«Dove avrà inizio l’eterno»: per una morte pasquale. Meditazione del padre abate Bernardo per la Pasqua 2018

«Dove avrà inizio l’eterno»: per una morte pasquale. Meditazione del padre abate Bernardo per la Pasqua 2018

Meditazioni

«Dove avrà inizio l’eterno». Per una morte pasquale

Meditazione sulla Pasqua

San Miniato al Monte, 27 marzo 2018

 

Vi devo annunciare il tema di stasera che è un tema un po’ singolare, però neanche più di tanto per chi mi frequenta, perché ho pensato che fosse interessante arrivare al cuore della Pasqua attraverso il mistero del morire.

Quindi ecco, io ho voluto mettere insieme alcune testimonianze di morte in Cristo, perché effettivamente il loro saper morire, il loro saper affidarsi, più di ogni mia parola e più di ogni costruzione teologica, ci permettesse una risonanza reale di quello che comporta il mistero pasquale che, come tante volte ci ostiniamo a dire, non va vissuto come una riproposizione intellettuale, cerebrale, dottrinale, di un evento passato ma, al contrario, come la possibilità di sentire scaturire, nel vivo del nostro cuore, una linfa che, come un fiume carsico scorre ininterrottamente nello spazio e nel tempo dal cuore dell’evento stesso pasquale, oggettivamente accaduto, tanti anni fa, in un luogo speciale ma che, con la forza plastica dello Spirito Santo, viene a plasmare, a qualificare, ogni istante del nostro presente, ma vorrei dire anche a rinnovare ogni particella della nostra esistenza e di quanto esiste, e a rendersi sperimentabile come davvero una sorta di fioritura che quella linfa permette attraverso la liturgia.

Ecco, nella liturgia noi è come se vedessimo fiorire quanto altrimenti scorre nelle vene della nostra storia e dei nostri spazi.

Quindi con forza dobbiamo ribadire una interpretazione davvero cosmica della Pasqua, inclusiva di tutto il tempo e di tutto lo spazio.

E allora, in questa prospettiva, come tenere escluso quel particolarissimo momento che segnala la nostra inevitabile, insuperabile, soggezione alle leggi della natura che è la morte, la morte naturale? Perché effettivamente diventa una cartina di tornasole in cui ci è dato di verificare, seppure in minima parte, perché l’effetto complessivo lo si contempla dal punto di vista dell’eternità di Dio, ma, noi che siamo ancora da quest’altro versante, tuttavia abbiamo degli indizi con i quali accorgerci di come questo evento, oggettivamente biologico e naturale, inauguri e lasci come traccia una scia pasquale.

Ecco, noi siamo stasera insieme alla ricerca di una scia pasquale lasciata da alcune morti particolarmente radicate nel mistero di Cristo e queste ci servono proprio per tutto quello a cui deve servire una mediocre lectio divina, una mediocre meditazione pasquale, quale siete abituati a sentire dalla mia bocca e cioè a rianimare un po’ di più e un po’ meglio la nostra fede, la nostra speranza e il nostro amore e a permettere che questa piccola lubrificazione di tali doni teologali ci permetta di attraversare questi giorni con una consapevolezza maggiore, che sostanzi tutta la nostra vita.

Non è un momento, come dire, di pastoralità o di precettistica di Chiesa o di appartenenza, ma è davvero attraversare questi giorni portandoci tutta la nostra vita, non esclusa la morte.

Qual è il fondamento biblico sotteso al mio confuso parlare? Fondamentalmente senz’altro la lettera ai Romani, il capitolo 14esimo, il versetto 7 e seguenti, di grande importanza.

 

Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore. Per questo Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi.

 

Niente di più chiaro in ordine al tema che ci siamo proposti, il Signore Gesù effettivamente ha vinto la soggezione alla legge di natura propria dei nostri corpi, ritornando, lui che era morto, alla vita. Un ritorno in una dimensione temporale e spaziale che lo stabilisce quale signore dei morti e dei vivi in una diciamo universale autorità, per non dire autorevolezza, ben rappresentata dal nostro mosaico, ma meglio ancora forse rappresentata da quelle raffigurazioni della iconografia orientale che vedono il Cristo uscire dalle viscere della terra, portando con sé quelle anime che aveva liberato in quel sabato santo che la tradizione ci fa contemplare come il mistero della discesa del Signore negli inferi, che noi pronunciamo ogni domenica nel Credo, che non son paroline così, sono effettivamente contenuti di una fede che ci restituisce a una consapevolezza forte e precisa l’idea di una signoria spaziale, sopra e sotto la terra, nel prima, nel durante e nel poi di Gesù Cristo.

Quindi una signoria cosmica che nella nostra Basilica ritroviamo proprio nella triplice scansione di quegli spazi che sono la terra, gli inferi, la cripta e la parte alta del coro, la città celeste, la vita eterna, ovunque attraversati da quella luce, simbolo di quell’amore trinitario, anche là sotto in cripta, pure oscura, le tre finestrelle che rappresentano proprio l’effondersi, l’irradiarsi dell’amore con il quale il Padre ama il Figlio, il quale ha trascinato nella pienezza dell’obbedienza la nostra umanità riottosa e facendosi, si diceva domenica scorsa, spazio di amore, non salvando se stesso, ma lasciando che la morte lo annullasse, ha permesso di veder trasformato il suo corpo in una voragine ferita dalla croce dentro la quale però trova spazio l’amore del Padre che, effettivamente, è più forte delle leggi di natura.

Questa in una spiegazione, se mi permettete quasi meccanica, un po’ banale del mistero pasquale, ma è questo.

Io credo che intuiate ormai molto bene che è questo il mistero pasquale, non un sacrificio che vuole saziare un Padre cruento, ma davvero una dinamica che ribalta, con la vicenda autoreferenziale dell’uomo, in un ribaltamento che Gesù assume, subisce per amore, che il Padre lascia che accada per amore, che lo Spirito Santo rende effettivo per amore.

Quindi non c’è né rivendicazione, né sazietà sacrificale, nulla di tutto questo.

C’è l’amore in tutta la sua forza plastica e performativa, l’amore che è nello stesso tempo libertà e obbedienza, cioè obbedienza come ascolto, come accoglienza, libertà come amore, libertà appunto grazie alla quale Gesù non può restare prigioniero della morte. Questo è il senso.

Ecco perché Paolo può ben dire che sia che viviamo, sia che moriamo siamo dunque del Signore, c’è una appartenenza che la nostra umanità può finalmente inscrivere nel plenum dell’esperienza cristica che include la nostra vita, ma anche la nostra morte, come se in effetti il mistero di Cristo tracciasse una geografia esistenziale dentro la quale possiamo buttarci tutta la nostra esistenza nelle sue potenzialità, per così dire, virtuose, ma anche nei suoi drammatici fallimenti, il più drammatico la morte, il più catastrofico la morte e l’appartenenza del Signore Gesù continua ad essere reale, efficace, appassionata alla vita di ciascuno di noi, vincendo quel tratto antropologicamente ben riconosciuto e studiato che è la solitudine del morire.

Quel tema classico che è stato messo a punto dalla grande riflessione antropologica del ‘900, in grandissimi libri che hanno, con grandi autori, Norbert Elias e tanti altri, che hanno messo proprio in luce la dinamica solitaria del morire, una solitudine invincibile, proprio perché effettivamente in quella prospettiva lì l’uomo, letto come tanta antropologia della nostra modernità non troppo diversamente dall’istintività animale, come gli animali, muore da solo, in una solitudine che può essere attenuata da alcune dinamiche consolatorie e comunionali, ma che effettivamente non riescono a varcare il muro della solitudine del morente che è un famoso saggio di Elias “La solitudine del morente”.

Ma è vero tutto questo in una prospettiva evangelica? Certo che no!

Perché il Vangelo è buona notizia sull’uomo e dell’uomo, affermando questo tratto che riconosce nell’uomo, non solo l’immagine e la somiglianza, peraltro resa opaca dalla nostra autosufficienza adamitica, ma di fatto ribaltata proprio dal Cristo, che ci fornisce la possibilità nello Spirito Santo di essere tutti adottati dal Padre, permettendoci di far gridare alla nostra interiorità quell’Abbà, Padre che, se ci pensate bene, è il contrassegno di una relazione assai più forte della morte, assai più forte di ogni struttura, vicenda e disavventura personale e familiare , significa come la nostra esistenza abbia un’origine, ma anche una destinazione, un approdo, un compimento che nella figliolanza si celebra attraverso Cristo, come possibilità di vittoria reale della solitudine della nostra individualità. Allora in questa prospettiva capite bene che Paolo può ben dire, vero come è vero, che lo spirito geme interiormente, ispira questa invocazione di consegna delle nostre esistenze al Padre, può dirci davvero che nessuno vive e muore per se stesso, sia che moriamo, sia che viviamo, apparteniamo al Signore.

Qui è una appartenenza, fratelli e sorelle, ontologica e non di tesseramento, di generica relazione così, confidenziale e devota, è un essere in Cristo, quindi qui effettivamente la parola biblica si rafforza con l’idea tipicamente greca dell’essere come coinvolgimento radicale di tutta la nostra persona, e quindi effettivamente sono espressioni che disegnano un nuovo orizzonte esistenziale per ciascuno di noi. Un disegno esistenziale che, radicato nell’amore del Padre, sperimentato nella Pasqua del Figlio e rinnovato dalla dinamica dello Spirito Santo, circonda tutti i nostri giorni, non escluso quello della morte.

Insisto su queste cose perché sono la premessa fondamentale per comprendere, dato tutto questo, come muore un uomo o una donna in Cristo. Il primo esempio che vi offro per scendere poi in una narratività che addolcisce anche la pesantezza del mio contorcervi, è l’esempio bellissimo, a me fresco e caro della vita di San Benedetto, che abbiamo celebrato il 21 marzo scorso.

A scrivere è San Gregorio Magno:

 

Nell’anno stesso in cui doveva morire, annunziò il giorno del suo beatissimo transito ai suoi discepoli, alcuni dei quali vivevano con lui ed altri che stavano lontani. Ai presenti ordinò di custodire in silenzio questa notizia, ai lontani indicò esattamente quale segno li avrebbe avvisati che la sua anima si staccava dal corpo. – Qual è l’aspetto che ci segnala una inabitazione dello spirito di Cristo nella vita di San Benedetto, resa possibile proprio dalla dinamica dell’obbedienza e della libertà? L’obbedienza con cui Benedetto per una vita intera ha assorbito la parola di Dio, quindi il suo essere in relazione con l’altro che è il Padre, che mi dona una parola cui conformare la mia esistenza e la libertà, cioè essere, come è stato Benedetto, come sono gli uomini e le donne di Dio, creatura libera, perché l’amore se non libera non è amore, noi in questo ci riconosciamo segnati da un di più cristico che vince l’istintività di una soggezione, appunto alle dinamiche più elementari della nostra sopravvivenza, è proprio la libertà dell’amore e in questa luce qui Benedetto avverte profeticamente che la sua esistenza sta per compiersi, perché è preparato dal cammino dell’ascolto della parola e dalla umiltà che ne consegue a riconoscersi segnato da un limite, e questo limite sta per in qualche modo manifestarsi nel suo corpo, nella sua carne, nel suo cuore – Sei giorni prima della morte, si fece aprire la tomba. – e qui vedete il dato cronologico, non casuale, che Gregorio Magno sottolinea, sei giorni.

Cosa significa sei giorni prima? Significa che questa morte è immersa nel ritmo settimanale, cioè il ritmo pasquale che culmina nella domenica, settimo giorno, quindi Benedetto, sarà vero, non sarà vero, questo non lo sappiamo, alla fine neanche troppo ci interessa avere i dati cronacristici della sua morte, ci interessa l’interpretazione della sua morte che Gregorio Magno qui ci offre, perché è su questa interpretazione che noi vorremmo accordare i nostri cuori, non perché si possa diventare capaci sei giorni prima di telefonare all’Ofisa, guardi abbia pazienza… però voi capite il senso più importante di questo, cioè effettivamente riconoscere il sopravvenire di un limite e saperlo inscrivere in una logica, in una cronologia, per meglio dire, pasquale, questo sì che ci interessa molto, poi possiamo sgarrare anche di un anno intero, ma avvertiamo di come il cuore in Cristo è stato guarito dalla presunzione dell’onnipotenza e della immortalità – Assalito poi dalla febbre, cominciò ad essere prostrato da ardentissimo calore. Poichè di giorno in giorno lo sfinimento diventava sempre più grave, il sesto dì – quindi siamo alla vigilia del giorno pasquale – si fece trasportare dai discepoli nell’oratorio, ove si fortificò per il grande passaggio ricevendo il Corpo e il Sangue del Signore. – E questa è proprio la dimensione che è il primo grande pilone che sostiene il nostro accedere in Cristo all’eternità e cioè appunto vivere l’Eucaristia, guardate noi facciamo la stessa identica cosa giovedì, venerdì e domenica prossima.

Perché questo è il ritmo che la Chiesa ci propone domani l’altro?

Perché per entrare nel venerdì santo, cioè nella morte di Cristo, come possiamo farlo senza già aver sperimentato e gustato profeticamente la sua morte e la sua resurrezione? Dov’è il luogo teologico, liturgico, dove sperimentiamo già tutto questo che andiamo poi a vivere nella scansione dei giorni pasquali? Nell’Eucaristia, nel giovedì santo, laddove il Signore Gesù prendendo un pezzo di pane, spezzandolo, fa capire che quello è il destino del suo corpo e nel vino la stessa cosa, mescolandosi, come solo al cibo riesce a fare, con la vita, il corpo degli altri a cui dona quel pane, dona quel vino per lasciarci intendere che questa logica di autodonazione è ripetibile fino al giorno in cui ritorna, cioè è una dinamica che non si interrompe e che spezza in moltitudini infinite di frammenti il suo infinito amore, invitando noi a fare lo stesso.

Quindi nell’oratorio, quindi nel luogo della liturgia, nel luogo del mistero.

Sostenuto dai discepoli: c’è tutta la Chiesa in altre parole, che non è una esperienza come tante volte ci ostiniamo a dire di individualità devota in cui fa a gara a chi è più vicino al Signore, ma è esperienza di comunione, prima di tutto orizzontale, di fraternità, di sororità, dove appunto il corpo morente di San Benedetto è sollevato dalla premura dei suoi discepoli. E non è questo il senso del nostro vivere? Vedete come Gregorio attenui l’intuizione teorizzata della contemporaneità del morire solitario. – Sostenendo le sue membra, prive di forze, tra le braccia dei discepoli, in piedi, colle mani levate al cielo, tra le parole della preghiera, esalò l’ultimo respiro. In quel medesimo giorno, a due fratelli, uno dei quali stava in monastero, l’altro fuori, apparve una identica visione. – E qui c’è questa tipica specificità della morte di San Benedetto che è il suo morire in piedi, una esperienza meravigliosa, trascritta da importanti opere d’arte dove appunto Benedetto è in una verticalità innaturale, perché si muore distesi, non si può che morire distesi, ma voi vedete appunto l’impeto pasquale, dunque liberante e innamorante della Pasqua di Cristo nella vita di San Benedetto, gli permette appunto questa dimensione del tutto ingiustificabile, secondo altri criteri, che è il morire in piedi.

Sapete un altro contrassegno che ci è caro di questa stessa cosa, seppure più fantasioso, se vogliamo anche alla fine meno istruttivo tanto è eccezionale, un caso analogo è quello che dovremo ricordare tra un mese esatto e che anzi ricorderemo anche nel piccolo momento di preghiera alla fine di questa meditazione che è Miniato che, decapitato, raccatta la sua testa e viene a morire a San Miniato.

Crederci o no, ma cosa ci dice questa interpretazione della morte di San Miniato, come i sei giorni di San Benedetto, perché funziona così l’agiografia, è una interpretazione verace, seppur talvolta fantasiosa, di una verità cristica che è appunto Miniato decapitato, ma morendo in Cristo può benissimo raccogliere la sua testa e Benedetto morire in piedi con le mani levate al cielo in una verticalità che senz’altro segnala quell’essere sollevato da terra in cui si manifesta la morte del Signore Gesù nel Vangelo di Giovanni, che è un morire glorioso, verticale, per essere il nuovo bastone sul quale sta il serpente che, guardato, non più uccide, ma guarisce, ecco, Giovanni ha questa sensibilità gloriosa della Passione del Signore Gesù, perché è la gloria dell’amore – Videro una via, tappezzata di arazzi e risplendente di innumerevoli lampade, che dalla sua stanza volgendosi verso oriente si innalzava diritta verso il cielo. In cima si trovava un personaggio di aspetto venerando e raggiante di luce, che domandò loro di chi fosse la via che contemplavano. Confessarono di non saperlo. “Questa -disse egli- è la via per la quale Benedetto, amico di Dio, è salito al cielo”. – Vedete questa figura fuori campo incaricata in uno schema narrativo tipicissimo, da Dante a mille racconti di questo tipo, di aiutare il lettore a capire e dove, vedete che bellezza, dove, in che direzione muore San Benedetto? Verso oriente, voi comprendete il senso pasquale di tutto questo. Clemente Alessandrino in un suo bellissimo sermone ce lo ha spiegato, Gesù, Cristo è colui che, morendo e risorgendo, ha trasformato, espressione meravigliosa, ogni occidente in un nuovo oriente.

Per questo Benedetto non può che puntare verso oriente, cioè da dove sorge il sole, verso Gerusalemme, da dove tornerà il Messia, è quell’idea detta prima con l’immagine paolina per cui siamo in Cristo configurati in una figliolanza che ci fa gridare: Abbà, Padre. Quello che fa Benedetto in piedi, alza le braccia e, come figlio torna in Cristo al Padre.

La direzione non può che essere la sorgente della luce, cioè l’oriente.

Così i presenti e i lontani videro e conobbero da quel segno predetto la morte del santo. Fu sepolto nell’oratorio del Beato Giovanni Battista, oratorio che egli aveva edificato, dopo aver distrutto il tempio di Apollo. E fino ai nostri giorni, se la fede degli oranti lo esige, egli risplende per miracoli anche in quello Speco di Subiaco, dove egli abitò nei primi tempi della sua vita religiosa.

Io credo che stiamo entrando in questa prospettiva, forse un po’ originale, magari non troppo interessante, anzi addirittura macabra, come del resto sono certi miei gusti, però spero che al di là dell’originalità un po’ grand guignolesca di stasera ci sia effettivamente invece la percezione, da parte di ognuno di voi, dell’importanza in realtà di cosa significhi Pasqua, riletta in questa dinamica che peraltro interroga, scuote, fa soffrire, tantissimi di noi che si ritrovano peraltro in una Basilica circondata da un cimitero, quindi il tema in realtà tocca la vita di tantissimi di noi.

Un’altra morte santissima da rileggere in questa analoga prospettiva è il racconto di Francesco secondo la seconda vita di Tommaso da Celano. Anche qui la conformazione a Cristo è fortissima e vi invito a mettere in gioco questi criteri teologici e scritturali che abbiamo cercato di mettere in luce:

 

Mentre i frati versavano amarissime lacrime e si lamentavano desolati, si fece portare del pane, lo benedisse, lo spezzò e ne diede da mangiare un pezzetto a ciascuno. – Due dati fondamentali e per me bellissimi: primo dato, guardate che anche vivere intorno a un santo non significa disumanizzarci e far calare dall’alto una sorta di fede che fodera i nostri cuori alla sensibilità dello stare insieme, io posso soltanto vagamente immaginare cosa si può aver imparato convivendo con uno come Francesco, cioè uno sguardo di fede, di intimità col Signore, di stupore che non ci son parole…arriva la morte, son tutti a piangere.

Ma questa è una cosa bellissima, lasciatemelo dire, cioè è la nostra verità, nel senso che la verità dell’uomo è fatta prima di tutto di una contiguità corporea grazie alla quale nel feto veniamo alla luce che, al momento della separazione dilania il nostro cuore, permettetemi, io quelle letture stoicizzanti il mistero della morte per cui alla fine… perché lo piangi? Perché non esiste più, perché di qui, perché di là, sono un po’ rozzo nell’esposizione perché son stanco, sì certo affascinanti e tutto quanto però, ma dove sta il cuore?

Dove sta anche davvero la disobbedienza dei nostri sentimenti che si radicano, se non altro per la consuetudine di una vita intera, al profumo, allo sguardo, al tatto dell’altro. Io forse sarò in questo anche troppo romantico, però io sarei fra i frati più piagnoni attorno a Francesco, ve lo dico subito. L’altro aspetto essenziale e meraviglioso è che Francesco che, come forse sapete, non era né sacerdote, ma forse manco diacono, eppure cosa fa?

Fa i gesti di Cristo, senza se e senza ma, qui dobbiamo fare i conti appunto con che cosa, se non lo abbiamo già detto tante volte: la libertà dell’amore.

Quale altri gesti poteva e doveva fare Francesco che muore in Cristo, come ci ha spiegato Paolo, muore in Cristo, per insegnare ai suoi che nonostante la rottura e la frattura fisica della morte, esiste una comunione di amore e di libertà che renderà la sua vita effettivamente ancora disponibile all’esperienza di fede, speranza, amore dei suoi, non c’è altro linguaggio che l’Eucaristia.

E proprio per questo il nostro triduo inizia con l’Eucaristia giovedì, cioè Gesù fa le stesse cose che fa Francesco, Francesco fa le stesse cose che fa Gesù. Io credo che questo un piccolo aiuto ce lo dia, no? Per entrare un po’ nel senso di questi giorni qua, perché si radichino nella nostra umanità, questa è la bellezza del Vangelo, quindi un pezzo di pane perché tutti mangino e abbiano un ricordo efficace, fermentoso, della presenza di Cristo, la stessa cosa col vino e poi, aggiunge Giovanni, lavare i piedi. Ma cosa di più?

Cosa vuoi di più, riparti con quei piedi lavati proprio per non spezzare più questa logica -Volle anche il libro dei Vangeli e chiese che gli leggessero il Vangelo secondo Giovanni, dal brano che inizia: Prima della festa di Pasqua etc. – Quindi Francesco muore, si potrebbe dire, facendo la lectio divina, anche questo è un aspetto meraviglioso, cioè come Benedetto si fa portare nell’oratorio per morire in una dinamica liturgica, qui Francesco muore in una dinamica di lettura, cioè di ascolto, cioè di obbedienza, ob audire e quindi effettivamente ormai comprendiamo – Si ricordava in quel momento della santissima cena, che il Signore aveva celebrato con i suoi discepoli per l’ultima volta, e fece tutto questo appunto a veneranda memoria di quella cena e per mostrare quanta tenerezza di amore portasse ai frati. – Vedete che c’è un bellissimo intreccio di griglia, proprio in cui, con una mossa quasi geniale, per non dire teatrale, ma in fondo Francesco è l’inventore della teatralità nel senso alto di questo termine, attraverso la quale anche al di là della liturgia, che correva il rischio di essere ritualizzazione, immette e ripresenta Cristo nella nostra vita, all’inizio della sua esistenza con il presepe, alla fine trasferendo la sua morte nel cenacolo dove appunto Gesù ha fatto l’ultima cena, diventando lui, con la sua morte personaggio di questo estremo presepe. Bellissimo! – Trascorse i pochi giorni che gli rimasero in un inno di lode, invitando i suoi compagni dilettissimi a lodare con lui Cristo. -Questa dimensione che diventa poi eucaristicamente capace di ispirare, non la lamentazione, non il gemito, ma la lode. Quindi un approdo che i suoi devono gradualmente imparare dalla morte tutta eucaristica di Francesco – Egli poi, come gli fu possibile, proruppe in questo salmo: Con la mia voce ho gridato al Signore, con la mia voce ho chiesto soccorso al Signore. Invitava pure tutte le creature alla lode di Dio, e con certi versi, che aveva composto un tempo, le esortava all’amore divino. – Ecco naturalmente quella lauda famosa che, in un’altra redazione della vita di Francesco viene riportata e cioè il cantico delle creature, che tutti conosciamo, dove il per non è semplicemente a causa di, sia lodato il Signore ma il per, guardatelo come aveva sapientemente intuito Gianfranco Contini, vuol dire da , cioè Francesco è come il capocoro che chiede a tutta la creazione di lodare Dio, è meravigliosa questa immagine cosmica, dove l’uomo di Dio, novello Cristo, restituisce a tutti i viventi la consapevolezza del loro vero senso, che è la lode di Dio, dall’ultimo filo d’erba fino all’uomo, tutto quello che ci sta nel mezzo, non esclusa la morte, sorella –

Perfino la morte, a tutti terribile e odiosa, esortava alla lode, e andandole incontro lieto, la vinvitava ad essere suo ospite: “Ben venga, mia sorella morte!” – Ecco la citazione di quella lode che, in Cristo, riconosce anche la morte soggetto di lode e qui veramente l’approdo pasquale è totale. Noi se la leggiamo da un punto di vista biologico, psicologico, non possiamo che maledirla la morte, evidentemente, ma riletta in questa prospettiva cristica diventa nello sguardo e nel cuore di un uomo di Dio verso il quale però vogliamo orientare i nostri passi, morte soggetto di lode –

Si rivolse poi al medico: “Coraggio, frate medico, dimmi pure che la morte è imminente: per me sarà la porta della vita!” E ai frati: “Quando mi vedrete ridotto all’estremo, deponetemi nudo sulla terra come mi avete visto ieri l’altro, e dopo che sarò morto, lasciatemi giacere così per il tempo necessario a percorrere comodamente un miglio” – Questo restituirsi di Francesco alla nudità della terra è un incontro che nello stesso tempo salva la dimensione della comunione, ma anche dell’intimità con il Signore, riconoscendo la morte, come qualche mistico orientale arriverà a dire, come uno sposalizio, e quindi come tale necessaria anche l’intimità fra lo sposo e la sposa –

Giunse infine la sua ora, ed essendosi compiuti in lui tutti i misteri di Cristo, se ne volò felicemente a Dio. – Vedete questa notazione importante, teologicamente feconda, compiuti tutti i misteri di Cristo. I misteri di Cristo sono la sua nascita, tutto quello che Gesù compie fino alla sua morte, ma anche la sua resurrezione, quindi c’è davvero un morire radicalmente pasquale. C’è un altro brano che segnala una visione dei discepoli di Francesco ma lo lascio alla vostra eventuale lettura.

UN FRATE VEDE L’ANIMA DEL SANTO NEL SUO TRANSITO. Un frate suo discepolo, assai rinomato, vide l’anima del padre santissimo salire direttamente al cielo. Era come una stella, ma con la grandezza della luna e lo splendore del sole, e sorvolava la distesa delle acque trasportata in alto da una nuvoletta candida. Si radunò allora una grande quantità di gente, che lodava e glorificava il nome del Signore. Accorse in massa tutta la città di Assisi e si affrettarono pure dalla zona adiacente per vedere le meraviglie, che il Signore aveva manifestato nel suo servo. I figli intanto effondevano in lacrime e sospiri il pio affetto del cuore, addolorati per essere rimasti orfani di tanto padre. Ma la singolarità del miracolo mutò il pianto in giubilo e il lutto in esplosione di gioia. Vedevano distintamente il corpo del beato padre ornato delle stimmate di Cristo e precisamente nel centro delle mani e dei piedi, non i fori dei chiodi, ma i chiodi stessi formati dalla sua carne, anzi cresciuti con la carne medesima, che mantenevano il colore oscuro proprio del ferro, e il costato destro arrossato di sangue. La sua carne, prima oscura di natura, risplendendo di un intenso candore, preannunziava il premio della beata risurrezione. Infine, le sue membra divennero flessibili e molli, non rigide come avviene nei morti, ma rese simili a quelle di un fanciullo.

 

Mi porto molto rapidamente alla meravigliosa morte, per come ci viene descritta da un grande teologo ortodosso, Olivier Clèment, del famoso patriarca ortodosso ecumenico Atenagora che era quel patriarca dai capelli tutti scompigliati, con quel volto che sembrava il profeta Elia e che è celebre per il suo meraviglioso abbraccio con Paolo VI e la ritira reciproca delle scomuniche, degli anatemi. Quindi un grande testimone di pace e di amore. E questa descrizione ci viene consegnata dal Olivier Clèment grazie alle confidenze ricevute dal metropolita Melitone. Ci riporta a questa dimensione che ormai inizia a essere familiare:

 

Il Signore ha concesso al patriarca Atenagora la morte che desiderava e per la quale tanto aveva pregato, preparandosi all’incontro finale con la sua venerabile età. – questa consapevolezza di una maturazione – Un giorno, ritornando dalla Liturgia, cadde per le scale e si ruppe il femore: un incidente grave per un uomo di ottantasei anni. Atenagora comprese subito che stava ormai per morire – come San Benedetto – e al metropolita Melitone, che gli suggeriva un ricovero a Vienna dove alcuni specialisti di fama mondiale avrebbero potuto curarlo, rispose: “No, io non andrò a Vienna. Ormai mi devo preparare per un altro viaggio” – risposta che segnala appunto che cosa? Se non di nuovo una esperienza di libertà e di amore –

Ricoverato all’ospedale greco-ortodosso di Balukli, visse i suoi ultimi giorni nella camera n.12, una stanza semplice come le altre, caratterizzata da quella semplicità che hanno a Costantinopoli tutte le cose ortodosse. Attese così la sua ora: il corpo si andava esaurendo sempre più, ma lo spirito restava lucido e forte – quindi questo bellissimo contrasto che è quello che ha permesso a Benedetto di morire in piedi e a Francesco di fare tutti quei canti e quelle dossologie – Il patriarca domandò di potersi confessare, recitò lentamente le preghiere penitenziali, poi ricevette con molta pace e con un viso trasfigurato dalla gioia la comunione dalle mani del metropolita Melitone – quindi terza morte e anche qui vedete l’irrobustirsi del corpo fiacco mediante il corpo del Cristo – I suoi occhi restavano limpidi e fiammeggianti – questa è una espressione bellissima, io vi invito tornando a casa ad accendere Google immagini e di scrivere patriarca Atenagora perché voi vedrete degli occhi veramente così, limpidi e fiammeggianti, una persona straordinaria – mentre continuava a pregare per la sua santa Chiesa ortodossa e per l’unità di tutte le Chiese – vedete questo senso di radicamento nella tradizione, ma anche il suo superamento, perché Atenagora è stato uno dei primissimi protagonisti dell’ecumenismo nell’ortodossia – Domandò che gli si lasciasse accanto il pane eucaristico e il calice della salvezza e, rifiutando ogni altro cibo, chiese di essere lasciato solo. – e qui vedete di nuovo come in Francesco questo uso, direi libero e liberato e liberante, dell’Eucaristia, noi siamo un po’ abituati, sinceramente, soprattutto in occidente, a riceverla secondo una estenuante precettistica canonica, necessaria certamente per impedire abusi di ogni genere, ma vedete che la libertà del santo è una libertà anche di fruizione dell’Eucaristia, cioè l’Eucaristia gli resta, passatemi l’espressione, sul comodino perché se quest’uomo morente ha fame, ha fame di Cristo, se ha sete, ha sete di Cristo, ogni altra fame, ogni altra sete, non ha più senso nella dinamica di consegna radicale al mistero pasquale.

Non è bellissimo tutto questo? Io devo dirvi quanto vorrei arrivare a questo livello di libertà e di abbandono e so ben certo che controllerò con lo sguardo obliquo se ho tutte le medicine necessarie per placare i miei spasmi, se ne sarò consapevole, o comunque per attutire ogni forma di sofferenza e, come misero a punto i grandi medici francesi nella corte di Avignone dopo e di Viterbo prima, tutta quella mitica prolongatio vitae di cui i Papi romani erano estremamente affascinati ed esigenti, c’è una letteratura meravigliosa studiata da Agostino Paravicini Bagliani sugli alchimisti presenti nella corte papale per preparare quell’oro potabile che avrebbe garantito ai Papi di non morire quasi mai. Come vedete prospettive un po’ diverse. Non sto scherzando è proprio un tema che tra l’altro segnala anche delle antropologie che inaugurano la modernità, ma è questo il tema. Invece il nostro patriarca come vedete, non diversamente da Francesco, pur da una situazione di comunione si avvia da solo all’incontro con Cristo, secondo quella sensibilità sponsale di cui la tradizione mistica non è avara e infatti – Ringraziò ancora il metropolita Melitone, congedò tutti con la sua benedizione e restò solo per morire. Solo con il Solo: era un monaco…

Così morì, la notte tra il 6 e il 7 luglio 1972 – Ma questa non è la solitudine del morente di cui ci parlano nella sua invincibilità gli antropologi moderni, questo è il morire con Cristo, quel morire che accade anche una persona, se purtroppo per un incidente o per qualsiasi altro dramma magari effettivamente si ritrova da solo, ma io penso sempre, stringendo le mani, invocando il nome del Signore, davvero tu sei come il patriarca Atenagora in comunione, in relazione, con un Padre nello spirito attraverso il Figlio perché, come ci ha detto Paolo, sia che viviamo, sia che moriamo siamo dunque del Signore.

E concludo proponendovi anche un’altra fine eccellente, questa volta ci spostiamo a Roma, Giovanni XXIII.

Qui a scrivere è il compianto cardinale Loris Capovilla

 

Le udienze vengono sospese alle 18. Sono trascorse nove ore e il papa si è sottoposto ad emozioni e fatiche con ammirevole padronanza di sé: Egli ancora si preoccupa che ogni messaggio abbia riscontro pieno di rispetto. Il telegramma di Krusciov gli offre l’occasione di rinnovare attestato di amore per i popoli dell’URSS e dispone che si risponda con quei termini che gli son caratteristici. Rivolge inoltre il pensiero benedicente, affettuoso alle grandi nazioni dell’Asia, segnatamente alla Cina. – vedete che bello, questo morire generoso, stando attenti a quello che continua ad accadere nella storia, tutto il contrario del muoia sansone e tutti i filistei, per tradurla in termini banali – Nell’aggravarsi della crisi, egli non altera la dolcezza del suo volto. La carità verso tutti si accentua nel tormento della sofferenza: “Soffro con dolore, ma con amore”, è una delle espressioni tolte dalle sua labbra.

Fuori, nella piazza, la presenza della folla in preghiera rimane intensa in ogni ora della notte.

2 giugno. Il papa avverte ciò che accade intorno a lui; di quando in quando il suo sguardo cerca l’una o l’altra immagine che adorna le pareti. Gli occhi si fissano sul crocifisso. Alle 12 chiede: “Che ora è?” La coincidenza con il momento dell’Angelus commuove e edifica. – vedete appunto l’attenzione alla cronologia, cioè a interpretare i tempi della morte, della fine, entro la cornice che il ritmo della preghiera della Chiesa sa offrire come prospettiva di senso – Al nipote Zaverio, che sta in piedi, a capo del letto, dice con forza: “Scostati, mi nascondi il Crocifisso!” Le ore passano lente; nell’ampia stanza si prega nell’attesa del Signore.

3 giugno. Alle ore 3 papa Giovanni ripete più volte: “Signore, voi sapete che io vi amo!” Alle 5 il segretario particolare celebra la messa nella camera dell’Angelus. Le ore della mattina trascorrono tranquille. Il papa resta assopito, salvo qualche momento in cui pronunzia brevi parole e accenna a segni di croce che gli sono abituali.

Verso le 19,40 termina la messa. Si ode distinto il congedo liturgico: “Ite missa est!” L’infermo ha come un sussulto; il respiro diventa rantolo appena percettibile. In concomitanza con la fine della messa, si conchiude il corso della vita terrena del papa. I medici si chinano riverenti, rialzano il capo; più che il muto gesto gli occhi danno l’annuncio: Giovanni XXIII è morto.

 

E qui vedete un’altra immedesimazione nella dinamica eucaristica non tanto con le Specie consacrate, ma proprio con la celebrazione essa stessa della Messa, quindi qualcosa che di nuovo conforma all’atto celebrativo la fine di una esistenza, perché questo è il mistero eucaristico, la pro offerta di Cristo e la sua vita nei segni appunto del corpo e del sangue, per diventare alimento di vita e di speranza nuova, in una logica radicalmente pasquale, come si è detto, di libertà e di amore.

Direte voi, e si conchiude anche noi, ma di là? Ecco, per uno sguardo su quello che può accadere, potrà accadere, vorremmo accadesse, pensiamo che accadrà, desideriamo che accadrà, chiedo aiuto a una poetessa, Margherita Guidacci. Io presto ben poca disponibilità a quei racconti che ci dicono di visioni, di stati un po’ confinanti fra vita e morte, quella roba là mi piace vedermela da solo, a suo tempo.

Però al poeta si può chiedere aiuto per la sua intuizione che è libera da obblighi di riscontro ed è semplicemente il frutto della fantasia e di tutto quello che tiene teso il cuore di un vero poeta. E qui Margherita Guidacci ha una immagine bellissima che è il mio congedo per questa meditazione e poi, per chi vorrà, io stasera vorrei semplicemente portarvi in silenzio dietro la Porta Santa, deporre qualche candelina e incensare quell’antica soglia sotto la quale stava e sta il più antico cimitero cristiano di Firenze e che fra un mese apriremo con l’Arcivescovo per iniziare l’anno millenario.

 

Alla fine dei secoli

 

Alla fine dei secoli, quando

mi chiamerà un’altra voce

e proverò per la seconda volta

l’impeto di resurrezione

prego che come questa volta,

quando sei stato tu a chiamarmi,

alzandomi stupita dalla fossa

con le ossa che sentono la carne

stendersi nuovamente su di loro,

con la carne che sente

in sé di nuovo penetrare l’anima –

io possa, in quel tremendo campo

dove avrà inizio l’eterno,

 

fissare il primo sguardo su di te,

ritrovarti al mio fianco.

 

Qui Margherita Guidacci scrive al marito e ci riporta appunto alla morte come mirabile passaggio sponsale con il nostro creatore, ma anche con quell’umanità amata, cercata, desiderata, magari anche tradita, litigata che fa, nella semplicità di ogni giorno, il nostro essere uomini e donne su questa terra. Amen

 

Trascrizione a cura di Grazia Collini

 

 

 

 

 

Condividi sui social