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«“Come riflessa in uno specchio, la gloria del Signore” e la nostra più vera umanità». La meditazione del padre abate Bernardo per il Natale 2024

Meditazioni

San Miniato al Monte, 19 dicembre 2024

 

Meditazione sul Natale

di padre Bernardo Gianni, Abate di San Miniato al Monte

«“Come riflessa in uno specchio, la gloria del Signore”

e la nostra più vera umanità»

 

Oppressi a lungo sotto il giogo del peccato, aspettiamo, o Padre, la nostra redenzione, la nuova nascita del tuo figlio unigenito, ci liberi dalla schiavitù antica. (Colletta Liturgia 18 dicembre 2024).

 

Cari fratelli e care sorelle, cari amici e care amiche di San Minato al Monte e non solo, ben arrivati nella nostra meditazione natalizia che si incastona, come vi è facile immaginare, nel nostro cammino di Lectio divina che è finalmente ripreso dopo una lunga pausa e che ci vedrà, dopo le feste di Natale, ad anno nuovo, riprendere la lettura dell’Epistola di Paolo ai Colossesi che padre Stefano ha iniziato e che porterà avanti un giovedì sì, un giovedì no. E in questo nostro incontro, stasera, vogliamo invece, anzitutto, benedire e ringraziare il Signore per averci portato quassù, certamente in obbedienza allo Spirito Santo che ci ha nascosto in queste viscere della nostra antica cantina, l’antica cantina del frantoio, dove è anche possibile scorgere, qua e là, l’emergenza delle rocce sulle quali è stata costruita la nostra abbazia, la basilica, rendendoci, per certi versi, partecipi di questa immersione battesimale, che è la vera cornice esistenziale, spirituale e teologica della nascita di Cristo, come bene sa soprattutto la grande tradizione orientale che, nelle sue icone, colloca la Natività di Cristo in un anfratto molto scuro della terra, perché da lì nasce a vita nuova la nostra umanità – associata in modo pieno, perfetto, consistente, sostanziale, certo con l’attrito delle nostre esistenze, ma pienamente congiunta a Cristo, figlio di Dio – nasce a vita nuova, liberandosi, direi per sempre, da quello che abbiamo implorato stasera insieme, facendo nostra questa splendida Colletta con la quale inizia la celebrazione liturgica, il 18 di dicembre: “Liberarci dalla schiavitù antica”, una liberazione che dà all’imminenza del Natale direi, davvero, un sapore, un carattere, autenticamente pasquale: una liberazione dal giogo del peccato, una liberazione da ogni condizionamento, sul quale si attua la dinamica redentiva dell’amore del Padre e del Figlio che, con lo Spirito Santo, spezza le catene nelle quali, anno dopo anno, ricadiamo, soggiacendo ai meccanismi della nostra psiche, a quelle strutture di peccato da cui le nostre relazioni, pur rinnovate dallo Spirito Santo, non riescono, di fatto, a distaccarsi.

E dunque in questa immersione semi-sotterranea, nella penombra di questo luogo quasi notturno, sentiamo di essere stati chiamati a contemplare una riformulazione, una riconfigurazione della nostra umanità, grazie alla celebrazione, ormai imminente, della “nuova” nascita del Figlio Unigenito del Padre celeste, una “nuova” nascita che è “nuova” perché la forza attualizzante dello Spirito Santo, inscritto nell’agire liturgico e nel tempo liturgico, rende quell’antica nascita di duemila anni fa un evento nuovo.

Ma c’è anche da dire che, ogni qualvolta noi prestiamo accoglienza, amore, ascolto al Figlio che viene in mezzo a noi, quando due o tre e più ancora sono riuniti nel Suo nome, noi effettivamente facciamo in modo che il nostro cuore, col suo silenzio, la sua accoglienza, diventi quel presepe vivente che stasera, tutti insieme, noi vogliamo essere, preparandoci ad un Natale, si direbbe, plenario e integrale, che non si limita a diventare una pur lodevole cornice devozionale, affettiva, psicologica, con dei tratti anche spirituali, ma certamente, senza esporci a quella, torno a usare questa parola, “riconfigurazione” della nostra persona umana, alla luce di tutto quello che il Signore Gesù, con la sua nascita, vuole donare alla nostra sete di libertà, sete di guarigione, sete di non avere più sete, fame di non avere più fame, entrare, cioè, in una pienezza dell’umano che vediamo smentita, certamente, dalle nostre ricadute nel peccato, torno a dirlo, dal nostro soggiacere a relazioni talvolta ammorbate da meccanismi di prevaricazione, di contrapposizione, di diffidenza, di paura, di minorità o, al contrario, di presunzione, di potere, di dominio.

Stasera ci sentiamo convocati, in un assaggio di presepe vivente, per scoprirci, tutti, in una beata povertà di fronte alla beata nudità del Verbo Incarnato, rivestito della sola Sua umiltà, e in questo ritrovarci tutti  poveri intorno alla Sua ricchezza, spoglia di potere, ma ricca di grazia, ecco che rinasce non soltanto la nostra singolarità personale, toccata e commossa da tanta gratuità, ma direi che rinasce anche la nostra consapevolezza ecclesiale; un momento questo importante, sentito, quasi urgente, esposta come è anche la nostra maternità ecclesiale a ripudi reciproci di quella o di quell’altra fazione, di quella di quell’altra sensibilità, di quella o di quell’altra spiritualità, se così si può dire.

Noi, invece, stasera, sentiamo una singolare forza coesiva, che lo Spirito Santo accende nei nostri cuori, orientandoli tutti nella stessa direzione, orientandoli tutti, cioè, verso questa arresa dell’amore di Dio alla durezza dell’uomo e l’arresa di amore del Padre celeste alla durezza dell’uomo è consegnarsi nell’infanzia del Signore Gesù, del suo Figlio, perché quell’infanzia generi nell’uomo un suo arrendersi a questa manifestazione disinteressata, incondizionata di amore, e noi siamo portati, stasera, a vivere e a rivivere questa tensione estrema: il picco di durezza della nostra umanità, di cui è simbolo la profondissima notte che il Verbo ha scelto per portarci la luce dell’amore del Padre, quindi un picco di oscurità, di indifferenza, di non accoglienza, e dall’altra parte il picco della autoproposta che l’amore di Dio fa di sé in Cristo Gesù: due polarità che si incontrano nel crinale natalizio e che producono, certamente, anche una vibrazione emotiva nel nostro cuore: guai se non ci fosse l’emozione, lo stupore, la meraviglia! Ma noi vogliamo, vorremmo dare una fondazione certamente anche teologica, antropologica, alle ragioni di questa emozione che proviamo di fronte a qualsiasi presepe, soprattutto se sono belli come quelli di Colombano, a qualsiasi tenerezza natalizia, che include anche le liturgie domestiche dei regali, dell’albero di Natale, dei pasti insieme, tutte cose benedette dall’amore del Signore, sulle quali non intendiamo affatto estendere facili e sbrigativi giudizi moralistici; una convergenza di noi, tutti insieme verso il Verbo abbreviato che è l’infante Gesù, questo compendio infantile di tutta la rivelazione, di tutta la storia della rivelazione, che è poi storia di salvezza, che si arrende alla nostra umanità, mostrandosi nella dimensione più fragile, apparentemente più debole ed esposta, come di fatto sarà esposta alla malvagità dell’uomo, perché ancora una volta l’autosufficienza dell’uomo blocchi sul nascere, con mentalità quasi abortiva, il dispiegarsi di una storia di salvezza di cui, invece, stasera sentiamo profondamente il bisogno, non di venirne tanto a conoscenza per approcci fondamentalmente e, in certi casi, lodevolmente intellettuali.

Noi sentiamo di aver bisogno, stasera, in questi giorni santissimi, di avvertire che la nuova nascita del Signore Gesù è una nascita che accade nell’intimo del nostro cuore, coralmente coeso dallo Spirito Santo come evento ecclesiale, che fa di questo nostro radunarsi un capitolo di storia della salvezza che arricchirà, con i suoi riverberi, le singole storie di salvezza, cioè di perdono, di accoglienza, di reciprocità, che ognuno di noi porterà avanti, da stasera in poi, in questi santi giorni, in tutti i contesti che attraverserà, avendo come carburante indefettibile il fuoco della carità, la visione della speranza e, naturalmente, questo varco, che rende i nostri cuori combustione inesausta di amore, che è il varco della fede, sulla quale stasera non possiamo non tornare a interrogarci, perché il Natale non può non sollecitare la nostra fede, che è anche un’esperienza cognitiva, cioè la fede come strumento, via, metodo di conoscenza di ciò che l’amore di Dio propone, sollecitando il nostro cuore, il nostro pensiero.

Non manca mai ripetutamente – per usare un avverbio che in questi giorni risuona in comunità – qualche riferimento poetico, in particolare stasera a Margherita Guidacci (v. elenco testi di riferimento pp. 14-17):

Per noi nessuno specchio fedele o deformante.

Non esistono pozze d’acqua tremula né vetrine per un furtivo sguardo.

Sconfitto è il  γνῶϑι σεαυτόν  dall’assoluta mancanza d’immagini.

Grigiore di muri, d’asfalto, di nebbie compatte.

Tagliati fuori dalla conoscenza solo dell’ignoranza ormai cerchiamo la chiave.

Il mondo è divenuto così opaco o siamo noi che non abbiamo più volto?

Straordinari questi versi di Margherita, che ci appaiono inattuali in un tempo in cui, in realtà, il nostro volto è protagonista, per il Narciso che abita in noi, di una innumerevole variazione di autoritratti, che sono i vari selfie che rimbalzano nell’etere, da telefono a telefono, per le finalità, per carità, lodevolissime, quelle cioè di accorciare con la tecnologia, in forza dell’emozione, qualsiasi distanza; ma anche qui possiamo e dobbiamo domandarci se il Natale dà una fondazione ulteriore a questo gioco speculare di volti catturati da uno specchio tecnologico e, d’altra parte, Margherita sembra avere attualissima ragione nel dirci che, effettivamente, manca una affidabilità per questa nostra sete di vederci, guardarci e, direi, “contemplarci”, cioè inscriverci nel mistero di un tempio che, effettivamente, introduca il nostro labile volto in una dimensione che non sia quella labile e transeunte dei nostri dispositivi digitali, e quandanche fossero essi fedeli, essi non bastano a squarciare “le nebbie compatte”, il “grigiore di muri, d’asfalto”, l’indisponibilità di “pozze d’acqua” e di “vetrine per un furtivo sguardo”: tutto sembra essersi dissipato, distrutto, reso frammentario: questo l’aspetto che a me sembra veramente di straordinaria forza evocativa, cioè la frammentazione come l’impossibilità, per ciascuno di noi, di avere di fronte uno specchio che ci faccia intuire chi noi veramente siamo.

E questo, credo, sia il prezioso guadagno che la convocazione che lo Spirito Santo ha reso in tutti noi performante, stasera, col nostro essere qui: ci assicuri, cioè, la possibilità di tagliarci fuori dalla non-conoscenza, accedendo alla chiave di una esperienza che apporta ai miei sensi, al mio cuore, alla mia intelligenza, una autentica formazione circa quello che veramente siamo chiamati ad essere e a diventare, l’ “altissima vocazione” – come ci insegna Gaudium et Spes, il Concilio Vaticano II – che, effettivamente, l’Incarnazione del Verbo consegna alla nostra inquieta e raminga ricerca del significato del nostro essere uomini e donne nell’avventura della vita.

Per questo è bello, è importante essere, certamente in modo tutto speciale, con la fecondità sua propria, fedele al calendario del tempo, la notte di Natale o nelle ore di Natale e di poi anche in tutta l’ottava e il tempo di Natale, ma già stasera, bruciando i tempi, è importantissimo essere qui tutti insieme, ricordandoci, guardandoci gli uni negli altri, come facciamo quando la comunità si raduna, che abbiamo un volto, un volto riconoscibile con le sue fattezze tenere e carnose, che abbracciamo, baciamo, accarezziamo, per tutta la dinamica di una verità di ardore e di carità inscritta nel grande mistero dell’Incarnazione; e quindi si smentisce, stasera, l’assoluta mancanza di immagini e, approfittando dell’immagine che il volto di ciascuno di noi, ma anche il volto che si pone di fronte al volto del bambino Gesù, possiamo accedere al γνῶϑι σεαυτόν, al “conosci te stesso”, “conosci te stesso”, questo invito della grande sapienza e filosofia classica che il cristianesimo raccoglie, raccoglie perché in Cristo Gesù, come assicurava in Dives in misericordia san Giovanni Paolo II, cristologia e teologia si incontrano, non possono escludersi a vicenda; se così accadesse dovremmo indebolire ereticamente il mistero dell’Incarnazione.

E stasera, proprio per questa nostra prassi, direi, radicalmente ortodossa, noi cerchiamo di intuire chi noi veramente siamo, conoscendo noi stessi, guardando il volto del Cristo, che è lo specchio nel quale si riflette l’integrità della persona umana, l’integrità della persona umana, perché come dice Gaudium et spes, effettivamente questa rivelazione del Signore Gesù svela l’uomo a se stesso, oltre a dirci chi sia per noi Dio, il Padre; quindi c’è una pienezza di comunicazione che viene a dissetare la nostra sete, a sfamare la nostra fame di verità, di significato, in una prospettiva che si contestualizza in un momento storico dove tutto va a detrimento di questa interpretazione plenaria e, nello stesso tempo, relazionale dell’umano: in tempo di guerra la relazione muore, in tempo di oppressione la specularità si deforma e si depotenzia l’autoconsapevolezza che l’uomo e la donna dovrebbero avere nel proprio cuore.

Stasera siamo in questa grotta perché la sua penombra, che dovete immaginare rischiarata dal volto di Cristo, ci renda come quei pastori, partecipi con meraviglia, stupore, emozione, di uno specchio che il Padre celeste, per misericordia, pone sotto i nostri occhi, nella speranza che noi, che siamo abitualmente dei narcisi, spostiamo le orbite del nostro cuore e dei nostri occhi da noi stessi verso di Lui; perché questo è l’evento natalizio: spostarci da noi stessi e andare verso Lui che ci è donato dal Padre; questo è il movimento da compiersi.

 

Ci aiuta e ci soccorre in questo san Basilio (v. elenco testi di rifermenti pp. 14-17):

La potenza divina, come raggio attraverso un cristallo,

splendeva in quel corpo umano, rifulgendo dinanzi agli occhi puri del loro cuore. (Basilio si riferisce ai pastori accorsi davanti al presepe).

Potessimo anche noi trovarci con loro a contemplare con sguardo puro, come

riflessa in uno specchio, la gloria del Signore, per essere trasformati anche noi di

gloria in gloria, per grazia e bontà del nostro Signore Gesù Cristo.

È mirabile la sua sintesi, così feconda (quello che io ho detto in venticinque minuti Basilio lo dice in cinque righe! Lui è Basilio, io sono Bernardo da Prato, uno è Magno, l’altro è pratese, con tutto l’amore per la mia città d’adozione!).

La potenza divina è l’amore del Padre, naturalmente, che come raggio attraverso un cristallo, splendeva in quel corpo umano, il corpo del Signore Gesù, che è corpo umano, rifulgendo dinanzi agli occhi puri del loro cuore.

Per certi versi un occhio tenetelo aperto per leggere, l’altro lo chiudete e immaginate quella sequenza, quasi interminabile, di Natività: qui bisogna spostarci dall’Oriente e andare verso l’Occidente e penso a quelle mirabili natività di Gherardo delle Notti, della grande tradizione fiamminga, dove effettivamente nell’oscurità brilla il bambino Gesù, davanti all’occhio estatico di chi lo contempla, avendo così un’esperienza di fulgore che Basilio qualifica, a tutti gli effetti, come un’esperienza speculare; naturalmente, per rendersi conto di questo, per accedere a questo, occorre quello che lo Spirito Santo sta facendo in tutti noi, me per primo che, forse, ne ho anche più bisogno di voi: sta lavorando sulla nostra incredulità, sta lavorando sulla nostra incredulità, perché il nostro radunarci insieme, cari fratelli e sorelle, cari amici e care amiche, il nostro leggere insieme, pregare insieme, ascoltare insieme, è un grande cantiere in cui la nostra poca fede, la nostra titubanza, il nostro dubbio, nella coralità di questa comunione generata dallo Spirito, fa delle nostre povere fedi un intreccio, che trasforma l’esiguità dei nostri cuori in una stoffa robusta, una stoffa robusta che madre Chiesa tesse per darci consistenza adeguata alle sollecitazioni che, anzitutto, lasciatemelo dire con un linguaggio apocalittico, il nemico, il nemico opera per lacerare quei fili, addirittura quella stoffa e, quando non ci pensa il nemico, c’è la nostra storia che basta e avanza, ahimè, forse davvero mai come ora il nemico può dormire sonni tranquilli, perché ci pensiamo da soli ad una diabolicità in atto su tanti e tantissimi  fronti di contrapposizioni, di inimicizie e quant’altro e, naturalmente, di ablazione, dal profondo dei nostri cuori, di questo senso di apertura umile e intelligente all’amore che viene dall’alto, che è la grande proposta che il Padre celeste ogni Natale fa ai nostri cuori, con questo, direi, “meccanismo dell’arresa”.

Allora noi siamo con questi pastori a contemplare con sguardo puro, come riflessa in uno specchio, la gloria del Signore; questo specchiarci non ha l’esito catastrofico che ha per Narciso lo specchiarsi sulla superficie dell’acqua, alla fine ne resta, come tutti sanno, inghiottito, perché c’è una forma, poi alla fine, di “filautìa”, di “amore di sé”, di auto-concentrazione per questa indisponibilità all’alterità, per questa indisponibilità a muovere, come ho cercato di dire prima, le orbite del nostro occhio da noi stessi verso Colui che il Padre ci dona per questo straordinario esercizio di uscita da noi stessi, che a Natale si fa oltremodo raccomandabile, perché uscire da noi stessi non significa, appunto, gettarci nelle acque del lago, alla ricerca di una auto-sopravvivenza, tutta concentrata sulla modalità, apparentemente rassicurante, di un amore integralmente riservato alla sussistenza e sopravvivenza della mia individualità. Un grande incoraggiamento, perché quello di Narciso è una sorta di pseudo-battesimo fallimentare: da quell’acqua nessuno lo tira fuori!

Noi, invece, guardando a Cristo, al suo volto, contempliamo la gloria del Signore, che viene dall’alto – la potenza divina, come il raggio attraverso il cristallo, splendeva in quel corpo umano – ed ecco che siamo trasformati anche noi di gloria in gloria, per grazia e bontà del nostro Signore Gesù Cristo, dove questa grazia e bontà del nostro Signore Gesù Cristo andrà, io credo, commentata, sottolineando – come cercheremo anche di fare, poco più avanti, con un passo molto bello del Vangelo di Luca, che segna la fine dell’infanzia di Gesù – il fatto che per Gesù non è affatto comodo stare sdraiato in una mangiatoia, in mezzo alla paglia, ma anche come, qualche padre della Chiesa azzarda, in mezzo allo sterco di quegli animali che, abitualmente, si nutrivano e vivevano il loro metabolismo in quell’ambiente dove nasce l’Unigenito Figlio di Dio, al freddo, non avendo ricevuto accoglienza nella città di Betlemme, “perché non c’era posto per loro”(tutti si ricorderanno questo inciso di fondamentale pregnanza nella narrazione lucana), e in tutto questo c’è davvero la consapevolezza che il Signore Gesù è lì per grazia e bontà, bontà di umiltà, direi proprio di arrendevolezza d’amore incondizionato, che impareremo a conoscere nella sua storia coerente con se stessa, di amore incondizionato, che già iniziamo a contemplare proprio in questo suo guardarci – noi, se fossimo Lui, diremmo – dall’ “alto verso il basso”; chi più di lui può permettersi di guardarci dall’ “alto verso il basso”? Invece no, Lui ci guarda dal basso verso l’alto, facendoci, lasciatemi usare questa espressione, “sentire importanti”, noi che importanti effettivamente non siamo.

Ma oltre a questo, questa grazia e bontà del nostro Signore Gesù Cristo, che gode quindi del compiacimento del Padre, come impareremo a contemplare nell’acqua del Giordano, fa in modo che si attui quello che poi Paolo, scrivendo ai Corinzi, dirà in un modo di un dinamismo assimilativo nello spirito, di straordinaria bellezza evocativa, che è uno dei passaggi più belli per me diciamo del Nuovo Testamento:

E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore (2 Cor 3.18)(v. elenco testi di riferimento pp. 14-17).

Queste sono tutte cose che avete molto ben presente, io in questa meditazione di Natale non vi dico nulla di nuovo, ho il compito, che sento insomma utile in questo momento, di rinfrescare, diciamo, la consapevolezza per questo cantiere di fede, di speranza e di amore che, grazie a Dio, senza impalcature, qui, stasera, in cantina, stiamo vivendo assieme, grazie al proposito dello Spirito Santo.

E dunque ci piace questa azione dello Spirito del Signore che rende cioè perennemente attuale, feconda, si direbbe, oggi, performante, quello che iniziamo, abbiamo iniziato, hanno iniziato a sperimentare, per singolare privilegio, i pastori raccolti intorno al presepe: i pastori raccolti intorno al presepe hanno iniziato a vivere quello che, in realtà, lo Spirito può permette anche a noi, con alcuni dispositivi che sono tutti conseguenza del Natale del Signore Gesù, i dispositivi iconici, cioè l’immagine del volto del Signore Gesù, direi il volto anzitutto nella grande tradizione delle icone orientali, come ben sa il nostro Fernando, ma non solo, anche naturalmente tutta la grande arte occidentale che ha superato questa indisponibilità del divino a lasciarsi trascrivere da una forma antropomorfica, che invece per noi è essenziale; e poi, naturalmente, i grandi dispositivi sottesi all’agire liturgico della Chiesa, che ci riversano lo Spirito nella sua forza di assimilazione a Cristo della nostra fragile umanità.

E noi stasera, ricapitolando tutto questo e posizionandolo davanti all’inizio di tutto questo, che è la grotta di Betlemme, sentiamo che possiamo riprendere una rincorsa, uno slancio, un’accelerazione di fede, di amore, di speranza, avvertendo, tutti insieme, che il kairój, l’occasione, è questa, non la cerchiamo altrove! E ne è garanzia – lasciatemi usare questa espressione un po’ commerciale – esattamente la fedeltà al tempo che si manifesta attraverso la liturgia, così da farci salutare la nuova nascita del Figlio Unigenito del Padre celeste, e con la sua nuova nascita – come abbiamo pregato all’inizio di questo incontro – il gusto, direi il gusto, della liberazione dalla schiavitù antica, la liberazione dal giogo del peccato, dall’oppressione, dall’oscurità di cui sono, nello stesso tempo, simbolo e concreta esperienza le nostre rassegnazioni, le nostre disillusioni, le nostre frustrazioni; stasera il Natale inizia ad accendere nel nostro cuore una forza che troverà il suo compimento nel 24 dicembre, 25 dicembre, perché si dissolvano questi meccanismi di contenimento della libertà dell’uomo nel suo lasciarsi amare e nel suo amare: questa è la nostra vera libertà.

Protagonista di ciò è lo Spirito Santo, che ci riporta ancora una volta al cuore di tutto questo consapevole esporci, da parte nostra, ad una forza finalmente trasformante, di più, trasfigurante della nostra condizione umana, e sempre nel segno di quella coralità propria di ogni accadimento liturgico ed eucaristico, perché non stiamo parlando di trasformare il Narciso che è in noi in una sorta di evangelizzazione del narcisismo; qui siamo ben consapevoli – lo abbiamo detto all’inizio di questo nostro incontro – che in gioco stasera è anche la qualità della nostra matrice ecclesiale, quindi anche il senso della nostra missione, lo slancio, la passione, la gratuità di quell’annuncio, di quel contagio di grazia, che non può non starci profondamente a cuore, soprattutto osservando, lasciatemelo dire senza paternalismo, con pena, con pena, nel senso più bello di questa parola, la sofferenza, l’inquietudine, la frustrazione dei nostri giovani.

Accetta, o Padre, – pregheremo la notte di Natalela nostra offerta in questa notte di luce, e per questo scambio di doni trasformaci nel Cristo tuo Figlio, che ha innalzato l’uomo accanto a te nella gloria. (v. elenco testi di riferimento pp. 14-17).

Qui troviamo proprio l’appaiarsi dell’esperienza a-liturgica dei pastori intorno alla grotta in quel rinnovarsi liturgico dello spettacolo natalizio: accettare la nostra offerta in questa notte di luce significa riconoscere che con quel pane e con quel vino che mettiamo sull’altare c’è il nostro lavoro, la nostra quotidianità, in una parola, la nostra umanità, che chiediamo al Padre di accettare, di accogliere, e Lui ci sta, per tutto l’impianto di arrendevolezza d’amore sotteso al mistero natalizio, e l’esito di tutto questo è la trasformazione, per questo scambio di doni, di tutti noi nel Cristo tuo Figlio; non so se vi rendete conto della pregnanza di questo verbo: “trasformaci” nel Cristo tuo Figlio, non ci dice “avvicinaci”, “accostaci”, “facci assomigliare”, no! “Trasformaci” nel Cristo tuo Figlio: questa è la pregnanza ontologica di cui noi contempliamo l’inizio, spostando i nostri occhi da noi stessi allo specchio di Betlemme, allo specchio di quella grotta.

Lui che ha innalzato l’uomo accanto a te nella gloria: torna questa gloria e torna questa dimensione servizievole del Signore Gesù, scomoda, faticosa, Gesù non sta lì a giacere come  – con tutto il rispetto e consapevole anche di quanto sia faticoso nascere e trascorrere le ore iniziali della propria esistenza  – ma diciamo che, pur essendo un bambino come tutti gli altri bambini nella sua dimensione umana, qui dobbiamo anche renderci conto che, da parte del Signore Gesù c’è, fin dall’inizio, la consapevolezza di assumersi un immane sforzo, che è uno sforzo di sollevamento (“innalzare” l’uomo accanto a te nella gloria) e anche divenire – con espressioni che, effettivamente, possono rasentare, se usate male, addirittura direi declinazioni eretiche, ma certamente, attingendo all’espressione, direi, perfetta della delicatezza di quanto vogliamo stasera ricordare, in riferimento all’umanità del Signore Gesù e a quanto essa è stata, direi, senza sostituzioni, compromessi e edulcorazione di genere, in grado di compiere, obbedendo al Padre – l’innalzamento della nostra umanità -, ecco che Ireneo (v. elenco testi di riferimento allegato pp. 14-17) ci dà i termini perfetti di questa fatica disonorevole, faticosa, sporca di sterco, per essere molto chiari, che il Signore Gesù, fin dall’inizio, ha assunto:

Il Verbo di Dio si è fatto uomodice Ireneo – e il Figlio di Dio si è fatto figlio dell’uomo perché l’uomo, unito al Verbo – “unito al Verbo” – e ricevendo l’adozione, diventi figlio di Dio. Non potevamo infatti in nessun altro modo ricevere l’incorruzione e l’immortalità se non con l’essere uniti all’incorruzione e all’immortalità. E come poi avremmo potuto essere uniti all’incorruzione e all’immortalità se prima l’incorruzione e l’immortalità non si fosse fatta quello che siamo noi, ecco il mistero del Natale: “non si fosse fatta quello che siamo noi” – perché ciò che era corruttibile fosse assorbito dall’incorruzione, e ciò che era mortale dall’immortalità, e noi potessimo ricevere l’adozione di figli? (Adv. Her. III,19).

Siamo giunti, così, a questo mirabile approdo che potrebbe, di suo, già bastare per congedarci e consegnarci ad un gesto di adorazione del Verbo Incarnato, per tutto quello che significa a tutti noi – non so se vi rendete conto dell’espressione, è Ireneo, è quindi un padre di sicura ortodossia, direbbe san Benedetto nella Regola:

… ciò che era corruttibile fosse assorbito dall’incorruzione, e ciò che era mortale dall’immortalità…

Vedete che c’è come una sorta di – userei dei termini quasi medicali (mi perdonerà Elia) – c’è qualcosa che ha a che fare con una sorta di metastasi e di metabolismo, che indica una vera e propria guarigione della nostra carne, delle nostre inconsistenze che, effettivamente, di fatto, nella frammentazione di quegli specchi che lamentava Margherita Guidacci, ci fanno mancare all’appuntamento con la verità di noi stessi e che stasera, invece, sentiamo, per amore, per grazia, riformularsi anche attraverso le vie dell’emozione, oltre quelle messe a dura prova dalla mia pesantezza del pensiero, perché si acceda a questo ritrovato guardarci per scorgere, finalmente, la rivelazione di quello che veramente siamo e diventiamo “in”, “con” e “per” Cristo Gesù.

Ma io vi chiedo uno sforzo ulteriore, vi chiedo uno sforzo ulteriore perché mi interessa molto stasera sottolineare, ancora una volta, lo sforzo del Signore Gesù, cioè mi piace che si abbia un’idea di questo attrito che l’amore del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo attraversa, subisce, per salvarci, per venirci incontro; è necessario dirlo, perché effettivamente l’immagine è quella un po’ astrale, siderale di grande suggestione, anche se, naturalmente, improponibile da un punto di vista teologico: pensate alla meteora che cade e che, incontrando la resistenza dell’atmosfera, si accende, si consuma e brilla, scintilla; ecco, mi piace usare questa immagine perché, effettivamente, la discesa del Signore Gesù non è un atterraggio in una comfort zone, come si suole dire e anche se, naturalmente, non implica affatto alcuna autodissoluzione, certamente in questa immagine delle scintille appare chiaro che quella rivelazione scintillante che ha attratto i pastori, che attrarrà i magi, continuerà ad essere il riflesso luminoso, ha un suo prezzo per il Signore Gesù, ha un suo prezzo, fin dall’inizio ha un suo prezzo, e noi, lasciatemi dire, che in questo momento storico in cui tutto si deprezza, fuorché, ovviamente, quanto resta nella logica dell’apprezzabile che è quello che, necessariamente, è l’ambito del mercantile (lungi da me farci morale sopra, anche perché siamo in prima linea, con voi, in tutto questo, grazie alla nostra, diciamo, boutique!), ma il punto è che, effettivamente, ormai si apprezzano le cose che dobbiamo vendere; è a quanto le vendiamo che noi riconosciamo generalmente un valore, un valore che rischia di far assorbire l’antropologia nella merceologia (io sono un po’ eccessivo e paradossale, ma credo che mi seguiate in questo aspetto).

Allora noi stasera abbiamo bisogno di capire quale apprezzamento possiamo, invece, riscoprire estraneo a tutta questa logica qua, per riconoscerci amati dal Padre e dal Signore Gesù e amati dal Padre nel Signore Gesù: un valore, un significato, una durata, una potenzialità, una crescita, che rigetterà tutti noi, uscendo da qui – soprattutto dopo i giorni santi del Natale – nell’avventura della vita e addirittura nella sfida di un nuovo anno, lasciatemelo dire, con un impeto, con un’energia, con una gratuità, con la condivisione di un valore estraneo alle contingenze delle borse merci, necessarie, certamente, per la nostra sussistenza, ma inadeguate nel dirci chi veramente siamo, come in fondo Margherita ci ha fatto ben capire.

E allora giunge provvidenziale questo ulteriore tassello liturgico che ieri mi ha colpito tantissimo nella celebrazione della messa, cioè:

Il sacrificio che celebriamo, o Signore, ci renda graditi al tuo nomeapprezzabili, diciamo così, al tuo nomeperché possiamo partecipare alla vita eterna del tuo Figlio che, facendosi mortale, ha guarito la nostra mortalità (Offerte, Liturgia 18 dicembre 2024v. elenco testi di riferimento pp. 14-17).

Vedete che tutto quello che sto, faticosamente, e me ne scuso, cercando di dirvi è tutto a pro, si direbbe, di una consapevolezza di incremento di un valore che non possiamo darci da soli e anzi, se ce lo diamo da soli, restiamo dei narcisi, ma è un valore che abbiamo comunque, direi, per usare un’espressione della modernità, il dovere e il diritto di riscoprire, pena il perderci noi stessi perché gli specchi sono rotti e i riflessi indisponibili; d’altra parte questo specchio non è soltanto la statica e tenera emotività del presepe.

Vorrei andare un pochino più in profondità con voi, stasera, e d’altra parte, la liturgia indica anche un metodo per questa acquisizione veritativa, un metodo dinamico, performante, un metodo che è una verità che, celebrata, tocca e investe la pienezza della nostra umanità, e quindi ben venga come sorgente non solo di ispirazione, ma anche proprio di metodologia cognitiva, quello che preghiamo e soprattutto facciamo e viviamo nella liturgia:

Il sacrificio che celebriamo ci renda graditi al tuo nome e questo sacrificio è il sacrificio pasquale, la morte del Signore Gesù, la sua offerta, incondizionata, di quella carne e di quel sangue, che noi contempliamo nella staticità apparentemente confortante del presepe, che il Figlio dona, offre, restituisce al Padre, senza trattenerla per sé, e questo dinamismo, a pochi giorni dal Santo Natale, di quella carne di quel sangue ha come esito il renderci graditi al tuo nome: diventiamo anche noi, con Lui, assorbiti, attratti, congiunti all’offerta di sé, anche noi diventiamo qualcosa che il Padre gradisce e quindi si restituisce questa dimensione relazionale che Gesù inaugura, lasciandoci intuire di venire da un’origine che è il Padre celeste, che se noi escludiamo dall’orizzonte dei nostri giorni, ci rende, inevitabilmente, disperati, perché orfani: questo è il punto: orfani, e orfani noi non siamo, anzi, possiamo e dobbiamo partecipare alla vita eterna del tuo Figlio che, facendosi mortale, ha guarito la nostra mortalità, come ci spiegava molto bene Ireneo, lasciandoci, cioè, intendere che questa adozione che guarisce la sensazione e la percezione di essere orfani è un’adozione che schiude la nostra vita a degli orizzonti sconfinati, oltre il tempo, oltre lo spazio.

Ed è esattamente proponendovi questi abissi siderali, chiaroscurali, in quest’ora della notte, che io vi rilancio – permettetemi questa prima persona singolare – vi rilancio, naturalmente assieme ai miei fratelli, all’avventura della vita, finalmente guarita dalla mortalità, ovvero libera dall’oppressione del peccato, libera dall’oppressione del giogo di ogni servitù idolatrica, libera dall’angoscia, che non significa, naturalmente, facciamo finta che tutto va be’, come cantava, negli anni 70, una canzone che faceva da sigla agli episodi di Fracchia; scusate questi confronti: era proprio così: “Facciamo finta che tutto va be’ tutto va be’, facciamo finta che tutto va be’, che il cielo sia costantemente azzurro eccetera eccetera… ora, scusate questa inserzione canora, ma non è questo, naturalmente, non è questo, non è un far finta, non è un far finta.

Ora il tempo non ci aiuta, ma a me basta a questo punto… certo, ho calcolato, come al solito, male tutto… non voglio trattenervi fino a notte fonda!

Diciamo che, per renderci, diciamo, narrativamente ed esistenzialmente congruo questo scenario liturgico, io lo ancoravo ad uno scenario, peraltro molto noto, della vita del Signore Gesù che, a sua volta, mi serve per riportarvi a questo momento in cui concluderemo questo nostro incontro che, come ormai avrete capito, non può che essere momento in cui siamo tutti insieme, con Gesù, davanti al Padre celeste, la sorgente della luce che si rifletteva sul Figlio specchio, perché inondando le nostre pupille ci rivelasse chi noi veramente siamo:

Giovanni 6, 25-51 (v. elenco testi di riferimento pp. 14-17), ma lo leggiamo molto rapidamente, perchè non si può fare altrimenti; io sono stato mezza giornata a cercare di ancorare la mia labile memoria a qualche passaggio esegetico ma, ma insomma l’essenziale è che tanto scorriate, però comprendendo bene che questi versetti hanno come sottofondo, come origine il mistero del Natale.

Gesù ha moltiplicato pani e pesci:

Giovanni 6 [25]Trovatolo di là dal mare, gli dissero: «Rabbì, quando sei venuto qua?».

Lui è scappato, Gesù, per il solito suo essere indisponibile ad una appropriazione abusante del suo obbedire ai disegni salvifici del Padre, staccandolo dal Padre, facendolo, fondamentalmente, diventare un idolo delle folle.

 

[26]Gesù rispose: «In verità, in verità vi dico, voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati.

Ascoltate, commentate da soli, siete bravi più che me, non voglio fermarmi, ma voi leggete, ascoltate, appaiando questi versi a tutto quello che abbiamo detto di questa nascita, di carne e di sangue.

 

[27]Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna, e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo». 

Il Padre ha messo il suo sigillo, che è quella luce di cui parlava Basilio.

[28]Gli dissero allora: «Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?». 

Questa interpretazione legalistica, prassistica, che corre il rischio di trasformare il mistero della gratuità di Dio, della sua grazia, della sua misericordia, in una adesione moralistica, che pretenderebbe, da sola, di sostituirsi alla fede, perché questo è il rischio, questo è il rischio.

[29]Gesù rispose: «Questa è l’opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato».

Ed è questo, questo per noi, l’orizzonte plenario di tutto il mistero del Natale: non possiamo fermarci alla sola grotta, stasera siamo nascosti qui dentro, perché in questa oscurità ci si domandi quale sia la sorgente della luce, da dove arrivi questa luce che ha questa grande grazia di rendermi possibile riflettere il mio brutto volto nella gloria della bellezza del volto di Cristo.

[30]Allora gli dissero: «Quale segno dunque tu fai perché vediamo e possiamo crederti? Quale opera compi? [31]I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: Diede loro da mangiare un pane dal cielo». [32]Rispose loro Gesù: «In verità, in verità vi dico: non Mosè vi ha dato il pane dal cielo, ma il Padre mio vi dà il pane dal cielo, quello vero; [33]il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo». [34]Allora gli dissero: «Signore, dacci sempre questo pane». [35]Gesù rispose: «Io sono il pane della vita;

Io sono il pane della vita, cioè la sua persona, la sua presenza, il suo dono, il suo amore, la sua comunione, le sue relazioni che costituiscono il pane della vita, cui accediamo, immergendo noi stessi nella totalità del suo essere inviato, donato come riflesso di luce, di concretezza carnale, dall’amore del Padre. È con questa consapevolezza plenaria, che solo la fede rende possibile, che noi, finalmente, sfamiamo la nostra fame, sfamiamo, dissetiamo la nostra sede, ma come? In questi termini qui:

chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete.

Perché si inserisce nella totalità plenaria della figliolanza obbediente, servizievole, glorificante del Padre celeste da parte del Figlio.

 [36]Vi ho detto però che voi mi avete visto e non credete.

E questo è anche un monito importante per noi che ci accingiamo a celebrare il Natale vedendolo Gesù, vedendolo nella grotta, ma non basta vederlo con la sola emozione e riducendo il tutto, lasciatemelo dire, ad un gioco di tenerezze che sono, sì, disarmanti, ma non basta; io credo che abbiamo veramente bisogno di restituire al Natale questa articolazione piena, che io non ho altro aggettivo per definirla se non pasquale, se non pasquale.

Ed è esattamente per questo che amo tantissimo e mi ha colpito tantissimo l’intonazione pasquale della Colletta dalla quale noi siamo partiti:

Oppressi a lungo sotto il giogo del peccato, aspettiamo, o Padre, la nostra redenzione, la nuova nascita del tuo figlio unigenito, ci liberi dalla schiavitù antica.

Anche la notte di Natale noi siamo popolo messianico che esce dalla prigionia egiziana, dalla cattività egiziana, attraversiamo il Mar Rosso, entriamo in una dimensione di liberazione, di guarigione, di vita eterna, nella consapevolezza che è inscritto tutto nel mistero del Verbo che si compendia per donarci, attraverso la celebrazione della sua nuova nascita, questo riscatto dall’oscurità nella quale siamo, insopportabilmente, precipitati e che queste lunghe ore di notte, quantunque attenuate da queste stupide luci che si proiettano, senza il nostro permesso, sulla nostra basilica, e che vogliono in qualche misura vezzeggiare, edulcorare, edulcorare una cifra simbolica, queste stupidaggini che offendono la nostra bellezza teologale.

Dunque Giovanni è chiarissimo, vi basti pensare come tanti padri avessero colto nel lenzuolo bianco sul quale si adagia il Gesù bambino, la tovaglia dell’altare sulla quale, nella liturgia, celebriamo la divina eucaristia, il corpo del Signore che si offre sulla mangiatoia che non sfama degli animali, ma la nostra umanità.

 [37]Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me; colui che viene a me, non lo respingerò, [38]perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. [39]E questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno. [40]Questa infatti è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio – come noi possiamo vedere dal 24 notte – e crede in lui abbia la vita eterna; io lo risusciterò nell’ultimo giorno».

Dove questo “credere” lo stiamo, credo, spero, diciamo, fecondando di una pregnanza inclusiva di tutto il mistero dell’amore del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, a beneficio di una consapevolezza così duramente messa alla prova dal nemico e dalla storia.

[41]Intanto i Giudei mormoravano di lui perché aveva detto: «Io sono il pane disceso dal cielo». [42]E dicevano: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe?

Potrei aggiungere: “Non è quello nato fuori casa, a Betlemme, come un qualsiasi raccattato?”.

Di lui conosciamo il padre e la madre. Come può dunque dire: Sono disceso dal cielo?».

Guardate come queste domande si inseriscano perfettamente nella nostra narrazione pasquale del mistero natalizio.

[43]Gesù rispose: «Non mormorate tra di voi. [44]Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. [45]Sta scritto nei profeti: E tutti saranno ammaestrati da Dio. Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me. [46]Non che alcuno abbia visto il Padre, ma solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. 

Cioè Gesù, il volto, Lui ha visto il Padre, e noi guardando Lui ne vediamo il riflesso di luce.

[47]In verità, in verità vi dico: chi crede ha la vita eterna. [48]Io sono il pane della vita. [49]I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; [50]questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. [51]Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».

 

Il nostro incontro va verso la conclusione – direte voi: “Finalmente!” – e vi chiedo perdono di tanta durata, ma non ho veramente ancora terminato, perché devo condurvi in un altro recesso, oltre a quello della grotta di Betlemme, in un recesso che ci conduce, che ci conduce a questo ammaestramento che il Padre offre a chi ha l’umiltà di volerlo ascoltare, e d’altra parte si tratta di condividere quello che Gesù in prima persona ha vissuto, attirato dal Padre che lo ha mandato, attirato dal Padre che lo ha mandato, cioè come una sorta di energia che sposta il baricentro della persona di Gesù, fin dal suo manifestarsi in mezzo a noi come figlio di Dio, nostra vera umanità.

Ed è questo spostamento di baricentro scomodante che, oggi, andiamo a cogliere in un episodio, apparentemente narrativo, che viene un po’, lasciatemelo dire, banalizzato dalla sua abituale collocazione nella liturgia della festa della Santa Famiglia. Un quadretto familiare che, in qualche misura, fa brillare una sorta di ricomposizione degli assetti di una famiglia, effettivamente un po’ anomala, ma, alla fine, in una qualche misura imitabile dalla nostra quotidianità. Ma, come cerchiamo di dire, qui c’è in gioco molto più che le relazioni delle nostre famiglie: qui c’è in gioco tutto quello che stiamo cercando di vivere, come ragione pasquale della nostra speranza che il Natale ridesta:

leggiamo Luca 2, 39-52 (v. elenco testi di riferimento pp. 14-17):

Luca 2 [39]Quando ebbero tutto compiuto secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nazaret. [40]Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e – attenzione, eh! – la grazia di Dio era sopra di lui.

Ormai capite, no? Questo orizzonte pienamente trinitario: la grazia di Dio era sopra di lui, che non è un dettaglio così!

 [41]I suoi genitori si recavano tutti gli anni a Gerusalemme per la festa di Pasqua. [42]Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono di nuovo secondo l’usanza;

qui ci sarebbero tante cose da dire su queste normative, ma non ci possono adesso interessare;

 [43]ma trascorsi i giorni della festa, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero. 

Anche qui, lasciatemi dire, piuttosto strana questa cosa, molto strana; io non ci credo, io non credo che qui davvero Luca dica proprio la verità; naturalmente è una incongruenza narrativa che, come spiega tanta tradizione dei padri, è il segnale che, a un certo punto, noi dobbiamo raffinare la nostra ermeneutica, perché qui non abbiamo un fatto sul quale calare una nostra cornice moralizzante; qui abbiamo una esperienza di verità che interroga e scuote la nostra fame e sete di verità: Gesù si perde a Gerusalemme, la città che lo attenderà per la sua morte e la sua sepoltura e, fuori dalla città, anche risurrezione: dunque è un orizzonte cittadino di grande importanza, di grande rilevanza e di grande significato.

[44]Credendolo nella carovana, fecero una giornata di viaggio, e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti;

è interessante anche questo, no? Prima si va a cercarlo nella consanguineità, nelle relazioni immediate, fermandoci, cioè, a quello che Gesù, nonostante (attenzione!) il progressivo dinamismo di fede di Giuseppe, di Maria – non ci dimentichiamo Maria, quello che ha vissuto nell’Incarnazione, e i sogni di Giuseppe – tuttavia loro, inevitabilmente, lo vanno a cercare fra parenti e conoscenti! Ma lui è a Gerusalemme, è perso nella città pasquale per eccellenza;

 [45]non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme. [46]Dopo tre giorni – guarda un po’! –  lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava. [47]E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte. [48]Al vederlo restarono stupiti e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». [49]Ed egli rispose: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». [50]Ma essi non compresero le sue parole.  [51]Partì dunque con loro e tornò a Nazaret e stava loro sottomesso. Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore. [52]E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini.

…davanti a Dio e agli uomini. Straordinario! Io credo, spero, penso che, forse, già in voi si siano quasi accese delle spie che diano, come credo debba essere data a questo passaggio straordinario, tutta la sua straordinaria pregnanza, direi inevitabilmente pasquale, perché questo signore Gesù è perso a Gerusalemme, ma finalmente si ritrova; esattamente quell’annuncio, quell’assaggio pasquale che, nella straordinaria parabola del figlio ritrovato, il cosiddetto “figlio prodigo”, fa dire al figlio maggiore da parte del padre: “Bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”.

Tre giorni dopo, Gesù vive, cari fratelle e sorelle e cari amici e amiche, una esperienza assolutamente pasquale, che lo porta ad una emersione da quella immersione nei recessi del tempio, di cui mi piacerebbe immaginare possa sembrarvi anche questo nostro scantinato (per chiamarlo così), in mezzo ai dottori che, nello stesso tempo, ascolta, interroga, ma ai quali offre ragione di stupore per l’intelligenza e le sue risposte; il che segnala, evidentemente, una dimensione di ricerca ma anche di autoconsapevolezza, che Egli stesso ha modo di dover definire nei termini, assai difficili da intendere e commentare e, soprattutto, afferrare nella loro straordinaria pregnanza: io devo occuparmi delle cose del Padre mio. Attenzione, perché pochi istanti prima la Madonna, come si rivolge, con tanta angoscia? Ecco tuo padre – cioè Giuseppe – e io, angosciati, ti cercavamo: e questo passaggio segnala una eccedenza, un varco, uno iato, che a noi permette, stasera, di cogliere, potremmo veramente dire così, la feritoia, la fessura dalla quale scende quella luce che Basilio osservava essere la luce che brilla sul volto del Signore Gesù, perché l’umanità contemplasse se stessa, ed era la luce che il Figlio accoglieva, perché inscritto nella sua missione, nella sua consapevolezza, quantunque, ovviamente, infantile, questo suo doversi occupare delle cose del Padre mio: lasciarsi attrarre da Lui e diventare Colui che, se noi obbediamo alla sua obbedienza e ascoltiamo il suo ascolto, ci attrae all’amore, alla presenza, alla sorgente del Padre celeste.

Ed è quella risposta del Signore Gesù: Perché mi cercavate? Anch’essa una straordinaria eco pasquale, che ci riporta al capitolo 24 di Luca (Luca 24, 1-8), quando cioè:

Il primo giorno dopo il sabato, di buon mattino, si recarono alla tomba, portando con sé gli aromi che avevano preparato. Trovarono la pietra rotolata via dal sepolcro; ma, entrate, non trovarono il corpo del Signore Gesù. Mentre erano ancora incerte, ecco due uomini apparire vicino a loro in vesti sfolgoranti. Essendosi le donne impaurite e avendo chinato il volto a terra, essi dissero loro: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risuscitato. Ricordatevi come vi parlò quando era ancora in Galilea, dicendo che bisognava – è lo stesso verbo che ritroviamo qui, nell’episodio del tempio – che il Figlio dell’uomo fosse consegnato in mano ai peccatori, che fosse crocifisso e risuscitasse il terzo giorno; ed esse si ricordarono delle sue parole.

Così come Maria, al versetto 51, serbava tutte queste cose nel suo cuore.

Trovo straordinaria questa sovrapposizione pasquale, della quale si era accorto un grande monaco medievale, Aelredo di Rievaulx, nel suo splendido trattato sul Gesù dodicenne: anche Aelredo commenta questo episodio, raccordando tutta la dinamica pasquale del racconto di Luca fino ad includerci l’episodio di Emmaus quando, come certamente vi ricordate, allo spezzare del pane, Gesù viene finalmente riconosciuto; Egli scompare e i due, pieni di gioia, tornano, guarda caso, a Gerusalemme.

Questo ancora non accade, tutto resta nell’angustia, nell’angoscia, nella consapevolezza di un incremento, di una crescita in sapienza e grazia che, certamente, esporrà Maria, Giuseppe e noi, figli della maternità ecclesiale della Chiesa, ad una comprensione sempre più profonda di questa disponibilità totale del Signore Gesù di occuparsi delle cose del Padre mio, fino ad offrire tutto se stesso al Padre suo, per ricondurre la nostra umanità alla sorgente di quella luce che noi, stasera, iniziamo a contemplare nel presepe, perché, con questo spessore pasquale, la nostra umanità, ritrovando se stessa e riscoprendosi amata senza misura, già abbia un sussulto pasquale che faccia vivere questa seconda nascita del Signore Gesù come un assaggio di liberazione dall’oppressione, dal giogo del peccato, dell’oscurità e della morte.

Ma, in estrema conclusione, possiamo davvero domandarci – e chiudo – se in questo anno, anche in questo anno, avremo tempo, cuore e intelligenza per accogliere questo mistero plenario, sofferto, luminoso e glorioso che porta il Signore Gesù, con tanta sofferenza, in mezzo a noi.

Mi piace suggerirvi i versi straordinari di Roberto Carifi, che metto nella bocca e nel cuore del Signore Gesù, nell’imminenza del suo spericolato Natale – li leggete negli “Auguri” che vi proponiamo (v. elenco testi di riferimento pp. 14-17):

Che ne sarà della mia vita?

Te lo domando, luce innominabile

lo chiedo a te, crepuscolo.

Sarò straniero, espulso,

mi accamperò dove non cresce nulla,

dov’è deserta perfino la memoria?

Mi resterà almeno un alloggio per il pianto,

dove serrarmi muto nei ricordi?

Ve lo domando, orbite vuote della notte.

Orbite che, stasera, sono piene e luminose della vostra fede, della vostra carità e della vostra speranza. Amen!

 

Conclusione dell’incontro

Bene, cari fratelli e sorelle, grazie della vostra disponibilità; in realtà, come sempre, la nostra meditazione si conclude portandoci tutti verso il presepe, naturalmente coloro che possono trattenersi; lo facciamo mantenendo un clima di meditazione, di preghiera, che si limiterà ad accendere qualche candelina, oltre alle luci che ornano il bellissimo presepe del nostro Colombano e, davanti a quella manifestazione di amore, intonare tutti insieme quella canzoncina che non vedo l’ora di farvi cantare alla fine di ogni celebrazione di Natale! So che siete venuti apposta e vi posso anche dire che, finalmente, ho stampato testo e note, così che, tutti insieme, ci si proponga a Sanremo, convincendo Carlo Conti che siamo molto meglio dei tanti sconosciuti nomi, almeno per me, che andranno in gara a Sanremo, ormai fra poco!!

Raggiungiamo, in relativo silenzio, la cripta (coloro che possono trattenersi).

In cripta

Adesso tutti gli occhi sono rivolti al presepe, perché è lui che dovete guardare, non la mia brutta faccia. Guardate il presepe, eccolo qua, molto bello, complimenti a Colombano, bellissimo! Ecco, bene, tutti venite, la piccola scola, adesso ci prepariamo a cantare questa melodia.

Da padre Bernardo, dagli altri monaci presenti e dai fedeli viene intonato il canto “Puer natus in Bethlehem” (v. elenco testi di riferimento pp. 14-17).

Terminato il canto, padre Bernardo prega, pronunciando le seguenti parole:

Padre Santo, donaci di contemplare, ormai tra poche ore, il volto del tuo amatissimo Figlio Gesù, nella cui umiltà, nella cui gloria, la nostra fragile e distratta umanità può specchiarsi, per tornare a contemplare la sua verità, nella sua verità la tua sorgente inesausta di amore, di misericordia e di bellezza, nella quale muore la morte, tramonta l’oscurità e sorge l’alba nuova di un giorno senza fine, nel quale, vincendo il tempo, lo spazio e il male, siamo una sola cosa con Te, nell’amore del tuo Figlio e nella luce del tuo Spirito. Per lo stesso Cristo, nostro Signore. Amen!

Ci conforti e ci aiuti in questa attesa della nuova nascita del Signore Gesù e della liberazione pasquale da ogni male, la fede, la speranza, l’attesa, l’umiltà di Maria Santissima, che tutto ricorda.

Ave Maria…

 

 

 

ELENCO DEI TESTI DI RIFERIMENTO

 

18 xii «Oppressi a lungo sotto il giogo del peccato, aspettiamo, o Padre, la nostra redenzione; la nuova nascita del tuo Figlio unigenito ci liberi dalla schiavitù antica».

Margherita Guidacci

Per noi nessuno specchio fedele o deformante.

Non esistono pozze d’acqua tremula né vetrine per un furtivo sguardo.

Sconfitto è il  γνῶϑι σεαυτόν dall’assoluta mancanza d’immagini.

Grigiore di muri, d’asfalto, di nebbie compatte.

Tagliati fuori dalla conoscenza solo dell’ignoranza ormai cerchiamo la chiave.

Il mondo è divenuto così opaco o siamo noi che non abbiamo più volto?

San Basilio Magno: «La potenza divina, come raggio attraverso un cristallo, splendeva in quel corpo umano, rifulgendo dinanzi agli occhi puri del loro cuore. Potessimo anche noi trovarci con loro a contemplare con sguardo puro, come riflessa in uno specchio, la gloria del Signore, per essere trasformati anche noi di gloria in gloria, per grazia e bontà del nostro Signore Gesù Cristo».

2 Cor 3.18: «E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore».

Notte Natale: «Accetta, o Padre, la nostra offerta in questa notte di luce, e per questo scambio di doni trasformaci nel Cristo tuo Figlio, che ha innalzato l’uomo accanto a te nella gloria».

Adv. Her. III,19: «Il Verbo di Dio si è fatto uomo e il Figlio di Dio si è fatto figlio dell’uomo perché l’uomo, unito al Verbo e ricevendo l’adozione, diventi figlio di Dio. Non potevamo infatti in nessun altro modo ricevere l’incorruzione e l’immortalità se non con l’essere uniti all’incorruzione e all’immortalità. E come poi avremmo potuto essere uniti all’incorruzione e all’immortalità se prima l’incorruzione e l’immortalità non si fosse fatta quello che siamo noi, perché ciò che era corruttibile fosse assorbito dall’incorruzione, e ciò che era mortale dall’immortalità, e noi potessimo ricevere l’adozione di figli?»

Offerte 18 dicembre: «Il sacrificio che celebriamo, o Signore, ci renda graditi al tuo nome, perché possiamo partecipare alla vita eterna del tuo Figlio che, facendosi mortale, ha guarito la nostra mortalità».

Giovanni 6 [25]Trovatolo di là dal mare, gli dissero: «Rabbì, quando sei venuto qua?». [26]Gesù rispose: «In verità, in verità vi dico, voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. [27]Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna, e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo». [28]Gli dissero allora: «Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?». [29]Gesù rispose: «Questa è l’opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato». [30]Allora gli dissero: «Quale segno dunque tu fai perché vediamo e possiamo crederti? Quale opera compi? [31]I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: Diede loro da mangiare un pane dal cielo». [32]Rispose loro Gesù: «In verità, in verità vi dico: non Mosè vi ha dato il pane dal cielo, ma il Padre mio vi dà il pane dal cielo, quello vero; [33]il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo». [34]Allora gli dissero: «Signore, dacci sempre questo pane». [35]Gesù rispose: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete. [36]Vi ho detto però che voi mi avete visto e non credete. [37]Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me; colui che viene a me, non lo respingerò, [38]perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. [39]E questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno. [40]Questa infatti è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; io lo risusciterò nell’ultimo giorno». [41]Intanto i Giudei mormoravano di lui perché aveva detto: «Io sono il pane disceso dal cielo». [42]E dicevano: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui conosciamo il padre e la madre. Come può dunque dire: Sono disceso dal cielo?». [43]Gesù rispose: «Non mormorate tra di voi. [44]Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. [45]Sta scritto nei profeti: E tutti saranno ammaestrati da Dio. Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me. [46]Non che alcuno abbia visto il Padre, ma solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. [47]In verità, in verità vi dico: chi crede ha la vita eterna. [48]Io sono il pane della vita. [49]I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; [50]questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. [51]Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».

Luca 2 [39] Quando ebbero tutto compiuto secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nazaret. [40]Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui.  [41]I suoi genitori si recavano tutti gli anni a Gerusalemme per la festa di Pasqua. [42]Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono di nuovo secondo l’usanza; [43]ma trascorsi i giorni della festa, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero. [44]Credendolo nella carovana, fecero una giornata di viaggio, e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; [45]non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme. [46]Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava. [47]E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte. [48]Al vederlo restarono stupiti e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». [49]Ed egli rispose: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». [50]Ma essi non compresero le sue parole.  [51]Partì dunque con loro e tornò a Nazaret e stava loro sottomesso. Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore. [52]E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini.

Giovanni 6 [52]Allora i Giudei si misero a discutere tra di loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». [53]Gesù disse: «In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. [54]Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. [55]Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. [56]Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. [57]Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me. [58]Questo è il pane disceso dal cielo, non come quello che mangiarono i padri vostri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».

 

Trascrizione e redazione a cura di Stefania Ruggiero

La fotografia è di Cristiana Maffei e ritrae un’installazione di Marco Bagnoli collocata in Basilica nell’aprile del 2018 per il millenario della nostra Abbazia

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