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«Le cose grandi finiscono, sono quelle piccole che durano». Le omelie del padre abate Bernardo per la notte di Natale e per il primo giorno dell’anno assieme alla meditazione proposta la sera prima al «Te Deum» e ispirata ad un testo del regista russo Andrej Tarkovskij (1932-1986)

 

25 dicembre 2024 – Natale del Signore –

Messa della Notte – Solennità –

Prima lettura

Dal del profeta Isaia (Is 9, 1-3. 5-6)

Il popolo che camminava nelle tenebre
ha visto una grande luce;
su coloro che abitavano in terra tenebrosa
una luce rifulse.
Hai moltiplicato la gioia,
hai aumentato la letizia.
Gioiscono davanti a te
come si gioisce quando si miete
e come si esulta quando si divide la preda.
Perché tu hai spezzato il giogo che l’opprimeva,
la sbarra sulle sue spalle,
e il bastone del suo aguzzino,
come nel giorno di Màdian.
Perché ogni calzatura di soldato che marciava rimbombando
e ogni mantello intriso di sangue
saranno bruciati, dati in pasto al fuoco.
Perché un bambino è nato per noi,
ci è stato dato un figlio.
Sulle sue spalle è il potere
e il suo nome sarà:
Consigliere mirabile, Dio potente,
Padre per sempre, Principe della pace.
Grande sarà il suo potere
e la pace non avrà fine
sul trono di Davide e sul suo regno,
che egli viene a consolidare e rafforzare
con il diritto e la giustizia, ora e per sempre.
Questo farà lo zelo del Signore degli eserciti.

Seconda lettura

Dalla lettera di san Paolo Apostolo a Tito (Tt 2, 11-14)

Figlio mio, è apparsa la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini e ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo.
Egli ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formare per sé un popolo puro che gli appartenga, pieno di zelo per le opere buone.

Vangelo

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 2, 1-14)

In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria. Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città.
Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta.
Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio.
C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande timore, ma l’angelo disse loro: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia».
E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva:
«Gloria a Dio nel più alto dei cieli
e sulla terra pace agli uomini, che egli ama».

 

OMELIA

 

Cari fratelli e sorelle, fidandovi di una energia apparentemente a ritroso, quasi nostalgica, perché a questa celebrazione della notte venivate, venivamo, con i nostri genitori, con i nostri nonni, le nostre nonne, e i nostri genitori venivano con i nostri bisnonni, le nostre bisnonne e così risalendo, di generazione in generazione, quasi per tutti noi davvero così, fidandovi di questa energia a ritroso, che vi ha condotto fino alla contemplazione di uno spettacolo accaduto duemila anni fa e che si fa presente anche nelle nostre case, attraverso la rappresentazione dei nostri presepi, in realtà ciascuno di noi, stanotte, si affaccia sul futuro. Ed è molto importante intuire questo straordinario capovolgimento della normale scansione dei minuti che fuori di qui, effettivamente, si aggiungono l’uno all’altro con un meccanismo inesorabile che, in forza della quantità, ci distanzia dal passato e consumandoci, ticchettio dopo ticchettio dei meccanismi che ancora resistono in qualche raro orologio meccanico, logorano anche i nostri corpi, la nostra sensorialità, la nostra intuizione e tutto quello che ci fa essere semplicemente umani. Ma qui dentro non accade così, cari fratelli e sorelle, i tempi, i minuti, le scansioni, i ritmi, addirittura la spazialità della dinamica liturgica che si svolge in questo perimetro misterioso offre a tutti noi la capacità di essere nello stesso tempo attratti dal passato e nello stesso tempo orientati, addirittura raggiunti da un futuro che si schiude alla nostra sete e fame di speranza, di verità, di bellezza e di bontà. E dunque, cari fratelli e sorelle, questa parola che stanotte risuona e che risuona nei vostri cuori grazie a questa vostra istintiva fiducia, che è il frutto di una nobilissima tradizione di generazione in generazione, vi ha fatto ascoltare questa buona novella del Natale: “Maria diede alla luce il suo figlio primogenito”, e allora la grande domanda stanotte è questa: chi è il secondogenito? Chi è il terzogenito? Chi è il quartogenito? Chi è il quintogenito? Cari fratelli e sorelle, siamo noi, siamo noi coloro che, di generazione in generazione, fidandoci di questa energia apparentemente a ritroso, sbocciamo verso il futuro, nella consapevolezza liberante di essere fratelli e sorelle del Signore Gesù, essere membra vive di questa famiglia che cresce per un incremento misterioso non di quantità, ma di una qualità che è inscritta dalla forza dell’amore del Padre che ci dona questo figlio perché diventi il nostro fratello, la forza di un amore generativo nei nostri cuori e che, più teologicamente, chiamiamo Spirito Santo, da intendersi come un soffio, lo stesso soffio che ha posto in essere la nostra umanità, quando quel respiro ha attraversato la materia fangosa di cui è fatto il nostro essere Adamo; ma questo soffio, cari fratelli e sorelle, non si è fermato allora, il Padre è amore inesausto e altro non cerca se non questa nostra consistenza argillosa, per soffiarci dentro un’energia invisibile, ma reale, che è l’invisibile energia dello Spirito che, in quanto amore,  è capace di accorciare ogni distanza nello spazio e nel tempo: un accorciamento, lo chiamerei così, che è esattamente la sensazione che stiamo vivendo e che spero viviate: essere raggiunti da una energia a ritroso che, come una calamita, come un magnete, ricongiunge la nostra dispersa e dissipata umanità al suo punto sorgivo, alla sua origine, al suo ;arcÔ, per dirla in greco, al principio. Cari fratelli e sorelle, è estremamente importante, credo, molto più di qualsiasi altro accadimento, essere consapevoli di cosa ci sta accadendo qui dentro, a meno che non vogliamo omogenizzare lo spazio, non del sacro, perché qui non siamo nello spazio di una presunta sacralità, confinata attraverso siepi che distinguono, che separano, che allontanano, che marcano delle differenze, che salutano delle elezioni: nulla di tutto questo! Qui siamo nello spazio del mistero, e sinonimo di mistero è amore, sinonimo di amore è comunione, sinonimo di comunione è esattamente questa contrazione delle distanze, perché attraverso l’unità generata dall’amore, ognuno di noi si senta fratello, sorella di Cristo e come tale, avvicinato da questa forza adottiva e inesausta del Padre, cari fratelli e sorelle, che stanotte ha la grande gioia di incontrare i vostri corpi obbedienti a questa disciplina che la liturgia ci ha fatto vivere, anzitutto sottoponendoci a questa sorta di pulsante monodia del canto gregoriano, che abbiamo cantato come abbiamo cantato (abbiate pazienza, davvero siamo molto stanchi, per questo ho tanto bisogno di un certo silenzio che mi permetta di tenere in mano questo filo esile fra le mie mani), ma questo canto, nella sua radicale monodia, ci ha permesso, cari fratelli e sorelle, ancora una volta, di scoprire che, al di là delle articolazioni melodiche, ritmiche, che fanno parte di questo sottofondo sonoro che altrove è il brusio necessario per distanziarci dal vuoto e dall’abisso che ci fanno paura, qui invece questa monodia ha disciplinato i nostri cuori, li ha ricondotti non alla omogenizzazione che altrove è l’altra faccia della medaglia della dissipazione; questa monodia, cari fratelli e sorelle, con la sua pulsazione regolare ha restituito alle nostre plurali corporeità la percezione di poter e dover ritornare, obbedendo a quest’onda regolare nella sua unica e semplicissima melodia, alla sorgente, all’origine, all’armonia di ogni armonia. E abbiamo estremo bisogno, cari fratelli e sorelle, innanzitutto un bisogno sensoriale, istintivo, corporeo, prima ancora di ragionare e chiedere pace, qui e altrove, abbiamo bisogno di essere, noi per primi, raggiunti da quell’esperienza di pace che stanotte fa sbocciare il sole dalla terra, perché è questo il Natale, cari fratelli e sorelle! Se altrove abbiamo la chiara sensazione che l’entropia delle nostre risorse umane, quelle affettive, quelle emozionali, quelle del desiderio, esposta alla consunzione di meccanismi funzionalistici e utilitaristici, ci dà la sensazione che la storia sia sempre più somigliante a un buco nero che risucchia in un angosciante futuro le nostre energie e da nessuna parte possiamo aggrapparci, tanto questa forza oscura sembra catturarci e dissolverci, qui no! Qui sboccia il sole dalla terra e sboccia con calma, con armonia, educandoci alla disciplina dell’ascolto, della visione, una disciplina credibile, cari fratelli e sorelle, perché a parlarvi non è un abate che ha dormito poco e come tale ha bisogno, per tenersi sveglio, di urlare, qui ci parla un bambino, la nostra umanità dentro la quale abita l’infinito dell’amore del Padre, abita il nuovo Adamo, abita il futuro di ciascuno di noi! Per questo è molto importante una sensazione quasi da mal di mare, che vorrei generare prima dei grandi e doverosi banchetti di domani, sospinti come siamo da questa strana sollecitazione, l’energia a ritroso, obbedendo alla tradizione, e nello stesso tempo iniziare ad intuire – e questo grande cantiere ci dà una mano, stanotte – che qui si fabbrica il futuro della nostra condizione umana, ma non quello risucchiato da un futuribile angosciante che, in forza di una tecnologia sempre più indisponente e sempre più capace di ottenere deleghe su deleghe, fino a farci diventare transumani, postumani, con intelligenze più o meno artificiali, che sono l’altro modo per negare la nostra stupidità naturale! Noi invece, affacciandoci davanti a questo infante, sentiamo che il futuro è bellissimo, perché ha il volto arreso, colmo di stupore di un bambino che ci sorride, cari fratelli e sorelle, nella grande speranza che ci si scopra tutti, a qualsiasi età abbiamo, qualsiasi storia, cultura, sensibilità: noi stanotte scopriamo di essere fratelli e sorelle di questo bambino, il primogenito di tutti noi, ma subito dopo veniamo noi, con le nostre storie, i nostri fallimenti, ma anche le nostre speranze, le relazioni rotte, scucite, ma, nello stesso tempo, la grazia di sentire quello che accadde quella notte: l’umiltà di Gesù che nasce, cari fratelli e sorelle, (come qualche padre della Chiesa ha il coraggio di dire) non solo nella paglia, nel fango, ma anche nello sterco proprio della stalla dove è nato, perché per Lui, per loro non c’era alloggio. E la cosa bellissima (l’avrete ascoltata) che la luce della gloria di Dio pervade i pastori: su di Lui l’umiltà, la penombra di quella tettoia, sporca e maleodorante, sui pastori, che siamo noi stanotte, voi, meravigliosamente vigilanti, come loro duemila anni fa a guardia del loro gregge, voi vigilanti perché siete a guardia dei vostri desideri, delle vostre speranze, del vostro futuro! Lode e gloria, o Signore, per la vostra presenza, pastori vigilanti di guardia del vostro futuro, perché niente e nessuno ci metta le mani sul vostro futuro! E dunque la gloria scende su di voi, fratelli e sorelle di questo Cristo, il quale sta in penombra, cari fratelli e sorelle, perché è la altezza vertiginosa di un magistero che non si impone, ma che si lascia scoprire e decifrare, come è il proprio di quei segni che l’amore di Dio lascia dunque la sua straordinaria e inesausta storia di salvezza, un segno quasi banale: un bambino deposto nella mangiatoia! Eppure quante cose ci può dire un bambino che nasce! Evento sempre più raro, chiusi come siamo nella dittatura di questo incerto presente; allora la grande scuola, stanotte, di futuro è questa capacità di continuare a sorprenderci, fidandoci della vita, perché è lì che abita l’infinito divino, è lì che scaturisce la possibilità di sentire ciascuno di noi fratelle e sorelle di questo Cristo, e come tali risucchiati non dalle forze oscure dei buchi neri, ma da questa energia adottiva che, facendoci risalire alla sorgente di ogni sorgente, con la credibilità affettuosa, gentile, tenera, responsabilizzante, pacificante, illuminante dell’amore, ci riscaraventa per le vie della storia, come dobbiamo essere, perché questo mondo qui fuori, cari fratelle e sorelle, attende il futuro che stanotte voi contemplate, attende di aggregarsi a questa nostra famiglia, fatta di fratelli e sorelle, perché secondogeniti, terzogeniti di questo straordinario fratello che il Padre ci ha donato, per riscoprire noi stessi, per non dimenticare da dove siamo iniziati e, nello stesso tempo, per imparare ad amare e a sentire altrettanto amico, nonostante le orrende distorsioni di cui siamo capaci, il futuro che il suo amore prepara per noi! Amen!

 

Mercoledì  1  gennaio  2025  

Maria Santissima Madre di Dio – Solennità (anno C)

Messa del mattino

Prima lettura

Dal libro dei Numeri (Nm 6,22-27)

Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla ad Aronne e ai suoi figli dicendo: “Così benedirete gli Israeliti: direte loro:
Ti benedica il Signore
e ti custodisca.
Il Signore faccia risplendere per te il suo volto
e ti faccia grazia.
Il Signore rivolga a te il suo volto
e ti conceda pace”.
Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò»

Seconda lettura

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Gàlati (Gal 4,4-7)

Fratelli, quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli.
E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: «Abbà! Padre!».
Quindi non sei più schiavo, ma figlio e, se figlio, sei anche erede per grazia di Dio.

Vangelo

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 2, 16-21)

In quel tempo, [i pastori] andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro.
Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore.
I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro.
Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo.

OMELIA

Cari fratelli e sorelle, per noi davvero il presepe è una straordinaria conchiglia, simbolo di fecondità, di generosità, ma anche di resistenza, sotto le pressioni abissali di un oceano che, con i suoi sommovimenti oscuri, tanto assomiglia alla nostra storia; ma una mano misteriosa, tutta luce, tutta grazia, ha fatto emergere questa conchiglia e la lascia accostare al nostro cuore, perché l’infinito del mare risuoni nel nostro cuore, risvegliando in tutti noi la consapevolezza di una appartenenza all’infinito, di una parentela con l’infinito, di una origine dall’infinito, di un impasto con l’infinito. E questa conchiglia è davvero il nostro presepe, questa esperienza di coesione, obbediente alla Parola che l’amore del Padre ha fatto germogliare dalla terra e che ha trovato l’attenzione, l’ascolto, la vigilanza di pastori al cui passo sollecito e credente noi continuiamo, in questi giorni santi di Natale, a mescolare i nostri passi, il nostro stupore, la nostra obbedienza, la nostra meraviglia, lasciando che il riverbero che si libera e si sprigiona dalla conchiglia-presepe di questi giorni, penetri nel profondo del nostro cuore, non resti un suono di superficie, ma abbia la possibilità di scendere nell’abisso del nostro cuore, troppe volte tentato di pensare che il suo unico orizzonte sia, come scriveva San Girolamo in una sua splendida omelia, questa sorta di fondale limaccioso nel quale noi crediamo sia destinata per sempre la nostra esistenza. Ma noi, cari fratelli e sorelle, siamo qui perché “siamo stati incontrati”, vorrei usare, con un errore di sintassi e di grammatica, questo nostro verbo, “siamo stati incontrati” dal volto di pescatori di uomini che hanno raccolto la nostra esistenza da quel destino inchiodato in quel fondale limaccioso, trascinandoci in superficie, facendoci godere dell’aria buona che possiamo respirare, dell’alternanza del giorno e della notte, della luce e delle tenebre, lasciandoci sperimentare, col dono della parola e dell’ascolto, non quel suono sordo che soltanto raffinati sonar sanno misurare e intercettare, ma liberandoci (sempre per usare le immagini di San Girolamo) in una relazione fatta di una Parola che finalmente può librare fra i nostri cuori, prendere il volo, essere destinata, liberandosi attraverso la vastità del cielo, al cielo del nostro cuore, col suo timbro, il suo suono, la sua libertà, possibilmente la sua verità e autenticità. E noi sentiamo che questa è l’avventura bella, certamente difficile e rischiosa dell’esistenza, che si voleva quasi trattenere in questo grembo umido e bagnato di un fondale uterino, nel quale essere nutriti meccanicamente da un cordone ombelicale, che assicurava a questa nostra esistenza, certamente psicologica, ma soprattutto fisiologica, tutta quella garanzia di sopravvivenza, che non abbiamo, avventurandoci nei liberi sentieri della terra asciutta, dove già ci aveva collocato il Creatore, contraendo le masse acquee per liberare, così, una terra asciutta dove si svolgesse la nostra storia, secondo il racconto di Genesi. Ma noi abbiamo continuato a preferire tutto quello che ci riportava ad una condizione di autoprotezione, di autotutela, a questa sorta di grembo permanente, a questa  sorta di situazione prenatale, dalla quale, cari fratelli e sorelle, ci hanno tirato fuori pescatori di libertà, a loro volta liberati dal volto e  all’incontro col Signore Gesù. Ma, cari fratelli e sorelle, oggi l’amore del Padre celeste accosta, come già detto, al nostro cuore una conca, dove risuona questa melodia dell’infinito, un infinito che per noi ha un grandissimo significato, non esclusivamente psicologico, meno ancora esclusivamente acustico, per chissà quale prodigio del calcare che in quella sorta di forma ciclica produce quella melodia,  accostando le conchiglie al nostro orecchio. Noi oggi siamo convocati per ascoltare questa melodia dell’infinito che si sprigiona dal grembo umanissimo e, nello stesso tempo, fecondo e verginale della gran Madre di Dio e gran Madre nostra. Ed è bellissimo che possiamo iniziare l’anno sentendo che quel grembo è, nello stesso tempo, protezione e liberazione, memoria dell’infinito, ma anche espressione liberante e responsabilizzante dell’infinito che è affidato alle nostre mani, alle nostre scelte, alle nostre responsabilità, alla nostra creatività, quasi prolungando nella nostra storia questo presepe-conchiglia, purché non diventi un rifugio dentro il quale rinchiuderci per deresponsabilizzare i nostri cuori e la nostra intelligenza. Una conchiglia che vorrei fosse una sorta di perenne presepe, come è tuttora in uso nelle chiese domenicane, perché la nostra umanità si ricordi da dove riceve l’amore, da dove riceve la libertà, da dove riceve l’ispirazione, da dove riceve la bellezza, non da un’idea, non da un concetto, meno ancora da un’ideologia, ma dal volto di Cristo, il volto di Cristo. La conchiglia sprigiona il volto di Cristo, l’infinito della conchiglia, cari fratelli e sorelle, non è un generico sibilo, ma è, volta a volta, il gemito, il giubilo del volto di Cristo, che si rallegra con la nostra amicizia che gli offriamo, che si duole del nostro tradirlo, dimenticarlo, accantonarlo, che si compiace se tutta la nostra esistenza diventa la conchiglia in grado di fare della nostra adesione a Cristo, e dunque della figliolanza che Lui ci dona, con la forza di quello stesso Spirito che ha trasformato il corpo di Maria nel tabernacolo vivente della vivente alleanza, la nostra interiorità, che potrà diventare la perla segreta che svela anzitutto a noi stessi e poi a coloro che incontriamo, la ricchezza che ancora è, nonostante tutto, la condizione umana. Non ci stanchiamo, cari fratelli e sorelle, in un momento così difficile, di trasformare l’inizio dell’anno, non tanto e non solo in un generico scambio di auguri e di auspici, che, fondamentalmente, altra consistenza non possono avere – già lo diceva Leopardi – che l’illusione che il passaggio di qualità dell’anno che inizia possa apportarvi, nessuno sa come e perché, una qualche ulteriore diversa qualità che l’anno scorso non aveva. Non è questa la consistenza dei nostri auspici, cari fratelli e sorelle, la nostra consistenza è questo nucleo solido, adamantino e luminoso, che è la perla deposta nell’intimo del nostro cuore, perché anche le nostre fragili corporeità diventino, oltre che presepe, lo spazio, di una fecondità di novità, di speranza, di beatitudine, di bellezza, di amore, di libertà, di responsabilità: le parole non possono che essere quelle ripetute ennesime volte, perché danno la misura del nostro augurio, fondato e generato dallo Spirito che imperla di luce la nostra fangosa e argillosa umanità, certamente per grazia, non per merito, ed è da lì che si ricava la ragione dello stupore e della meraviglia che riguarda e coinvolge, cari fratelli e sorelle (Luca, oggi, ce lo fa ricordare ancora una volta), non la sapienza dei magi (l’avremmo potuta anche comprendere), non il potere dei dominatori del suo e del nostro tempo, che sono anzi scartati ed evitati dal grande processo auto-comunicativo dell’Incarnazione dell’amore del Padre celeste in Cristo Gesù, ma sono i pastori, gli ultimi, i più semplici, cari fratelli e sorelle: ci riconosciamo la nostra umanità nella sua dimensione oggi, certamente, generalmente, socialmente e culturalmente educata, elevata, ma nel fondo, cari fratelli e sorelle, cosa noi abbiamo o non abbiamo per sentirci troppo diversi da quei pastori, nella loro immagine di persone che altro non hanno se non quel gregge per cui vegliare di notte? A dimostrazione di una essenzialità alla quale si rivolge l’essenzialità dell’amore di Dio. Io non voglio dare interpretazioni sociologiche alla categoria dei pastori, non mi piace troppo la Chiesa quando si rivolge soltanto a categorie sociologiche, la Chiesa ha un annuncio di salvezza, di liberazione per tutti, ricchi e poveri, e non lo dico perché siamo in una zona bene, di San Miniato, lo dico perché questo Vangelo parla alla povertà del nostro tempo, a questa umanità disfatta nella sua consistenza, nei suoi slanci, nei suoi ideali, nelle sue speranze e, se muore questa umanità qui, nonostante la bellezza che ci circonda, allora veramente abbiamo perso la speranza per il futuro. E noi che, in vece, intrecciamo i nostri presepi, la nostra conchiglia a questa bellezza qui, eccome se dobbiamo e possiamo diventare i pescatori di uomini e donne, sul mare della storia, su cui ci slancia il vento dello spirito per raccogliere di tutto: i disgraziati migranti anzitutto, (morti ne sono giusto poche ore fa in un’ennesima tragedia del mare, alla quale non possiamo e non dobbiamo mai abituarci), ma nello stesso tempo, cari fratelli e sorelle, ci sono altri naufragi: i nostri giovani anzitutto, che possiamo e dobbiamo amare, certamente soddisfacendo i loro desideri e le loro necessità, ma nello stesso tempo lacerando il loro cuore, perché, con la ferita di quella lacerazione che mette in crisi i dispositivi di autocertificazione con i quali proteggono la loro emotività per affrontare il futuro, riscoprano la bellezza, se non addirittura la seduzione, di quel sibilo infinito che la conchiglia ha fatto risuonare, con questo presepe di grazia, alla nostra sete di assoluto, che noi qui, in questa divina liturgia, possiamo finalmente dissetare e adempiere, ma loro no, cari fratelli e sorelle, loro no! Perché, per tante ragioni che non è qui il caso di dire, spesso e volentieri scansano questo dispositivo, che non è obbligo, non è precetto, non è costrizione, voi lo sapete! Essere qui sotto significa essere investiti da un’energia che trasforma, restaura, riconfigura, plasma, compie la nostra umanità, e questo non può fermarsi nel mio, nostro cuore, deve diventare, lo ripeto, con i legni del presepio, la barca e le reti con le quali pescare senza sosta, notte e giorno, quest’umanità dolente e dispersa, che si accontenta di credere che il fondale fangoso e abissale del mare sia l’unico ambiente a lei concesso. Non possiamo accontentarci di questo! Per questo, per tanti versi, anche se ci tiene al buio, mi rallegro di questo cantiere provvisorio (lo dobbiamo salvare, questo cantiere, almeno nelle omelie), perché diventa un hangar, diventa una di quelle straordinarie strutture che fanno di Venezia un luogo unico al mondo, un arsenale, disarmato naturalmente, dove la Serenissima fabbricava navi che solcavano tutto il Mediterraneo. Da qui devono uscire, con la vostra  u umiltà, la vostra gratitudine, il vostro stupore, la vostra meraviglia, bastimenti disposti a pescare uomini e donne, notte e giorno, per far riscoprire loro quella perla che la nostra fragile umanità è ancora in grado di generare, baciata dall’amore del Padre, raggiunta dal suo Spirito, imitando e partecipando (solo la grazia di Dio sa come) di quella creaturalità tutta bella, tutta luce, tutto ascolto, tutta gratitudine, tutto silenzio, tutto stupore, della Beata Vergine Maria, la gran Madre di Dio, la gran Madre nostra. Amen!

 

Piccola meditazione di fine anno ispirata ad un testo del regista russo Andrej Tarkovskij (1932-1986) e proposta da da padre Bernardo ai fedeli presenti

nella Basilica di San Miniato al Monte la sera del 31 dicembre 2024, prima del canto del Te Deum

 

Bisogna riempire gli orecchi, gli occhi di tutti noi di cose che siano all’inizio di un grande sogno. Qualcuno deve gridare che costruiremo le piramidi, non importa se poi non le costruiremo.

Bisogna alimentare il desiderio, dobbiamo tirare l’anima da tutte le parti, come se fosse un lenzuolo dilatabile all’infinito.

Se volete che il mondo vada avanti, dobbiamo tenerci per mano. Ci dobbiamo mescolare ai cosiddetti “sani” e ai cosiddetti “ammalati”. Ehi, voi sani, che cosa significa la vostra salute? Facciamo un nuovo patto col mondo. Che ci sia il sole di notte e che nevichi d’agosto.

Le cose grandi finiscono, sono quelle piccole che durano. La società deve tornare unita e non così frammentata.

Basterebbe osservare la natura per capire che la vita è semplice e che bisogna tornare al punto di prima, in quel punto dove voi avete imboccato la strada sbagliata.

Bisogna tornare alle basi principali della vita, senza sporcare l’acqua. Che razza di mondo è questo, se è un pazzo che vi dice che dovete vergognarvi!

 

Cari amici, cari amiche, cari fedeli tutti, ho voluto premettere al consueto augurio che orna il canto del Vespro e lo rammenda all’invocazione di gratitudine e di affidamento che è il Te Deum dell’ultimo giorno dell’anno civile, le parole che il grande regista russo Andrej Tarkovskij fa dire a Domenico, un personaggio del suo celebre film Nostalghia girato in gran parte nella nostra Toscana nel 1983.

Domenico appartiene a quella grande tradizione della spiritualità russa e ortodossa che erano e che sono i “pazzi di Cristo”, coloro che la società mette ai margini per la loro parola e i loro gesti non convenzionali, ma che esprimono, fin dalle midolle, la paradossalità del Vangelo, che mette in crisi le nostre certezze, le nostre sicurezze e direi, stasera, anche la convenzionalità dei nostri auguri.

E stasera mi piace dirvi e dirci che tutti noi, se siamo qua su, lo siamo perché pazzi di Cristo, pazzi per Cristo, pazzi con Cristo, resi folli dal suo Vangelo di speranza che rende possibile l’impossibile: nevicare d’agosto e il sole di mezzanotte, donarci il perdono, affermare il primato della pace, riconoscere visibile l’invisibile e riconoscerci tutti figli e figlie di un Dio invisibile, ma che sceglie di rivelarsi attraverso quella follia d’amore che è una nascita nel cuore della notte, che fa germogliare il sole dal fango di una mangiatoia nel cuore della terra, poco fuori Betlemme.

Questa paradossalità, cari fratelli e sorelle, stasera ci invita a prenderci per mano, ci invita a non sporcare l’acqua, ci invita a ricominciare da un punto di partenza che non sarà quello convenzionale di un generico capodanno come gli altri, ma da questa inesausta sorgente battesimale, direi davvero natalizia e pasquale, che è il battesimo dei nostri frammenti, ma anche la possibilità in forza della quale, sentendoci amati, gratuitamente, senza merito, senza perché, per il puro fatto di esserci, questa nostra fragilità e vulnerabilità, nelle mani di Dio, ci rende capaci, tutti noi, sani o ammalati non importa, di cambiare le cose di questo nostro povero mondo.

Bisogna tornare alle basi principali della vita, senza sporcare l’acqua.

Che una sorgente d’acqua scintillante, la bontà del Signore e la maternità di Maria Santissima, zampilli nel profondo dei nostri cuori, così da renderli cisterna non più screpolata, cisterna nella quale può specchiarsi l’infinito del cielo e ritrovare senso ogni nostro desiderio, fino a distendere l’anima, altrettanto infinita, fino ai vertici del Cielo.

Buon anno nuovo a tutti voi!

 

La trascrizione e la redazione dei testi si deve a Stefania Ruggiero

L’immagine è un fotogramma del film Nostalghia di Andrej Tarkovskij 

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