolo del resto, lo mette chiaramente in rilievo, quando scrive del completamento di “quello che manca ai patimenti di Cristo, in favore del suo corpo che è la Chiesa”. Proprio la Chiesa, che attinge incessantemente alle infinite risorse della redenzione, introducendola nella vita dell’umanità, è la dimensione, nella quale la sofferenza redentrice di Cristo può essere costantemente completata dalla sofferenza dell’uomo. In ciò vien messa in risalto anche la natura divino-umana della Chiesa. La sofferenza sembra partecipare in un qualche modo alle caratteristiche di questa natura. E perciò essa ha pure un valore speciale davanti alla Chiesa. Essa è un bene, dinanzi al quale la Chiesa si inchina con venerazione, in tutta la profondità della sua fede nella redenzione. Si inchina, insieme, in tutta la profondità di quella fede, con la quale essa abbraccia in se stessa l’inesprimibile mistero del corpo di Cristo”.
Vi potrei esporre delle obiezioni molto semplici: quando ti trovi davanti una persona che sta soffrendo e non ha nessuna voglia di partecipare alla sofferenza di Cristo, pur essendo magari un cristiano? In realtà questa parte del Vangelo, questa dimensione così alta, così profonda e così scomoda, della partecipazione alla vita di Cristo, nella carne e nel sangue, è qualcosa a mio avviso, a cui, se ci riusciamo ad arrivare, ce la possiamo giocare in proprio al tempo opportuno, non ce la possono dare gli altri. Gli altri ci possono solo sostenere con lo stesso amore, comprendendo, accogliendo e confidando nella capacità del Signore di fare molto di più di quello di cui noi siamo consapevoli. Se riusciamo ad entrare, per grazia di Dio, in questo tipo di logica, capite che è qualcosa sul piano mistico – sostanziale, molto grande. Paolo può dire ai Colossesi che le sue sofferenze servono a loro, vi rendete conto se potessimo dirlo noi? Vuol dire che, di quelle sofferenze che mi toccano, posso decidere cosa farne, ovviamente sempre unendomi a Cristo, perché è Lui che agisce e non io. D’altra parte, posso credere anche per chi non crede. In questo modo, per quello che spetta a me faccio fluire l’azione della redenzione, della salvezza. È potentissimo. Noi dobbiamo sempre confrontarci, e non è facile, specialmente oggi che la sofferenza viene invece considerata come qualcosa di cui è meglio non parlare, di cui è meglio non ricercare il senso.

Papa Francesco, che riprenderà gli scritti di Papa Giovanni Paolo II, durante il Giubileo dei malati, nel contesto del Giubileo della Misericordia, il 12 Giugno 2016, dice:
”La felicità che ognuno desidera, d’altronde, può esprimersi in tanti modi e può essere raggiunta solo se siamo capaci di amare. Questa è la strada. È sempre una questione di amore, non c’è un’altra strada. La vera sfida è quella di chi ama di più. Quante persone disabili e sofferenti si riaprono alla vita appena scoprono di essere amate!”
È perché è stato amato e afferrato da Cristo che Paolo può vivere con una tale prospettiva, se non avesse vissuto l’Amore di Dio non ce l’avrebbe fatta. Non si può amare se non si è amati.

“E quanto amore può sgorgare da un cuore anche solo per un sorriso! La terapia del sorriso. Allora la fragilità stessa può diventare conforto e sostegno alla nostra solitudine”.
Qualcuno che sperimenta molta solitudine potrebbe dire che è proprio vero, perché basta poco, un messaggino, un’attenzione e tutto cambia.
“Gesù, nella sua passione, ci ha amato sino alla fine (cfr Gv13,1); sulla croce ha rivelato l’Amore che si dona senza limiti. Che cosa potremmo rimproverare a Dio per le nostre infermità e sofferenze che non sia già impresso sul volto del Figlio crocifisso? Al suo dolore fisico si aggiungono la derisione, l’emarginazione e il compatimento, mentre Egli risponde con la misericordia che tutti accoglie e tutti perdona: ”per le sue piaghe siamo stati guariti” (Is 53,5 ; 1Pt 2,24). Gesù è il medico che guarisce con la medicina dell’amore, perché prende su di sé la nostra sofferenza e la redime. Noi sappiamo che Dio sa comprendere le nostre infermità, perché Lui stesso le ha provate in prima persona (cfr Eb 4,15)”.
Ci sono dei momenti in cui tutto questo non funziona per niente, oggi stiamo esaminando gli elementi performanti, di alta qualità, come quando il Signore pronuncia il Discorso della Montagna ai discepoli e si spinge al massimo. Poi possiamo trovarci in momenti in cui siamo addirittura arrabbiati anche con Dio: anche in questo caso abbiamo La Scrittura nella quale c’è il modo di esprimere la rabbia (pensiamo al libro di Giobbe o ai salmi imprecatori). Questa consideriamo la prospettiva massimalista, Vangelo puro.
“Il modo in cui viviamo la malattia e la disabilità è indice dell’amore che siamo disposti a offrire.
Il modo in cui affrontiamo la sofferenza e il limite, è criterio della nostra libertà di dare senso alle esperienze della vita, anche quando ci appaiono assurde e non meritate”.
Papa Francesco parla molto semplice e chiaro ma va proprio al cuore del messaggio. Capite quale altro genere di libertà ci propone il Vangelo al posto di tutta la grande idolatria della libertà, tipica del periodo che stiamo vivendo? La libertà di offrire.
“Non lasciamoci turbare, pertanto, da queste tribolazioni (cfr 1 Ts 3,3). Sappiamo che nella debolezza possiamo diventare forti (cfr 2 Cor 12,10), e ricevere la grazia di completare ciò che manca in noi delle sofferenze di Cristo, a favore della Chiesa suo corpo (cfr Col 1,24); un corpo che, ad immagine di quello del Signore risorto, conserva le piaghe, segno della dura lotta, ma sono piaghe trasfigurate per sempre dall’amore. Proprio la sua compassione per loro e le numerose guarigioni che opera sono presentate come Il segno che “Dio ha visitato il suo popolo” (Lc 7,16) e che il Regno dei cieli è vicino (cfr Lc 10,9): esse rivelano la sua identità divina, la sua missione messianica (cfr Lc 7,20-23) e il suo amore per i deboli fino a identificarsi con loro, quando dice: ”Ero malato e mi avete visitato” (Mt 25,36). Il culmine di tale identificazione avviene nella Passione, così che la Croce di Cristo diventa il segno per eccellenza della solidarietà di Dio con noi e, nello stesso tempo, la possibilità per noi di unirci a Lui nell’opera salvifica (cfr Col 1,24).
Ecco, qui apre questa possibilità, questo innesto.
“Anche dopo la Resurrezione, quando il Signore affida ai discepoli il mandato di continuare la sua opera, dice loro di curare i malati, imponendo le mani su di essi e benedicendoli nel suo nome (cfr Mc 16,15-18).”
Quindi vedete che la prassi è quella evangelica, non è quella di dire “meno male che sei malato così partecipi alla sofferenza di Cristo”. No. Io quando sono malato so che posso unirmi alla sofferenza di Cristo, e questo non mi impedirà di cercare di guarire.

Papa Francesco ai membri della Pontificia Commissione Biblica, che avevano redatto un testo sulla sofferenza, il 20 Aprile 2023 dice:
”(…) una preoccupazione ho particolarmente a cuore, e cioè che la malattia e la finitudine nel pensiero moderno vengono spesso considerate come una perdita, un non-valore, un fastidio che bisogna minimizzare, contrastare e annullare ad ogni costo”.
Quando il dolore è troppo si afferma il diritto a sopprimere la vita.
“Non ci si vuole porre la domanda sul loro significato, forse perché se ne temono le implicazioni morali ed esistenziali. Eppure nessuno può sottrarsi alla ricerca di tale “perché” (cfr S.Giovanni Paolo II, Lett. Ap. Salvifici doloris, 9).
Quanto segue ci riguarda, è stato sottolineato apposta. Scusate se oggi leggo molto, però dopo la mia introduzione questi documenti riprendono, da varie angolature, concetti già espressi, ma trattandosi di “cibo super-solido” occorre ruminarlo perché possa essere assimilato.
“Anche il credente talvolta può vacillare di fronte all’esperienza del dolore”.
Ti senti impotente, non lo vorresti, né per coloro che ami né per coloro che ti stanno indifferenti.
“E’ una realtà che fa paura e che, quando irrompe e assale, può lasciare l’uomo sconvolto, fino ad incrinare la fede. La persona allora è posta di fronte a un bivio: può permettere alla sofferenza di portarla al ripiegamento su di sé, fino alla disperazione e alla ribellione; oppure può accoglierla come un’occasione di crescita e di discernimento su ciò che nella vita conta veramente, fino all’incontro con Dio”.
Una persona, che ha perso la figlia, mi dice: “Pur nel dolore costante, non posso non riconoscere che questa esperienza ha trasformato completamente il mio modo di percepire ciò che è importante e ciò che non lo è. Ha trasformato il mio modo di intendere la vita”. Abbiamo bisogno di esempi concreti che lo testimonino. Questa dimensione è quella di cui ci sta parlando il Papa: subisci la sofferenza, ma scegli di attaccarti a Dio, poi quando non ce la fai da solo chiedi aiuto agli altri, chiedi che ti tengano stretto. Poi, mano a mano, riesci a sopravvivere a questo tipo di esperienza, o a superarla in certi casi, e ne vedi il frutto in funzione di come lo hai interpretato. Ti ha permesso, ad esempio, di conoscere che non eri solo, perché altri ti sono stati vicino. Sottolineo inoltre “fino all’incontro con Dio”: altra cosa che non dobbiamo mai dimenticare! Siamo qui di passaggio!

“Quest’ultima è la visione di fede che troviamo nella Sacra Scrittura.
L’uomo dell’Antico Testamento vive la malattia con il pensiero costantemente rivolto a Dio: si affida a Lui nei momenti delle lacrime (cfr Sal 38), da Lui implora la guarigione nell’infermità (cfr Sal6,3; Is 38) e a Lui spesso ritorna, nei momenti di prova, con moti di conversione (cfr Sal 38,5.12; 39,9; Is 53;11). Nel Nuovo Testamento irrompe l’evento Gesù (cfr Gv3,16): il Figlio che rivela l’amore del Padre, la sua misericordia, il suo perdono e la sua ricerca costante dell’uomo peccatore, smarrito e ferito. Non a caso l’attività pubblica del Cristo è segnata in gran parte proprio dal contatto coi malati. Le guarigioni miracolose sono una delle caratteristiche principali del suo ministero (cfr Mt9,35;4,23): risana i lebbrosi e i paralitici (cfr Mt8,5-15); libera gli indemoniati e cura tutti i malati che si affidano a Lui (cfr Mc6,56). Proprio la sua compassione per loro e le numerose guarigioni che opera sono presentate come il segno che “Dio ha visitato il suo popolo” (Lc7,16) e che il Regno dei cieli è vicino (cfr Lc10,9): esse rivelano la sua identità divina, la sua missione messianica (cfr Lc7,20-23) e il suo amore per i deboli fino a identificarsi con loro, quando dice: ”Ero malato e mi avete visitato” (cfr Mt25,36). Il culmine di tale identificazione avviene nella Passione, così che la Croce diventa il segno per eccellenza della solidarietà di Dio con noi, e, nello stesso tempo, la possibilità per noi di unirci a Lui nell’opera salvifica (cfrCol1,24)”

Vedete l’innesto.
”Anche dopo la Resurrezione, quando il Signore affida ai discepoli il mandato di continuare la sua opera, dice loro di curare i malati, imponendo le mani su di essi e benedicendoli nel suo nome (cfr Mc16,15-18).
La Bibbia non offre così una risposta banale e utopica alla domanda sulla malattia e sulla morte, né una risposta fatalistica, che giustifichi tutto attribuendolo ad un incomprensibile giudizio divino, o peggio a un destino inesorabile davanti al quale non resta che piegarsi senza comprendere. L’uomo biblico si sente piuttosto invitato ad affrontare la condizione universale del dolore come luogo di incontro con la vicinanza e la compassione di Dio, Padre buono, che con infinita misericordia si fa carico delle sue creature ferite per curarle, risollevarle e salvarle. Così in Cristo anche il patire si trasforma in amore e la fine delle cose di questo mondo diventa speranza di risurrezione e di salvezza, come ci ricorda l’autore del libro dell’Apocalisse (cfr Ap21,4). In sostanza per il cristiano anche l’infermità è un dono grande di comunione, con cui Dio lo rende partecipe della sua pienezza di bene proprio attraverso l’esperienza della sua debolezza.”
Queste parole sono più grandi di noi, però Papa Francesco le ha vissute: nella malattia non è venuta meno la sua voglia di vivere e di lottare, ma, nello stesso tempo, di offrire, e di essere per la gente. Quindi questi testi sono carichi di autorevolezza e li vogliamo proporre senza sconti.
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Leggiamo un ultimo brano, È talmente bello! In questi giorni di Pasqua sono stato spesso accompagnato da una bella immagine: il senso dello scorrere di tutta l’umanità, nel tempo, verso il Signore della storia, un grande pellegrinaggio, e poi la percezione forte del fatto di essere come in una carovana di questo grande pellegrinaggio, con tutte le persone che conosco e che condividono il cammino con me. La cosa bella è il fatto che tutto trova il suo giusto orientamento, la forma giusta, nella Chiesa, come luogo che permette, tutti insieme, tenendoci stretti e sostenendoci, di andare nella direzione del Signore. Dopo queste riflessioni ho trovato questo bellissimo testo che adesso leggo:
“La Chiesa è fondata, inviata, congedata a partire dalla Pasqua. Ma essa conserva nel suo centro il venerdì santo e il sabato santo, dove la forma umana e la visibilità di Dio viene svuotata, spenta, sepolta. Una chiesa che porta nel suo cuore questo mistero può essere soltanto “tenda” di un popolo pellegrinante, una tenda che di continuo si ripiega, per essere piantata altrove. “Egli che abita nel mistero la casa più alta, ha sulla terra una tenda, la chiesa… Molte cose io ammiro in questa tenda: gli uomini credenti sono la tenda terrena di Dio. E mentre uno ammira in loro l’obbediente docilità delle membra, arriva per ciò stesso alla casa di Dio. Egli persegue una dolcezza, un piacere nascosto, interiore e indescrivibile, come se dalla casa di Dio giungesse il dolce suono di un organo…. Accordi di una festa eterna in cui c’è il volto di Dio, c’è la gioia senza fine. Di una festa mai cominciata, a cui non è posto alcun termine. Da essa risuona qualcosa di dolce alle orecchie dell’anima, se il mondo non lo soffoca…. e il cervo corre alla sorgente delle acque”. Non sono le strutture che risuonano, è già molto quando si pensa ad esse come ai tasti dello strumento da cui si sprigionano le struggenti melodie; ma le strutture hanno una loro interiorità: le discrete assemblee festive della chiesa, alludono a una festa tutta diversa, il convito frugale del pane e del vino a un banchetto inebriante, nuovo nel regno del Padre mio. Perciò può accadere talvolta che le compagini delle istituzioni temporali si allentino; esse sono veramente temporali, il tempo le divora e le logora, molte cose arrugginiscono, marciscono, devono essere sostituite”
Questo testo mi sembra di una tale bellezza, di una grande prospettiva! Rispecchia in pieno quella immagine della carovana e il valore della ‘tenda’ di cui voi siete abitanti in cammino.
Come pellegrini di Speranza ci rivolgiamo da figli, assumendo tutte le prove e le sofferenze personali, ma anche quelle di tutti coloro che ci sono affidati, e anche quel traguardo alla festa eterna che persone come Aldo, persona giovane ai più di noi sconosciuto, che il Signore ha chiamato a sé oggi, o come Papa Francesco che ha chiamato in questi giorni, con tutto il loro portato di storia e anche di dramma, possano finalmente gustare senza più mediazioni.
“Padre nostro … Amen”

Trascrizione a cura di Gaia Francesca Iandelli, Obl.OSB

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