«Attesa». Una riflessione sull’Avvento di dom Stefano M. Brina
MeditazioniAttesa
O Signore che disponi i tempi e i momenti, donaci di qualificare queste nostre giornate difficili, talora cupe e spesso confuse, assediate dall’emergenza e dalla sofferenza, affrontando questo deserto con la consapevolezza che ci sono oasi per permettere di attraversarlo. Sii nostra guida e fa che ce ne rendiamo conto, ti diamo l’acqua della nostra disponibilità, tu dacci l’acqua viva che sgorga dal cuore per far fiorire il deserto e rendere possibile affrontare insieme questa traversata. Amen
Celebrare l’Avvento significa saper attendere; l’attendere è un’arte che il nostro tempo impaziente ha dimenticato. Il nostro tempo vuole cogliere il frutto maturo non appena ha piantato il germoglio, ma gli occhi avidi sono ingannati in continuazione, perché il frutto, all’apparenza così prezioso, al suo interno è ancora acerbo e mani irrispettose gettano via con ingratitudine ciò che le ha deluse. Chi non conosce l’acre beatitudine dell’attesa, cioè della mancanza nella speranza, non sperimenterà mai nella sua interezza la benedizione dell’adempimento. (Dietrich Bonhoeffer)
In questo tempo di prova che tutta l’umanità si trova ad affrontare, con una pandemia, sofferenze di vario genere, difficoltà di orientamento, grande paralisi insieme a grandissima trasformazione, che alla grande maggioranza di noi sembra di non poter controllare ma solo subire, c’è sicuramente un grande smarrimento e una gran nebbia accentuata dalla pluralità di voci e di informazioni contraddittorie e gridanti oppure omologanti ma parziali e censorie. Il tutto con conseguenze che sono amplificate in peggio dalla paura.
Allora che attendere?
Lo sguardo e la responsabilità verso i nostri figli specie se piccoli e la loro chiara manifestazione di attesa, talora anche di frustrazione, ma comunque prevalentemente di fiducia sono il miglior antidoto alla paralisi interiore e alla ricerca, dobbiamo affrontare la sfida … ma le prospettive sono cupe e noi stessi possiamo essere incapaci di affrontare il presente, figuriamoci di dare prospettive luminose ai nostri figli.
La citazione di Dietrich Bonhoeffer, celebre pastore protestante testimone di un cristianesimo evangelico che resiste al nazismo e non si lascia manipolare, ma affronta le conseguenze fino alla fine, dal carcere alla morte per impiccagione fra le ultime vittime alla vigilia della fine del regime e della guerra, mette in evidenza la necessità della durata per far maturare i frutti e l’attesa come acre beatitudine, acre per la mancanza, beatitudine per la speranza. Senza questi ingredienti non si può raggiungere la benedizione dell’adempimento.
L’attesa è quindi una proposta attiva, invece di ridurre questo tempo a tristezza per la sterilità, per la pericolosità, per la sofferenza e la morte, per la perdita di orizzonte, per i predoni sempre presenti nel deserto, per la sensazione di saccheggio del presente e del futuro per noi e per le generazioni che ci seguono … tutte cose reali nel deserto e di cui si deve tenere conto, il compito è cercare le oasi, cercare guide che ci conducano all’oasi prima e in prospettiva oltre il deserto.
Non potendo fare ciò che voleva, volle fare ciò che poteva (Bruno di Querfurt)
Cosa possiamo fare?
Attendere non significa stasi, la nostra prospettiva non è quella del teatro dell’assurdo, come nel celebre “Attendendo Godot”.
Attendere è mantenere ferma la possibilità del senso che supera l’evidenza amara del presente, attendere è aprirsi alla prospettiva di essere attesi e non semplicemente gettati nel mondo.
Da dove partire:
Celebrare l’Avvento non significa altro che parlare con Dio come ha fatto Giobbe. Significa guardare francamente in faccia tutta la realtà e tutto il peso della nostra esistenza e presentarli davanti al volto giudicante e salvante di Dio, e ciò anche quando non abbiamo come Giobbe alcuna risposta da dare a essi, bensì non ci rimane altro che lasciare che sia Dio stesso a dare la risposta e dirgli come siamo senza risposte nella nostra oscurità. (Jozef Ratzinger)
Con sano realismo il futuro papa Benedetto XVI si rivolgeva a un gruppo di studenti nel 1964, in un tempo assai diverso dal nostro dunque, eppure vedete come le sue parole non hanno perso valore.
Evidentemente la prospettiva è di chi vive l’attesa con la promessa di essere a nostra volta attesi.
Per chi non è in questa consapevolezza, una provocazione a fare un esperimento:
Partire dalla realtà così come la viviamo, ipotizzare un Volto che legge dentro la realtà e la giudica, ovvero sa valutarla, discerne il senso, la verità ed è salvante, ovvero è capace di entrare nel dramma con noi e gettare un ponte per farci andare Oltre con Lui e in Lui.
Proviamo allora a utilizzare alcuni strumenti per l’esercizio spirituale per scavare un pozzo nel nostro cuore dove poter raccogliere l’acqua viva per il cammino.
Sal 25(24)
1A te, Signore, innalzo l’anima mia,
2mio Dio, in te confido:
che io non resti deluso!
Non trionfino su di me i miei nemici!
3Chiunque in te spera non resti deluso;
sia deluso chi tradisce senza motivo.
4Fammi conoscere, Signore, le tue vie,
insegnami i tuoi sentieri.
Questo breve tratto del salmo 25(24) lo abbiamo trovato spesso nella liturgia della Messa di questa I settimana di Avvento e se uno è amante del canto gregoriano può anche ascoltare lo splendido introito della messa di questa domenica I di Avvento: “Ad te levavi”
Il suggerimento è di prendersi un tempo dedicato (si può cominciare con 15 minuti).
Un minuto o due di silenzio per raccogliersi e ascoltar il proprio cuore staccando coi pensieri e respirando.
Apriamoci alla Presenza (oppure all’ipotesi della Presenza; se anche non credo o non ho consapevolezza posso sempre porre l’ipotesi che ci sia Dio, che ci sia una Presenza in me e oltre me).
Leggiamo il testo che vi ho proposto (è solo una proposta, non è esclusivo, ma è per partire insieme, se uso una vanga e imparo ad usarla potrò poi scavare anche con altre vanghe di forme e materiali diversi, saprò riconoscere, scegliere, adattare ecc.)
Per 5 minuti riflettiamo sul testo e cerchiamo di cogliere cosa ci dice, ed essendo una preghiera, facciamolo nostro, magari prendendo il versetto o la frase, o anche una o due parole che ci colpiscono.
Per gli ultimi 5 minuti assumiamoli ripetendoli, respirandoli, la tradizione monastica dice “ruminandoli”
Infine concludiamo il nostro esercizio affidandoci e affidando le persone e le realtà che ci stanno a cuore.
Finito il nostro tempo dedicato torniamo alle nostre occupazioni ma conserveremo le parole nel cuore e nella memoria e le tireremo fuori rapidamente ad ogni circostanza che affrontiamo mettendole insieme, collegandole e lasciando che le parole possano illuminare i nostri passi e le realtà della vita permettano alle parole di diventare luce.
Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino.
Dom Stefano Brina, monaco di San Miniato al Monte
La fotografia è di Mariangela Montanari, oblata secolare di San Miniato al Monte