«Con umiltà, nella cosmica avventura della creazione». Omelie del padre abate Bernardo per la XXII Domenica del Tempo Ordinario
1 settembre 2019 – XXII domenica del Tempo Ordinario
Dal libro del Siràcide
Figlio, compi le tue opere con mitezza,
e sarai amato più di un uomo generoso.
Quanto più sei grande, tanto più fatti umile,
e troverai grazia davanti al Signore.
Molti sono gli uomini orgogliosi e superbi,
ma ai miti Dio rivela i suoi segreti.
Perché grande è la potenza del Signore,
e dagli umili egli è glorificato.
Per la misera condizione del superbo non c’è rimedio,
perché in lui è radicata la pianta del male.
Il cuore sapiente medita le parabole,
un orecchio attento è quanto desidera il saggio.
Dalla lettera agli Ebrei
Fratelli, non vi siete avvicinati a qualcosa di tangibile né a un fuoco ardente né a oscurità, tenebra e tempesta, né a squillo di tromba e a suono di parole, mentre quelli che lo udivano scongiuravano Dio di non rivolgere più a loro la parola.
Voi invece vi siete accostati al monte Sion, alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a migliaia di angeli, all’adunanza festosa e all’assemblea dei primogeniti i cui nomi sono scritti nei cieli, al Dio giudice di tutti e agli spiriti dei giusti resi perfetti, a Gesù, mediatore dell’alleanza nuova.
Dal Vangelo secondo Luca
Avvenne che un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo.
Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cèdigli il posto!”. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato».
Disse poi a colui che l’aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».
Omelia
Fratelli e sorelle, anche noi invochiamo come cuore sapiente, un orecchio finalmente attento, desiderio del saggio secondo il libro del Siracide, un cuore che desidereremmo finalmente in grado di percepire la recondita sinfonia che governa questa nostra storia, che governa questo nostro cosmo, ben al di là dei nostri contorti e contraddittori sforzi, così presuntuosamente convinti di installare la nostra povera volontà, direi piuttosto le nostre velleitarie proposizioni, quali spinte che possano cambiare il corso degli eventi e modificare tangibilmente le realtà spaziali e temporali dove il Signore ha collocato la nostra possibilità di vita.
Quindi in linea con tradizione sapienziale così ricca di responsabilità e di fascino oggi anzitutto –ed è quello che state umilmente esercitando voi- l’arte dell’ascolto, l’arte cioè di sentirci finalmente bisognosi di una parola che non è generata, elaborata dai nostri pensieri, ma accolta perché riconosciuta foriera di una vita, di una possibilità, di una ulteriorità che squarcia questo perimetro dentro il quale ho pensato di poter installare tutte le mie risorse e misure per affrontare la vita.
Questo orecchio attento oggi ci riporta ad una dimensione che il Vangelo spesso richiama alla nostra consapevolezza credente che lo ripeto, fratelli e sorelle, è una consapevolezza sapienziale, non perché credere automaticamente significhi diventare sapienti, ma certamente la fede intesa come sforzo dell’intelligenza dell’uomo che non si rassegna e nello stesso tempo non si chiude alla possibilità che altro esista fuori di sé, eccome se è modalità sapiente di interpretare il senso della nostra esistenza. Questo cuore attento, questo orecchio in ascolto oggi proviamo a divaricarlo alla luce di un Vangelo che ci ricorda questa dimensione marginale della condizione umana in una duplice accezione, quella anzitutto di uno stile umile col quale mai sentirci o doverci sentire gli invitati della prima fila, il Signore ci propone la predilezione dell’ultimo posto, si direbbe della marginalità, di ciò che è eccentrico rispetto a quei baricentri che la nostra sete di potere, di significato, di valutazione, spesso ci fa pensare automaticamente, e di fatto banalmente, riservati alle mie ambizioni. Invece il Signore ci chiede fratelli e sorelle, la fatica dell’esodo, la scomodità di tutto ciò che sta ai margini, ai bordi, solitamente frastagliati del nostro esistere e questa è la cifra stilistica dell’umiltà, dell’humus, di qualcosa che proprio per essere terriccio è refrattario a quell’ordine piatto e geometrico che solitamente è il nostro modello di piedistallo sopra il quale collocarci.
Invece no, il Signore ci chiede fratelli e sorelle di affondare, ecco ricordiamoci l’immagine battesimale di qualche domenica fa, l’immersione, tutto ciò che allontana dal centro e ci porta davvero in dimensioni ulteriori.
L’altra modalità fratelli e sorelle è quella di un’altra predilezione, ancora più paradossale, quella per cui, scartando la logica del contraccambio, delle regalìe reciproche, che sono un modo, come ci ha definitivamente insegnato l’antropologia e la sociologia del secolo scorso, di esercitare una forma di condizionamento attraverso il regalo, per non dire di potere, un legaccio che di fatto tante volte, più o meno consapevolmente serve per consolidare dei rapporti ancora una volta di potere, di controllo, di autorità.
Il Signore Gesù sbaracca tutto questo invitandoci ad una dinamica apparentemente perdente, infruttuosa, dove si anticipa la sua stessa logica di autoperdizione che vivrà radicalmente sulla croce, l’autoperdizione è la scelta prediletta e prediligente di persone dai quali nulla possiamo aspettarci in cambio, zoppi, ciechi, sordi categorie reali e simboliche allo stesso tempo, si direbbero gli sventurati, i miserabili dai quali tenerci lontani perché non si sa mai se la loro ombra oscura potrà magari influenzare negativamente il mio presuntuoso benessere e più ancora doverlo condividere con chi ha meno di me.
Ecco, tutto questo fratelli e sorelle, lo vogliamo rileggere proiettandolo una volta tanto anche in una prospettiva che un cuore radicalmente in ascolto chiede, propone di poter fare, cioè un ascolto di tutta la storia della nostra condizione umana, ma anche degli spazi che il Signore ha costruito per noi, rileggendo in una ottica di fede anche le complesse e intricate vicende della nostra stessa cosmologia.
Io non sono un uomo di scienze, anzi sono –neanche un uomo di lettere, ma insomma diciamo in qualche misura mi ritrovo certamente nella riflessione più filosofica e meno scientifica – e tuttavia esercita un grande fascino la ricostruzione che per l’appunto è fatta da chi ascolta la realtà tutta intera, delle vicende che hanno permesso questa nostra esistenza, fratelli e sorelle, ed una lettura nello stesso tempo scientifica, ma anche libera da preconcetti contro o per Dio, effettivamente ci ricorda come la nostra esistenza è di fatto comparabile, direi proprio ad una scheggia di vita resa possibile da una serie di eventi che, susseguitesi uno dopo l’altro, ci lasciano nella consapevolezza, da un lato di una armoniosa e nello stesso tempo misteriosa, e di fatto intricatissima trama di eventi che si sono susseguiti in modo così mirabilmente consequenziale, difficilmente ad essere pensati come puro caso e nello stesso tempo fratelli e sorelle, la percezione che se esistiamo è perché di fatto siamo immersi in un sistema macroscopico che di fatto non può che ricordarci di essere, come si diceva, scheggia, frammento, umilissima presenza in un macrocosmo che ci fa ripetere le parole del salmista: Chi è l’uomo perché te ne curi Signore? E cosa mai può essere la nostra vicenda storica davanti a te che con un cenno muovi le stelle, le fai nascere e le fai morire?
Allora fratelli e sorelle oggi questo Vangelo mi sembra ci inviti a ricordarci il miracolo del nostro essere vivi, un miracolo che chiede una particolare custodia di gratuità, di stupore, di riconoscenza, ma anche di profonda e umile consapevolezza che in questo enorme sistema che è l’universo nello spazio e nel tempo, le nostre presunzioni davvero, fratelli e sorelle, al cospetto di questo straordinario mistero sono pochissima cosa e il Signore ci educa a questo senso del lasciare spazio ad altro, anzitutto al suo agire, al suo estendersi, al suo manifestarsi, certo non immediatamente percepibile se rinunciamo a questa dimensione umile e talvolta umiliante dell’ascolto, che in effetti tante volte non sembra proporci molto, al di là della realtà, ma d’altra parte la Lettera agli Ebrei ci avverte, fratelli e sorelle, il nostro Dio non è un Dio del fuoco, del tuono, dei grandi segni e questo stesso percorso che oggi confusamente vi propongo di riabbracciare la realtà tutta intera da un capo all’altro dell’universo, non significa sacralizzare quella stessa realtà, ma scoprirne la sua traccia, il suo indizio, il suo mistero, proprio perché si cerchi Dio in quell’invisibile che solo un orecchio attento e capace di ascoltare può finalmente tornare a percepire come ragione che dia conto di questa nostra scheggia di vita che pure attraverso mille peripezie degli elementi e della storia, ha generato un posto, un senso, una missione, un significato per noi.
Un significato che è una scheggia, ma che ha la consapevolezza e la vocazione di potersi pensare, di potersi sentire, di potersi ascoltare, di poter soffrire, di poter gioire, di poter sperare e di farlo con questa consapevolezza che cresce e deve crescere nel nostro cuore, senza però mai dimenticarsi di questo suo statuto di scheggia, lasciando così spazio alla libertà incommensurabile di Dio, il quale non ci impedisce di cercare, non ci impedisce di studiare, non ci impedisce di ascoltare, anzi, reclama un uomo che sfida le frontiere, ma nello stesso tempo gli ricorda con queste parole stamani e con la vicenda del Signore Gesù la sua condizione di essere creato, essere salvato, perché la scheggia da sola nulla può fare in questi enormi meccanismi che da un capo all’altro di un’era, in miliardi di anni, cerca di farsi coraggio nell’avventura dell’esistenza.
E allora fratelli e sorelle, ci sia questa misura di gratuità, ci sia la consapevolezza che al di là di quello che noi possiamo avere e possedere siamo per primi noi gli zoppi, i ciechi, i sordi, cioè coloro che di fronte all’assoluto di Dio nulla hanno in tasca con cui contraccambiare e questa stessa logica di gratuità, di esserci come scheggia senza nulla in cambio, sia il nostro stile col quale ci avviciniamo alle galassie racchiuse nei cuori sofferti delle persone che avviciniamo, ci sia questo senso che non contraddica, ma al contrario espanda questo mistero che fa del nostro essere scheggia la possibilità di una storia umana dal sapore diverso, dal sapore di stupore, lo stesso con cui di notte, d’estate, alzando lo sguardo verso il cielo, ci domandiamo ancora una volta col salmista “che cos’è l’uomo perché di fronte a questo assoluto tu te ne possa curare?”
Eppure il Signore in queste parole e nella vicenda che celebreremo fra poco nell’Eucaristia, non solo ci pensa, non solo ha cura, ma perde sé stesso in Cristo crocifisso, pur di restituire a questa sua piccola scheggia la consapevolezza e la dignità del potersi pensare. Amen!
Omelia Messa Vespertina
Cari fratelli e sorelle, ci sentiamo e ci dovremmo sentire stasera anche noi i poveri, gli storpi, gli zoppi e i ciechi invitati dal quel Signore ad una rigenerante sponsalità col suo amore, nella consapevolezza di non avere nulla da poter dare in cambio a questo dono incommensurabile che è proprio la vita divina che lui comunica in una esperienza inaudita, per l’appunto di comunione, in quella celebrazione che fa dell’Eucaristia il cuore dell’incontro rigenerante con un mistero che sceglie di insediarsi, letteralmente insediarsi, nell’intimo angusto del nostro cuore perché finalmente si dilati e riscopra l’incommensurabilità di quell’amore che si degna di dimorare nel nostro piccolo.
Una esperienza, fratelli e sorelle, che è un tutt’uno con l’invito, non a caso qui accanto nella pagina evangelica appena proclamata, un invito all’umiltà, al sentirci una volta tanto collocati e collocabili in quel posto di marginalità che di fatto la sapienza del cuore in ascolto riscopre, come unica vera posizione della nostra poverissima e fragilissima creaturalità, così brava ad architettare piedistalli geometrici su cui collocare presuntuosamente le nostre ambizioni ma che qui invece è riportata all’humus, così informe e materico, humus terra, dal quale noi veniamo, fratelli e sorelle, secondo la prospettiva antropologica che Genesi restituisce alla nostra intelligenza credente, un humus ravvivato e inabitato dal soffio dell’amore di Dio che ci rinnova in una dimensione verticale, senza però farci dimenticare quel poco da cui veniamo.
E anzi se proiettiamo questa pagina evangelica nell’arco di una rilettura scientificamente assodata dell’intera vicenda umana e più ancora della storia del nostro pianeta, forse davvero scopriamo che non possiamo altro che dichiararci umilissime creature, vive in questa vita attraverso una serie di avventurose peripezie che, dalla caduta di giganteschi meteoriti, dall’implosione di stelle, da energie fluttuanti nella vastità quasi infinita del cosmo, per tutta una serie di singolari combinazioni possono oggi respirare e in questa luce riecheggia la parola del salmista, antica e nuova, con la quale, sia con l’occhio ancora segnato da mitologie antiche, sia con l’occhio aggiornato da modernissime competenze scientifiche, la parola è sempre quella: Signore, che cos’è l’uomo perché tu te ne possa curare?
Se lo ricollochiamo in questo arco esistenziale che include miliardi di anni, fratelli e sorelle, nei quali l’evoluzione e la storia delle materie che costituiscono questo universo lasciano che finalmente sgorghi questa nostra vita che assume proprio per questo un’incidenza, diciamolo con franchezza, di una scheggia di vita, di una scheggia di vita quasi persa in questo orizzonte universale, e tuttavia a ricordarci cosa significhi la consapevolezza umile che la sapienza del Signore oggi ci suggerisce questa scheggia sa di essere desiderata, cercata, amata da quell’amore di quel Dio che non esita a farsi uomo per restituire pienezza a quella scheggia, per restituirle quella dignità che la rende, pur nella sua fangosa e argillosa consistenza, una possibilità inaudita, quella di pensarsi, fratelli e sorelle, siamo schegge che possono pensarsi, liberamente pensarsi, porsi in domanda, in interrogativo di fronte a questo mistero che ci supera, ci trascende, sia da un punto di vista, si direbbe scientifico, sia –ed è la prospettiva che ovviamente più ci interessa- sia da un punto di vista teologico, cioè questo oltre di Dio che talvolta sembra lontanissimo, ma che in queste misura così profonde e vive quali quelle della liturgia davvero palpita come esperienza di senso per la quale noi siamo qui stasera in ascolto, fratelli e sorelle, cioè secondo quella prospettiva che è un tutt’uno con l’esercizio dell’umiltà e che la Prima Lettura ci ha ricordato, l’attitudine all’ascolto propria di un cuore sapiente, propria di un cuore che riconosce l’urgenza di mettersi in ascolto della parola, che sente la necessità di riscoprire quasi il riverbero di una sorta di cosmica sinfonia che ci racconta, oltre la vastità di questo cosmo che abitiamo come schegge viventi, la sapienza di colui che ha posto in essere le cose che sono proprio perché di questo sia consapevole la nostra umilissima e fragilissima scheggia di vita.
E questa rilettura fratelli e sorelle, che colloca forse un po’ faticosamente l’istanza dell’umiltà e una rilettura complessiva della storia di questo nostro cosmo, oggi ci viene anche suggerita dalla bellissima pagina della Lettera agli Ebrei che con grande potenza demitizza e desacralizza tutte quelle forze della natura che la grande mitologia antica aveva in qualche modo riconosciuto come forze misteriosamente divine, di fronte alle quali la nostra intelligenza doveva necessariamente soggiacere, la potenza del tuono, la potenza di altri elementi che con la loro impetuosa possanza necessariamente schiacciavano l’uomo in questa condizione quasi servile. E invece no, Lettera agli Ebrei ci ricorda che la nostra dinamica è quella verticale di una ricerca del mistero che ci avvicina niente di meno che a una città invisibile, incontra un Dio invisibile, cioè capace di trascendere la forza di questi elementi e quindi ci colloca in una dimensione assai affascinante, tutta una dinamica in cui è coinvolto, certamente il nostro patrimonio sensoriale, perché no? Ma anche la forza della nostra intelligenza, del nostro pensiero, del nostro trascendere le cose per andare, fratelli e sorelle, in questa bellissima avventura che la fede ispira, non mortifica e cioè la ricerca della sorgente grazie alla quale noi, anziché non essere, noi invece siamo!
Ecco questa prospettiva il Vangelo oggi la risveglia, la risveglia in una dimensione fratelli e sorelle, che tiene insieme nello stesso tempo la gratuità del nostro essere creati, non perché Dio possa aspettarsi qualcosa in cambio dal nostro niente, anzi lui ci insegna, ci instilla questa logica di gratuità rappresentata da questo invito bellissimo da rivolgersi in realtà a chi come noi, fratelli e sorelle, come noi è povero, zoppo, cieco, sordo, riporta cioè l’umanità a questa essenzialità per la quale nessuno è più ricco di un altro di fronte alle grandi domande che scuotono la nostra coscienza, e tutti ci riscopriamo segnati, per grazia, per mistero, da una indigenza che solo l’amore di Dio può trasformare in ricchezza da condividere, attraverso la grande grazia del nostro essere Chiesa, del nostro essere comunione, del nostro essere tutti, fratelli e sorelle, apostoli e missionari di una speranza nuova per l’umanità del nostro tempo.
E ancora, fratelli e sorelle, in questa bellissima e corroborante luce di grazia, la scoperta di un’umiltà che non è un generico psicologico atteggiamento quasi fallimentare e frustrato di modestia e di insuccesso, ma è al contrario una consapevolezza esistenziale che ci riporta ai bordi del nostro universo, ma nello stesso tempo, la consapevolezza di essere al centro del cuore di Dio.
Questo ci interessa tantissimo: essere al centro del cuore di Dio, essere nonostante tutto, amati, cercati, desiderati, financo salvati da quel Dio che dal suo assolutamente assoluto si fa strada in Cristo verso queste tempeste cangianti che sono la nostra contraddittoria storia nella quale lui si insedia, fa lì la sua dimora, il suo tabernacolo, nel nostro cuore.
Ne abbiamo abbastanza fratelli e sorelle per riprendere con speranza il nostro cammino, la nostra testimonianza, in una prospettiva che non è né generico ottimismo, né rassegnato pessimismo, ma è quell’inquietudine del Quaerere Deum che fa grande nella sua piccolezza la nostra condizione umana. Amen!
Trascrizione a cura di Grazia Collini