Omelie

«Su pascoli di terra e di mare». Due omelie del padre abate Bernardo per il Tempo di Pasqua

Il fonte in alabastro realizzato da Marco Bagnoli nel 2018 per il millenario di San Miniato al Monte. La fotografia è di Mariangela Montanari

18 aprile 2021 – III domenica di Pasqua (B)

 

Dagli Atti degli Apostoli
In quei giorni, Pietro disse al popolo: «Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù, che voi avete consegnato e rinnegato di fronte a Pilato, mentre egli aveva deciso di liberarlo; voi invece avete rinnegato il Santo e il Giusto, e avete chiesto che vi fosse graziato un assassino. Avete ucciso l’autore della vita, ma Dio l’ha risuscitato dai morti: noi ne siamo testimoni.
Ora, fratelli, io so che voi avete agito per ignoranza, come pure i vostri capi. Ma Dio ha così compiuto ciò che aveva preannunciato per bocca di tutti i profeti, che cioè il suo Cristo doveva soffrire. Convertitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati».

Dalla prima lettera di san Giovanni apostolo
Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un Paràclito presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto. È lui la vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo.
Da questo sappiamo di averlo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti. Chi dice: «Lo conosco», e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e in lui non c’è la verità. Chi invece osserva la sua parola, in lui l’amore di Dio è veramente perfetto.

Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, [i due discepoli che erano ritornati da Èmmaus] narravano [agli Undici e a quelli che erano con loro] ciò che era accaduto lungo la via e come avevano riconosciuto [Gesù] nello spezzare il pane.
Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse loro: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore, disse: «Avete qui qualche cosa da mangiare?». Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro.
Poi disse: «Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni».

Omelia:

Fratelli e sorelle, è necessario per tutti noi sostare nel cuore del mistero pasquale, delle conseguenze dell’evento pasquale, fratelli e sorelle rinsaldare la nostra fede pasquale significa davvero accedere, potentemente, a quella conoscenza che Pietro riconosce essere stata assente in coloro che hanno costretto Pilato a scartare Gesù e scegliere la salvezza di Barabba, a non riconoscere cioè il progetto di salvezza, la scelta che il Padre ha fatto del Signore Gesù perché fosse regalmente costituito come Messia, come Unto, come vincitore sulla morte, preferendo piuttosto il vero colpevole e cioè appunto Barabba.

Abbiamo bisogno fratelli e sorelle, di accedere a questa consapevolezza, a questa conoscenza che apre il nostro cuore, attraverso il vento pasquale, all’esperienza della dinamica di un amore fra persone, di un riconoscersi fra persone, di un dilatarsi, abbandonarsi e riconsegnarsi fra persone, che costituisce il cuore dell’amore trinitario: Padre, Figlio e Spirito Santo.

Sarà esattamente la consapevolezza di questo svolgimento dinamico di amore, che proprio perché amore, ha il coraggio di liberare, di separare, addirittura di abbandonare, ma non per questo di dimenticare, che potremo sperare di essere anche noi, finalmente a immagine e somiglianza di quell’amore trinitario, in grado di fare della nostra vita una stesura altrettanto libera e dinamica di relazioni che sanno ospitare la distanza, che sanno affrontare la distanza, financo quella della morte, senza però per questo sentirci condannati inesorabilmente alla dispersione, alla solitudine, all’abbandono, a quello che cioè di fatto smentirebbe la forza coesiva dell’amore stesso.

E per far questo fratelli e sorelle, abbiamo davvero come detto bisogno di sostare presso il Signore Gesù, anzitutto in quella proiezione nella storia e nel tempo di un luogo, per così dire, eletto dall’amore del Signore perché il riverbero pasquale abbia uno spessore, una consistenza, una forza magisteriale inedita e inaudita, questo luogo è la comunità dei discepoli, che non a caso diventa lo spazio interpersonale dove l’esperienza dinamica dell’amore altrettanto interpersonale della Santissima Trinità trova una dimora, trova una possibilità di esplicarsi, trova la possibilità di essere esso stesso sottoposto a quella tensione che il Signore Gesù ha conosciuto e direi subìto in prima persona nel momento della grande separazione, del grande abbandono che è la morte, ma anche nel momento sublime del grande ritrovarsi con la forza dirompente dello Spirito inviato dal Padre nel cuore della terra perché essa dilaniasse, rompendo i chiavistelli del sepolcro e restituendo il Cristo a quella pienezza di vita e di gloria nella quale non poteva non accedere l’autore della vita.

Ecco, vorrei fratelli e sorelle stamani con voi davvero cogliere come siano radicalmente accostabili queste dimensioni di dinamica dell’amore e come la comunità credente, la comunità dei discepoli, di cui questa comunità e questo momento qualificato che è l’evento liturgico è molto di più di un semplice riverbero, è attuazione pasquale di quella stessa possibilità di vivere il respiro dell’amore trinitario che il Signore consegna secondo il racconto giovanneo non a caso attraverso un soffio, un respiro, contrazione e dilatazione, gesto con cui si raccoglie, gesto con cui si disperde,

Luca non ha queste finezze pneumatologiche, è un evangelista attento semmai a un dato non meno importante che caratterizza la pregnanza della vicenda dell’uomo Dio Gesù Cristo, pregnanza fratelli e sorelle dalla quale non possiamo discostarci, che non possiamo sottovalutare.

La fraternità cui giustamente ci chiama Papa Francesco in ordine ad una testimonianza irenica della nostra fede non significa, sia ben chiaro, perdere di vista la peculiarità, la specificità che è rappresentata dall’uomo Dio Gesù Cristo che si consegna al nostro cuore in una modalità che urge la nostra vita, interpella la nostra vita, segna la nostra vita, conforma la nostra vita, sicchè non possiamo, per così dire, dimenticarci o diluire questo tratto che nel Signore Gesù ha un compendio tutto speciale, una pregnanza appunto, che l’evangelista Luca consegna attraverso la forma, altrettanto interpersonale, della narrazione.

Lo avete ascoltato, anzitutto il racconto di Emmaus che avrete senz’altro presente, come funzioni quel racconto lì, potremmo dirlo un racconto nel racconto nel racconto, perché il Gesù dinamico che cammina con quegli sconosciuti che Lui in realtà conosce benissimo, è un racconto che ospita prima l’autonarrazione delle sofferenze che il Signore Gesù ha patito e che Egli rilegge a partire dal primo testamento e poi, fratelli e sorelle, questa narrazione, oltre  a contenere questa seconda narrazione riferita tutta all’esperienza del dolore, della sofferenza, ne conosce un’altra, lo spezzare il pane, lasciarsi riconoscere attraverso l’esperienza in cui la parola diventa gesto, e tutto questo fratelli e sorelle, è uno svolgimento narrativo che Luca annota perché anche noi, come quei due, possiamo vivere il senso di una narrazione che ci segnala, che cosa, in definitiva fratelli e sorelle?

Che non siamo chiamati alla conoscenza di un amore intellettuale, metafisico, teoretico, cui accedere attraverso uno sforzo speculativo, da compiersi possibilmente nel raccoglimento di una torre d’avorio, dimenticando tutto quello che può distrarci.

Al contrario la forma narrativa, l’io narrante del Signore Gesù ci dice che questo amore è un amore che calpesta le strade polverose della nostra storia, che attraversa i sentieri tortuosi della nostra interiorità, che si fa strada, diciamolo con ancora più forza e chiarezza, nell’oscurità intricata della foresta dove si sperde non a caso Dante Alighieri, dove ci perdiamo tutti noi, quella materia bruta, per dirla ancora con immagini della simbolica medioevale, dalla quale ci può portare via solo una parola che diventa bussola, in forza della quale sentiamo di essere la prosecuzione narrativa di questa vicenda di liberazione, di qualificazione, di riorientamento di quanto prima era disperso, separato, abbandonato, eventi che non possono non accadere quando Dio decide di farci liberi, amati e amanti.

Questo è il mistero della vita, fratelli e sorelle, ma l’aspetto essenziale e pasquale è che in questa esperienza siamo sì scaraventati perché liberi, ma non dimenticati.

Ecco allora la struttura liturgica nella quale siete e siamo entrati, fratelli e sorelle, che anzitutto è un laboratorio di memoria, è un memoriale, noi facciamo ricordo di queste narrazioni, di questi gesti, ne compiremo alcuni perché questo ricordare diventi la cifra interpretativa che propizia oggi l’essere riuniti, ricercati e ritrovati dall’amore di Dio.

E questa prospettiva fratelli e sorelle, è una prospettiva che il Signore Gesù compie in mezzo ai suoi, e i suoi sono come noi, non so se avete notato il dettaglio quasi ironico con il quale la liturgia oggi ci invita ad ascoltare questo passaggio, quasi roboante di Pietro.

Oh, come è diventato raffinato esperto di teologia cristologica San Pietro!: -Voi avete rinnegato colui che Dio ha scelto come l’eletto, l’autore della vita e quant’altro…

E Pietro che aveva fatto? Pietro che aveva fatto?

Aveva fatto quello che facciamo tutti noi, abbiamo rinnegato il Signore Gesù, abbiamo rinnegato l’amore, non lo abbiamo riconosciuto, lo abbiamo deformato, lo abbiamo trasformato in energia di auto conservazione, questo fa Pietro, come avrei fatto io, come probabilmente –perdonatemi l’azzardo- avremmo fatto tutti noi.

Chi osa affrontare quella gente che si apprestava a mettere in croce, fratelli e sorelle, in croce, il Signore Gesù? Chi avrebbe avuto il coraggio di dire: guarda, c’ero anch’io.

Tutti avremmo fatto come fa Pietro, lì ai piedi di quella croce, scaldandosi i piedi al fuoco, rinnega colui che, dopo l’evento pasquale, potrà con forza, con coraggio dire -voi mi avete rinnegato.

E perché Pietro assume questa forma di sicurezza, di fortezza?
Perché si è dimenticato, lui, di aver rinnegato Gesù, perché questo è il paradosso della memoria liturgica, della struttura memoriale che fa del passato un evento sottoponibile ad una trasformazione, ad una trasfigurazione, in una novità assoluta e inedita, fratelli e sorelle, Giovanni è chiarissimo “Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un Paràclito presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto. È lui la vittima di espiazione per i nostri peccati”.

Questi discorsi fratelli e sorelle, come al solito non vanno letti nel profilo veramente minimale e banale di una storia devozionale per la quale a un certo punto –come dire- se abbiamo sgarrato c’è la possibilità di una incipriata sulle nostre magagne.

No, qui è in gioco la struttura della nostra creaturalità esposta alla dimensione del peccare, del mancare, che è il vero significato del peccato e su tutto questo si innesta la pienezza dell’Essere, Gesù Cristo, e si innesta non per schiacciarci, ma per donarci esattamente la possibilità di dire, come dice il Signore Gesù, in quello che a prima vista può sembrare autoreferenzialità e che invece è eteroreferenzialità: “Sono io! Non mi riconoscete?”

Avete ascoltato no? questo passaggio a prima vista egoico del Signore Gesù. Non è egoico. Perché non è egoico fratelli e sorelle? Perché dire “Sono io” significa presentarsi così come si era presentato in Israele Dio nel roveto ardente  “Io sono colui che sono” e via di seguito, cioè in realtà l’autoproposizione del Signore Gesù è sempre in funzione dell’amore del Padre che lo ha liberato dalla morte e che libera noi dal peccato, perché fa di Lui, dice Giovanni, la vittima di espiazione, cioè colui che assorbe in sé in nostro contraddire, il nostro rinnegare, il nostro fallire e questa trasformazione fratelli e sorelle, è la buona notizia pasquale che se si legge in un orizzonte banalmente moralistico, di scappatelle per le quali abbiamo a disposizione l’incipriata, la smaltatura, l’intonacatura del Vangelo, è insufficiente e inadeguato. Per questo mi rivolgo e invito i vostri sguardi a rivolgervi a quella croce di fronte alla quale sta –e lo saluto tanto volentieri- lo specchio di acqua, la sorgente che zampilla, acqua viva, del nostro Marco Bagnoli. In quella crocifissione il Signore Gesù pianta i suoi piedi sul tradimento, sul rinnegamento di Pietro e Pietro, il Pietro pasquale dove sta? Lì sotto o nel Cristo che risorge?

È chiaro che sta nel Cristo che risorge. E allora ecco che anche noi con lui possiamo dire: Sono io. Non mi riconosci nella novità del perdono che ho ricevuto? Nella novità della trasfigurazione che fa nuova la mia esistenza e i miei giorni.

Di questo dobbiamo essere testimoni fratelli e sorelle, di questo dobbiamo essere missionari e capite bene il perché di tutta questa struttura narrativa dialogica, performativa, perché non si tratta banalmente di dare delle informazioni circa la possibilità che il Signore Gesù davvero sia risorto. Non basta, oggi poi col mondo di oggi, non può assolutamente bastare. Notate che nel Vangelo non basta nemmeno la gioia che i discepoli hanno vedendo il Signore Gesù, lo vedono come un fantasma e la loro gioia evidentemente è catalogabile come esperienza psicologica, affettiva, dunque non sufficiente per accedere al mistero della fede.

Capite la raffinatezza antropologica fratelli e sorelle di questi testi, scritti da pescatori poveri, ignoranti, ma che illuminati dall’amore, riescono a farci capire l’articolazione delle nostre dinamiche interiori. Quand’è che accedono alla fede?

Come accediamo alla fede? Appunto attraverso lasciarci includere nello svolgimento narrativo che racconta cosa abbia significato per me mangiare con il Signore Gesù, cosa abbia significato ascoltare quello che è accaduto al Signore Gesù, esattamente  quello che stiamo facendo qui, fratelli e sorelle, incontrando la regalità del Signore Gesù, la sua vita di vita nel segno delle sue ferite che sono l’accesso al cuore del mistero dell’amore di un Padre che lo ha abbandonato in quelle ferite, ma che attraverso lo Spirito, lo ritrova e lo ristabilisce per quello che il Signore Gesù, e noi con lui, siamo chiamati ad essere, fino a poter dire all’incredulo che incontriamo, al rassegnato che incontriamo, al disperato che incontriamo, al disorientato che incontriamo: “Sono io! Non mi riconosci?”

Solo allora vorrà dire che la narrazione di quello che il Vangelo mi ha fatto diventare potrà essere motore affidabile di una evangelizzazione, di una conversione, in senso pieno del termine, di una trasfigurazione verso la luce di cui sentiamo avere terribilmente bisogno nella penombra di questo momento radicalmente estraneo alla Pasqua che purtroppo l’uomo sta vivendo. Amen!

25 Aprile 2021 – IV domenica di Pasqua (B)

 

Dagli Atti degli Apostoli
In quei giorni, Pietro, colmato di Spirito Santo, disse loro:
«Capi del popolo e anziani, visto che oggi veniamo interrogati sul beneficio recato a un uomo infermo, e cioè per mezzo di chi egli sia stato salvato, sia noto a tutti voi e a tutto il popolo d’Israele: nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta innanzi risanato.
Questo Gesù è la pietra, che è stata scartata da voi, costruttori, e che è diventata la pietra d’angolo.
In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati».

Dalla prima lettera di san Giovanni apostolo
Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui.
Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.

Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.
Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore.
Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

Omelia:

Fratelli e sorelle, senza la conoscenza del Padre, ci ha avvertito Giovanni, non è data la possibilità di riconoscere neppure noi che in Cristo, del Padre, siamo figli. Questo asserto sta a monte potremmo dire, di tutta la rivelazione che oggi la liturgia della parola offre alla nostra consapevolezza, oserei dire teologica, cioè a questa esperienza autorivelativa di Dio che in Cristo si presenta potentemente come Padre per consegnare, attraverso Gesù, la medesima potenza che ci rende riconoscibili in Cristo, in forza di un legame di reciprocità nel segno di una conoscenza forte, profonda, esistenziale della quale parla il Vangelo attraverso la simbolica del pastore, della sua voce, della capacità che hanno le pecore di potersi fidare di un timbro, di una intonazione, che rende familiare quel qualcuno chiamato ad accompagnarle, ma anche a liberarle e ad aspettarle perché i vari recinti siano spalancati per permettere alle pecore di cibarsi dei vari pascoli e siano richiusi per garantire alle stesse pecore una notte serena, protetta dagli assalti dei lupi.

Una esperienza la cui portata simbolica è evidente e dice moltissimo della nostra vita, dice moltissimo di una vita qualificata da un senso di appartenenza, una categoria che oggi è molto sottolineata dalla moderna sociologia in un tempo di dispersione, in una società, si direbbe nemmeno più liquida, ma addirittura gassosa, priva cioè di riferimenti forti.

Parlare di appartenenza e più ancora di identità sembra poter riproporre al nostro smarrimento delle categorie di forte riconoscibilità, ma  queste categorie non sono certamente, sociologicamente parlando, adeguate per dire e soprattutto comprendere quello che il Signore oggi vuole dirci, questa dinamica liturgica alla quale avete deciso di accedere -e Dio vi è profondamente grato della vostra partecipazione, non lo dimenticate mai! Il mio non è un compiacimento di civetteria pastorale, davvero è la risposta che sento nel cuore scaturire dalla povera esperienza che il Signore mi riserva del suo amore che si fa gratitudine per tutti coloro che dedicano tempo alla conoscenza del suo mistero attraverso l’ascolto della sua parola, la partecipazione al banchetto dove Egli continua ad offrirci la vita del Figlio, e a tutti coloro che intendono vivere di Spirito Santo, del quale la liturgia è singolare e speciale sorgente ed esperienza.

Dunque una esperienza che oggi il Signore ripropone ai nostri cuori in un  tempo di smarrimento per il quale la tentazione è davvero rinchiuderci in categorie di appartenenza e di identità autoimmuni, protettive, tematiche queste che altre volte avrete sentito risuonare in questa Basilica come tematiche che ci segnalano, almeno al mio povero giudizio una tentazione, la tentazione della staticità, dell’esclusività, quando invece oggi il Signore Gesù, parlando come un pastore, ci dice invece dell’esistenza di altre greggi, della necessità di custodire, aprire, chiudere, includere nuovi recinti dove far sostare un gregge che assume sempre più la proporzione di una vera e propria universalità e d’altro canto, come già detto, l’area metaforica e simbolica della pastorizia segnala certamente uno spazio di raccolta, di custodia, ma anche la necessità della dispersione, la necessità dell’uscita, il rischio dello smarrimento, rischio possibile e quasi provvidenziale, se non altro per sperimentare –lo spiegava molto bene Padre Ildebrando nella celebrazione delle 8,30- cosa significhi essere ricercati da un pastore che lascia follemente la quasi totalità del gregge per andare alla ricerca della centesima pecorella smarrita.

Cosa possa significare per essa la grazia di sentirsi desiderata e di sentirsi valutata come e anzi più dell’intero gregge. Questa esperienza fratelli e sorelle, è una esperienza che restituisce al nostro cuore da un lato tutto il gusto, il rischio, ma anche la bellezza della libertà, restituisce il senso di una vita piena, di una vita vorrei dire senza limiti, come piace al Signore sia la nostra vita. Il Signore non ci ha creato ponendo dei trabocchetti all’estremo margine del nostro cuore, dei nostri desideri, sarebbe un Dio ben poco affidabile, sarebbe un Dio che gioca nella frustrazione di darci da un lato una spinta verso l’infinito, verso l’eccedenza, per poi puntualmente mortificarci, il Signore ci dona il gusto dell’illimitato, ma ci ricorda anche la nostra verità a cui possiamo accedere attraverso una conoscenza del Signore Gesù, di una riconoscibilità, si diceva all’inizio commentando la lettera di Giovanni, una conoscibilità con la quale diventiamo familiari a noi stessi, una riconoscibilità con la quale siamo giustamente valutati per quelli che veramente siamo dallo sguardo altrui.

Questa verità fratelli e sorelle si sintetizza nell’esperienza della figliolanza.

Io credo che mai abbastanza parliamo di figliolanza, perché è proprio nell’ambito della figliolanza che riconosciamo certamente il nostro limite creaturale, il nostro fabbisogno permanente di una sorgente di amore che ci precede, ma nello stesso tempo, nell’ambito della figliolanza possiamo sentire, scoprire e possibilmente riscoprire tutta la forza di libertà per la quale e dalla quale è scaturita la nostra esistenza, quando essa ha avuto una sorgente di paternità adeguata naturalmente, quando cioè chi ci ha chiamati alla vita ha inteso calibrare questa sapiente mescolanza di premura, di custodia, ma anche di liberazione con la quale avventurarci fino agli estremi confini della nostra vita, possibilmente anche affacciarci oltre, e questa dimensione fratelli e sorelle è la dimensione esistenziale che il Signore ricorda a ciascuno di noi, ponendo a garanzia di questo equilibrio non delle norme, non delle istruzioni, tanto meno si direbbe col linguaggio almeno in parte vetero testamentario, delle maledizioni, ma ponendo a garanzia di tutto questo il suo deporre la vita per la nostra vita.

Questa è la propulsione innamorata con la quale noi possiamo tornare ad amare la vita, anche in tempi difficilissimi come questi, anche in tempi tentati di proteggerci, di rinchiuderci in noi stessi nella identità, nell’appartenenza, dimenticando però così non solo gli orizzonti e le sfide che l’amore del Signore tratteggia ai confini della nostra vita, agli orizzonti della nostra vita, per superarli, ma chiudendoci in noi stessi dimentichiamo anche di avere un Padre oltre le nostre paure, fratelli e sorelle, di avere un Padre oltre le nostre paure.

Un Padre che ci dona lo Spirito del Signore Gesù per vincere queste stesse paure.

In questa prospettiva fratelli e sorelle, credo sia bellissimo tornare ad innamorarsi della vita, noi siamo chiamati ad essere testimoni e ministri di un ritrovato innamoramento della vita stessa in tempi in cui essa appare sempre meno maneggiabile, sempre meno liberante, sempre meno gratificante, sempre più tentata di essere custodita in parametri importantissimi e provvidenziali ma che, se si riducono ad essere solo e soltanto, l’ho detto altre volte, parametri medicali, vaccinali, tecnologici, chiaramente mortificano questa spinta propulsiva della vita che per sua natura eccede qualsiasi parametro, qualsiasi protocollo, qualsiasi rischio, bene lo sa la centesima pecorella che è salvata da questa altrettanto e rischiosa eccedenza di colui che lascia tutto il gregge per donare a quella pecora smarrita l’esperienza qualificante del sentirsi ritrovata e ricondotta in uno spazio dove la sua creaturalità può adempiersi, senza conoscere costrizione alcuna che è poi la stessa dinamica del Signore Gesù, il quale ci ha detto molto chiaramente “io dò la mia vita per poi riprenderla di nuovo, nessuno me la toglie, io la do da me stesso”

Il Signore Gesù non è obbligato da nessuno a deporre la sua vita e tuttavia riconosce che questa dinamica pasquale si inscrive nel comandamento dell’amore ricevuto dal Padre: “questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio – e subito prima – ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo”

Queste sono espressioni che abbiamo ascoltato stamani, dove torna un’espressione importante, tipica dell’esperienza giovannea, il potere,  quale è il vero potere che ci conferisce l’amore del Padre? Fin dal Prologo è detto con grande chiarezza: “A coloro che lo hanno accolto- riferendosi al Signore Gesù- Egli ha dato il potere di diventare figli di Dio”.

Questo è il potere di cui parla il Signore Gesù in prima persona, cosa significa essere figlio di Dio? Chiudersi nella sua identità filiale, nella sua appartenenza filiale, con il rischio di venire meno a quella dinamica generativa con la quale il Padre ha pensato, voluto, generato il Figlio, perché si estenda nella storia il suo amore, e noi siamo chiamati fratelli e sorelle, e questa è la meraviglia della parola di oggi, ad estendere questa dinamica nella misura in cui, accogliendo il Signore Gesù, lasciandoci da lui amare, in una reciprocità di conoscenza filiale, consapevole del nostro limite, ma anche appassionato di tutto quello che lo supera, entriamo in una dimensione pasquale, per la quale anche noi dobbiamo donare la nostra vita per poi riprenderla di nuovo, in una danza di donazione e di ritrovamento tanto più intensa, coreografica, quanto più svolta sotto il ritmo, il canto, la melodia portante di un pastore della cui voce ci fidiamo, del cui ritmo ci fidiamo, della cui melodia riconosciamo tutta la portata e la cantilena salvifica.

Ecco questo credo possa bastare fratelli e sorelle perché la tentazione che portiamo nel cuore di sentirci come quelle pietre scartate, evitate, o da un Dio troppo remoto, lontano, forse inesistente che siamo qui a cercare come degli illusi, più per una appartenenza tradizionale a dinamiche ecclesiali che ormai dicono pochissimo al nostro cuore, alla nostra libertà, al nostro gusto, al nostro rischio, e invece tutta la parola di oggi ci conferma sì la consapevolezza di una nostra non riconoscibilità da parte del mondo e dunque di un nostro essere scartati, ma di come invece, illuminati dall’amore che viene dall’alto, questo apparente scarto, questa apparente irriconoscibilità, si vivificano nella consapevolezza di una figliolanza che sprigiona le nostre migliori energie nel segno dell’unico potere ammesso dal Vangelo del Signore Gesù che è il potere dell’amore, il potere della comunione, il potere del servizio, il paradossale potere del servizio.

E in questo si ridisegna lo capite molto bene il manifesto di un nuovo e diverso umanesimo che proponiamo in una prospettiva che fa festa con gli esclusi, con i lontani, in una dimensione autenticamente universalistica e tale deve essere, chi sono io per dire che sono più figlio io di te, ecco il senso anche del pastore che ha sollecitudine per altri greggi, per altri discepoli.

La prospettiva appunto che è perfettamente inscritta in questa dimensione pasquale del riconsegnare ciò che abbiamo ricevuto per poi riprenderlo di nuovo per riconsegnarlo ancora. Questo è il respiro dell’amore in definitiva fratelli e sorelle, questo è il respiro dell’amore.

Si dona amore per generare un vuoto nel nostro cuore nella speranza che sia colmato da altro amore per poi ridonarlo ancora. Non è questo ciò che accade nei polmoni? Perché non deve accadere nei nostri cuori? Cos’ha di diverso il nostro cuore da questa dinamica che segnala contrazione, espansione, segnala vitalità nella sua dimensione fragile vulnerabile, ma anche nel suo potenziale ventoso, spirituale.

E un’ultima parola fratelli e sorelle perché non voglio conformarmi all’indifferenza dominante, un’ultima parola va detta per provare vergogna, per provare sconcerto, per provare inquietudine di fronte a quei pascoli liquidi che sono i nostri mari e non certo per sentirci più buoni perché li abbiamo ricordati ai nostri fedeli e ci abbiamo fatto su una bella intenzione di preghiera, perché oggettivamente non può non suonare come un fallimento della nostra cultura delle nostre culture, dei super governi a guida di super tecnici di qualsiasi colore, nazione, non mi interessa, non c’è nessun riferimento contingente, mi conoscete: avrò le mie idee ma non ho mai fatto di questo ambone uno spazio di comizi, però fratelli e sorelle, se l’unico interesse è l’autosopravvivenza in base all’indice di contagio, a quanto funzionano i vaccini e poi abbiamo il Mediterraneo ingombro di cadaveri evidentemente qualcosa non funziona della nostra capacità di pensarci bei pastori come il Signore ci chiede di diventare, non è un discorso per preti, fra preti questo Vangelo anche se noi abbiamo questa tentazione di raccontarvi che ci sono dei preti che sono dei buoni pastori, dei vescovi non ne parliamo, certo c’è una applicazione ecclesiale, è evidente, io cerco di viverla con le mie miserie, col meraviglioso gregge che il Signore mi ha affidato, ma ognuno di noi ha dei pascoli, ognuno di noi ha delle pecore che cadono sotto la responsabilità del proprio cuore e anche chi è nella solitudine più totale non può non sentirsi chiamato ad una cura, ad una premura, ad una insonnia per i destini dei recinti tutti interi di questo nostro mondo, mari compresi.

Che il Signore ci risvegli dal torpore, ci rieduchi a questa creaturalità paradossalmente senza limiti, nella misura in cui, scoprendosi amata come si ama un figlio, porta nel cuore tutta la forza ventosa di quell’amore che il Padre celeste in Cristo, bel pastore non le fa e non ci farà mai mancare. Amen!

Trascrizione a cura di Grazia Collini

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