Lectio divina sulla Lettera ai Colossesi: trascrizione del dodicesimo incontro animato il 20 novembre 2025 da dom Stefano
Lectio divina
San Miniato al Monte
Giovedì 20 novembre 2025
Sintesi XII Incontro
Lectio Divina
Lettera ai Colossesi
di san Paolo apostolo
Padre Stefano – È bello ritrovare molti visi noti con cui già l’anno scorso abbiamo fatto un po’ di strada insieme e anche vedere visi nuovi; quindi, ci rallegriamo e ci disponiamo anche a questa nuova ‘manche’ un po’ come nello sci, la seconda e decisiva. Cedo subito la parola al Padre Abate.
Padre Bernardo – Voglio soltanto salutarvi per questo inizio di Lectio Divina e anche ringraziare per la vostra fedeltà, la vostra presenza che di anno in anno segnala da parte vostra un interesse prezioso per quello che la Parola ci dona, per quello che attraverso un cammino comunitario di ascolto della Parola, o perlomeno attraverso un cammino fraterno di ascolto della Parola come questo, può reciprocamente donarci sia noi a voi, -certamente grazie a padre Stefano-, ma anche voi a noi.
E poi desideravo anche rallegrarmi dell’inizio di questa nostra ulteriore proposta che si inscrive in questi nostri giovedì che un po’ banalmente nel sito abbiamo chiamato ‘Pause di riflessione’ o ‘Soste di riflessione’, cioè porgervi l’occasione, ma anche l’invito per una effettiva desistenza da tutte quelle che spesso sono le attività che si accavallano e si sommano l’una all’altra, lasciandoci ben poco tempo per la riflessione, per un momento in cui sia finalmente possibile tornare a renderci conto di quale immenso dono sia la fede, di quale immenso dono sia lo stare in relazione con il Signore, attraverso il suo manifestarsi, il suo parlarci, il suo lasciarsi adorare e cantare nella liturgia. Ed è in questa prospettiva che davvero è importante sentirci a nostra volta sostenuti dal vostro esempio che tra l’altro ci raggiunge da una situazione urbanistica sempre più difficoltosa per il grande traffico che, purtroppo ora con i nuovi tracciati della tranvia in costruzione, rende della nostra città sempre più ingolfato, diciamo così. Quindi grazie per vostra pazienza con cui vi mettete in coda e affrontate anche orari non così agevoli.
L’altra cosa che volevo dirvi e di cui compiacermi, se così si può dire, riguarda appunto questa nuova proposta che vedrà Don Placido che inizierà un percorso di carattere dantesco, di meditazione sulla Divina Commedia soprattutto e che ci permetterà di scivolare un po’ lungo la grande corrente della traditio della Chiesa, per scorgere peraltro quanta Parola di Dio, quanta sapienza teologica, quanta profondità spirituale rimbombi nelle cantiche della commedia e in tutto quello che lui ci proporrà come occasione per una riflessione; anche qui, non certamente di carattere accademico ed erudito, ma soprattutto spirituale ed esistenziale, quello che poi interessa a tutti noi, certamente attraverso anche il rigore che si deve quando si maneggiano testi così importanti, nel caso di padre Stefano addirittura testi rivelati, ma certamente testi comunque di grande universalità, direi mistica e letteraria, come nel caso dell’opera dantesca. Quindi c’è questo rigore, -che per altro nel caso di padre Stefano già ben conoscete-, ma c’è anche e soprattutto da parte nostra il desiderio (come ho già detto) di aiutarci reciprocamente lungo i sentieri non così semplici e scontati della fede, della speranza, della carità e della testimonianza di fede, speranza e carità che oggi ci viene chiesto dal Signore di offrire per dilatare un po’ i confini del Suo Regno.
Chiudo, ricordandovi e ricordandomi, che Papa Leone ha recentemente richiamato nella sua bella omelia per i 125 anni della dedicazione della Chiesa abbaziale della Badia di Sant’Anselmo a Roma dove vive il nostro abate primate, l’abate degli abati per dirlo in terminologia semitica, lì Papa Leone ha parlato proprio dei monasteri come luoghi di frontiera e focolai di carità; dove questa carità ha saputo evangelizzare quelle frontiere e continuando lungo i secoli a rendere la frontiera un luogo attraversabile e permeabile da tutto quello che il Signore ci dona, promuovendo l’umano così come nello spirito della regola di San Benedetto, l’umano in Cristo che trova così la sua misura compiuta. Ecco, noi è con questo spirito e anche con questa sintonia ecclesiale che avviamo questo nuovo percorso ed io sono grato in particolare a padre Stefano per la sua pazienza e dedizione a tutto questo e a padre Placido che si alterneranno un giovedì l’uno e un giovedì l’altro per queste due proposte.
Detto questo, io cedo volentieri il microfono e la linea a padre Stefano, ringraziandolo di cuore e augurandogli: “Buon cammino e buona perseveranza”.
LECTIO
“Eccoci tutti insieme rivolti verso il suo sguardo.
Stando fuori.
Ricevendo – nella debolezza – la sua Forza tutta per noi: Il Soffio stesso
Di Colui che ci ama.
Insieme, sì, ci si lascia amare,
ci si lascia prendere dal Dono.”
(Beato Christophe Lebreton, martire di Tibhirine,
traduzione di Monica Pavani)
Preghiera iniziale.
Vieni Santo Spirito a ispirare il nostro ascolto
della Scrittura e a illuminare le nostre menti
per discernere e accogliere la Parola.
Ti affidiamo questa nuova annata di cammino perché i nostri cuori possano crescere nell’unione con Cristo e in Cristo,
affinché tutta la nostra esistenza, manifesti la vita nuova che ci offri,
perché la speranza divampi e la carità permetta la manifestazione del Regno a gloria di Dio Padre. Amen.
Fotografia di Alessandra Pavolini
Facciamo nostra la notizia di preghiera dell’apostolo Paolo riportata nell’esordio della lettera ai Colossesi (1, 9b-10):
Non cessiamo di pregare per voi e di chiedere che abbiate piena conoscenza della volontà di Dio, con ogni sapienza e intelligenza spirituale, perché possiate comportarvi in maniera degna del Signore, per piacergli in tutto, portando frutto in ogni opera buona e crescendo nella conoscenza di Dio. Amen.
Per riprendere il filo del nostro cammino sul testo della lettera ai Colossesi, oltre a rimandare al testo della trascrizione dell’ultima lectio del 12 Giugno scorso, possiamo rileggere insieme il brano di Col 1,21-23 che, come avevamo visto, costituisce la partitio che conclude l’exordium della lettera e annuncia tutti i temi che verranno sviluppati, in ordine inverso, nel corpo del testo (Col 1,24-4,1).
Col 1 21Un tempo anche voi eravate stranieri e nemici, con la mente intenta alle opere cattive; 22ora egli vi ha riconciliati nel corpo della sua carne mediante la morte, per presentarvi santi, immacolati e irreprensibili dinanzi a lui;
23purché restiate fondati e fermi nella fede, irremovibili nella speranza del Vangelo che avete ascoltato, il quale è stato annunciato in tutta la creazione che è sotto il cielo,
e del quale io, Paolo, sono diventato ministro.
Abbiamo già commentato le parti del corpo della lettera che sviluppavano il ministero dell’apostolo Paolo, la sua lotta per la diffusione del Vangelo (1,24-2,5) e le minacce alla fedeltà al Vangelo (la cosiddetta eresia di Colosse) insieme alle condizioni per rimanere fedeli ad esso:
1) mantenere salda la verità della centralità della mediazione unica e universale di Cristo per la salvezza.
2) relativizzare l’importanza di alcune pratiche ascetiche di cui Paolo mette in evidenza l’ambiguità e il rischio di far cadere nella superbia spirituale chi le pratica (Col 2,6-23).
Ora resta da affrontare la terza e ultima parte del corpo della lettera (Col 3,1-4,1) che sviluppa quanto indicato nel primo punto della Partitio (Col 1,21-22), ovvero le condizioni etiche che devono distinguere la vita nuova dei battezzati rispetto alle abitudini pagane.
Oggi, per il primo incontro, considereremo i primi quattro versetti d’introduzione alla sezione etica:
Introduzione (3,1-4)
3 1 Se, dunque, siete risorti con Cristo,
cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio;
2rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra.
3Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio!
4Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria.
Innanzi tutto, vi faccio notare che questa introduzione ha ancora una volta la funzione retorica di una Partitio, quella cioè di introdurre i temi, che in questo caso sono tre. Il primo è:
La motivazione cristologica: Se, dunque, siete risorti con Cristo…
Tenete conto che questa motivazione cristologica con cui inizia la parte etica non la troviamo nelle altre lettere Protopaoline, ma questo è coerente con lo scopo di Colossesi di porre Cristo al centro e l’agire del cristiano nell’orizzonte del suo essere risuscitato con Cristo.
J.N. Aletti ci dice, così sintetizza con efficacia:
“La sezione etica sottolinea così a modo suo che la cristologia ha invaso tutte le dimensioni dell’esistenza cristiana. Essa mostra soprattutto che per l’autore dei Colossesi la dimensione etica è quella in cui deve manifestarsi la pienezza ricevuta, fatta per essere condivisa: l’agire etico dei credenti è allo stesso tempo il frutto della pienezza vissuta con Cristo e il luogo in cui essa si fa leggere, si fa riconoscere.”
Quindi, questi due elementi così importanti dal nostro punto di vista non sono semplicemente una riflessione sull’agire sull’etica, quanto mai pertinente ai nostri tempi, ma l’etica come luogo dove si vede la spiritualità, luogo dove si manifesta il dono che riceviamo nel rapporto con Cristo. Ricordate quando nel Vangelo di Giovanni Gesù Risorto dice a Pietro: “Pietro mi ami tu?” e lui risponde “Signore sai che ti voglio bene” e Gesù gli dice: “Pasci i miei agnelli”. Cioè, il mio amore si vede quaggiù nel tuo agire dentro la tua storia, nella tua vita in fedeltà alla missione che ti ho dato.
In quel “Mi ami?” c’è il motore di tutto, cioè la relazione di amore con il Signore, come già abbiamo ascoltato dalla poesia con cui abbiamo introdotto questo nostro incontro:
“… Ricevendo – nella debolezza – la sua forza, tutta per noi: il soffio stesso di colui che ci ama. Insieme, sì, ci si lascia amare, ci si lascia prendere dal Dono”.
Vedete come è grande la portata del nostro vivere in Cristo, che ci chiama costantemente a rivolgerci a Lui, a risintonizzarci con il piano della nostra relazione con Lui e nella sua figliolanza col Padre.
Da dove salta fuori questo Se dunque siete risorti con Cristo?
Lo abbiamo già visto, in Colossesi 2,12 con un riferimento di tipo battesimale:
Col 2 12Con lui sepolti nel battesimo, con lui siete anche risorti mediante la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti. Con lui Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti a causa delle colpe e della non circoncisione della vostra carne, – Paolo qui parla a cristiani provenienti dal paganesimo, perciò non circoncisi – perdonandoci tutte le colpe e annullando il chirografo, il documento scritto contro di noi che, con le prescrizioni, ci era contrario: lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce.
Come vedete l’azione di salvezza del Signore opera in coloro che sono immersi in Lui nel battesimo inaugurando in essi la vita in Cristo, associandoli non solo alla sepoltura ma anche alla risurrezione.
Leggiamo anche il brano tratto dalla lettera agli Efesini:
Ef 2 6Con lui ci ha anche risuscitato e ci ha fatto sedere nei cieli, in Cristo Gesù, 7per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù. 8Per grazia infatti siete salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; 9né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. 10Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo.
Abbiamo già rilevato a suo tempo la novità della trattazione di Colossesi e di Efesini rispetto alle lettere Protopaoline riguardo alla partecipazione nel battesimo non solo alla morte ma anche già alla risurrezione di Gesù. Su questo punto la lettera ai Romani, il testo che fa da sfondo al nostro testo dice:
Rom 6 3O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? 4Per mezzo del battesimo dunque siamo stati sepolti insieme a lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. 5Se infatti siamo stati intimamente uniti a lui a somiglianza della sua morte, lo saremo anche a somiglianza della sua risurrezione. 6Lo sappiamo: l’uomo vecchio che è in noi è stato crocifisso con lui, affinché fosse reso inefficace questo corpo di peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato. 7Infatti chi è morto, è liberato dal peccato. 8Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, 9sapendo che Cristo, risorto dai morti, non muore più; la morte non ha più potere su di lui. 10Infatti egli morì, e morì per il peccato una volta per tutte; ora invece vive, e vive per Dio. 11Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù.
Sono due modi non disgiunti, perché a volte si è parlato e si parla di ‘escatologia realizzata’ in Colossesi ed Efesini a differenza della ‘escatologia futura’ delle Protopaoline, molti esegeti oggi non sono più così drastici, preferendo evidenziare piuttosto uno spostamento di accento in Colossesi ed Efesini con una sottolineatura maggiore della vita nuova, della adesione al Cristo vivente, al Cristo presente già ora, ma ovviamente in funzione di una partecipazione definitiva alla Sua gloria che ancora non è realizzata ma verso cui tendiamo. Paolo quindi ci esorta ad entrare in questa dimensione profonda e rinnovata che il Signore ci ha aperto, a prezzo della croce, come abbiamo cantato più volte l’anno scorso nell’Inno dei Colossesi e che abbiamo letto anche oggi in Colossesi 2,12.
Questa vita nuova, questo essere portati in alto, messi nel piano alto della comunione con il Signore Gesù che è morto e risorto, che è vincitore e che è vivente, ci chiama a sintonizzarci con questo piano e a permettere all’azione dello Spirito Santo di trasformare la nostra vita e di manifestare questa condizione di con-risorti.
Il riferimento a Cristo seduto alla destra di Dio lo ritroviamo annunciato nel salmo messianico 110 (109) che cantiamo nei vespri le domeniche e nelle feste: “Dixit Dominus Domino meo sede a dextris mei.”, ossia “Dice il Signore al mio Signore, siedi alla mia destra” (Salmo 110,1)
Questo testo è applicato esplicitamente a Gesù dagli Atti degli Apostoli nel discorso tenuto dall’apostolo Pietro il giorno di Pentecoste per annunciare il compimento di questo versetto avvenuto con la morte, risurrezione e ascensione di Gesù di cui Pietro e gli apostoli sono stati testimoni oculari.
‘Cercare le cose di lassù’ potrebbe farci pensare a qualcosa di un po’ evanescente: ‘Abbiamo tanti problemi, stacchiamo un po’ la testa, guardiamo un po’ ad altro.’ Non è ovviamente questo.
Il seguito del nostro testo che analizzeremo nei prossimi incontri ci darà modo di vedere che cosa sono “le cose di lassù”, di cosa si tratta. Una traduzione più letterale dell’originale greco sarebbe: ‘’Le cose dell’alto/le cose in alto.”
Nella lettera ai Colossesi abbiamo sempre visto questo grande spostamento dall’asse temporale, tipico delle lettere Protopaoline: prima e dopo, noi partecipiamo ora alla morte di Cristo per partecipare dopo alla resurrezione. Quindi c‘è questa insistenza sul tempo, ‘questo è il tempo della prova’, diceva anche la prima lettera di Pietro ascoltata oggi nella lettura breve del vespro:
1Pt 1 6Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere, per un po’ di tempo, afflitti da varie prove, 7affinché la vostra fede, messa alla prova, molto più preziosa dell’oro – destinato a perire e tuttavia purificato con fuoco – torni a vostra lode, gloria e onore quando Gesù Cristo si manifesterà.
Invece, questa dimensione temporale cede un po’ il passo alla dimensione spaziale in Colossesi, cioè le cose della terra e le cose in alto, e noi da questo punto di vista dobbiamo essere “quelli dell’alto”.
Questo significa desiderare e ricercare la dimensione di vittoria e di signoria propria della condizione attuale di Cristo espressa come: ‘Sedere nei cieli’ come vedremo domenica prossima, nella Festa di Cristo Re dell’universo, quando celebreremo la Sua signoria su tutta la realtà e sulla storia.
Notate che essendo risorti con Cristo, il nostro non è un guardare dal basso in altro come gli Apostoli nell’Ascensione di Gesù per poi sentirci dire, come negli Atti degli Apostoli:
At 2 11Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo.
Invece noi essendo risorti con Cristo siamo già portati in alto, dobbiamo stare in alto e guardare sempre il Signore, per poter vivere nel tempo secondo questa dignità e realtà.
Quindi non una deresponsabilizzazione dalla storia, in vista di una ricompensa futura, ma un portarci sul piano che è già raggiunto dalla vittoria pasquale, per stare come uomini pasquali nella storia, e affrontare quindi tutte le sue dinamiche e anche i suoi drammi senza esserne schiacciati.
2 Cor 5 14L’amore del Cristo infatti ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti. 15Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro.
Gal 2 19In realtà mediante la Legge io sono morto alla Legge, affinché io viva per Dio. Sono stato crocifisso con Cristo, 20e non vivo più io, ma Cristo vive in me.
Sentite anche qui, tutto questo essere coinvolti nella pro-esistenza del Signore, nell’essere spossessati da una dimensione egoistica, per essere condotti dal suo amore ad una vita di donazione.
Diceva il beato Christophe nella poesia recitata all’inizio:
“Insieme, sì, ci si lascia amare, ci si lascia prendere dal Dono. “
Per interpretare poi la vita, a nostra volta, come luogo di continua donazione.
Ovviamente questo non è mai né acquisito né banale, non è certo sufficiente un rito per compierlo, è il compito e l’azione che lo Spirito stimola in ciascuno di noi e noi insieme nella docilità alla Parola, nell’ascolto, nella preghiera, nella prassi e quindi anche in tutto quel modo di interpretare la vita che ha come focalizzazione, come sguardo, come lente il Signore Gesù.
Per cogliere la portata di quanto fin qui detto può essere utile leggere alcuni testi di D. Bonhoeffer tratti dal celeberrimo ‘Resistenza e resa’, una raccolta di lettere che lui ha scritto dal carcere dove venne imprigionato il 5 aprile 1943 dopo che venne scoperta la cospirazione del gruppo di resistenza al regime nazista a cui Bonhoeffer aveva aderito. Essendo figlio di uno dei più noti psichiatri tedeschi, riuscì ad avere un trattamento di favore nella prigione e questo gli permise di potere ricevere molte lettere, di poter scrivere e di trasmetterci un patrimonio di intuizioni teologiche che è arrivato a noi e che è di una forza incredibile. Di Bonhoeffer ho portato alcuni brani diversi, sempre tratti dalle lettere che lui ha scritto a suo cognato Eberhard Bethge, anch’esso Pastore che in quel tempo si trovava in Italia; siamo nel 1944 a meno di un anno dalla morte di Bonhoeffer giustiziato il 9 aprile 1945.
“La speranza cristiana della resurrezione si distingue da quelle mitologiche per il fatto che essa rinvia gli uomini alla loro vita sulla terra in modo del tutto nuovo e ancora più forte che nell’Antico Testamento. Il cristiano non ha sempre un’ultima via di fuga dai compiti e dalle difficoltà terrene nell’eterno, come chi crede nei miti della redenzione, ma deve assaporare fino in fondo la vita terrena come ha fatto Cristo (“mio Dio, perché mi hai abbandonato?”) e solo così facendo, il crocifisso e risorto è con lui ed egli è crocifisso e risorto con Cristo. L’aldiquà non deve essere soppresso prematuramente. In questo, Nuovo e Antico Testamento restano concordi. I miti di redenzione nascono dalle esperienze umane del limite. Cristo invece afferra l’uomo al centro della vita.” (D. Bonhoeffer, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, lettera del 27 giugno 1944)
Questo testo, molto denso e ricco teologicamente, ve l’ho voluto offrire proprio come antidoto rispetto a testi che leggeremo più avanti, proprio per tenere conto dell’importanza di saldare queste due grandi dimensioni impegno nella storia, nell’aldiquà e speranza escatologica di partecipazione piena alla gloria di Cristo.
Mi colpisce il fatto che proprio Bonhoeffer paradossalmente vivendo questo tipo di realtà, cioè essendo coinvolto al cento per cento con i drammi della sua storia e pagandoli anche di persona, da una parte conserva e approfondisce la sua fede in Cristo, conserva la speranza e addirittura spesso nelle lettere dà motivi di gioia anche ai suoi destinatari e quindi ci dice chiaramente che per lui non è impossibile, anzi è proprio una realtà il poter tenere insieme drammaticità e sofferenza con la gioia; non sono due cose mutuamente escludentisi proprio perché secondo una sua felice intuizione la vita appare come una polifonia.
Bonhoeffer in questa sua dimensione multidimensionale del suo vivere, pur recluso, pensa sempre che potrà, di lì a poco essere liberato e potrà finalmente partecipare nuovamente alla vita con i suoi cari (la maggior parte delle lettere hanno come destinatari o mittenti i componenti della sua famiglia). La sua vita invece finisce pochissimo prima della fine della guerra, addirittura un boia percorre quindici chilometri in bicicletta per andare a giustiziarlo, nonostante poco prima sembrava addirittura che potesse essere liberato. Quindi alla fine lui muore vittima del nazismo e non gli va bene quasi niente: fa la resistenza e partecipa al complotto per uccidere Hitler ma questo fallisce, spera nella libertà e questa non arriva per lui che muore, mentre poco dopo la libertà arriva per tutti. Lui, come un profeta, paga tutto il prezzo e per questo però entra nel duro dell’esperienza della croce e come Paolo può dire: “Non sono più io che vivo ma è Cristo che vive in me”. Questa cristificazione della sua vita, che si compie dopo uno sforzo costante di autenticità che gli fa prendere decisioni rischiose, che gli fa criticare tutte quelle Chiese protestanti e no, che si erano sottomesse ai dettami del regime, non avevano fatto resistenza come la Chiesa confessante a cui lui apparteneva e quindi non si erano trovate in una condizione di clandestinità, a differenza della sua. Perciò se rimaniamo su un piano di lettura mondano, Bonhoeffer non ha certo vissuto una vita riuscita, però noi leggiamo e vediamo la sua autenticità, la sua capacità di stare dentro la sua storia drammatica, testimoniando la verità, la realtà, la vita di Cristo; quindi, testimoniando la dignità della vita umana e opponendosi a chi invece la vita umana la disprezzava e la sopprimeva metodicamente.
Qual è allora la nostra idea di realizzazione? Se è quella di una vita corrispondente alle categorie del successo mondano, o come nel caso dei pavidi è quella di cercare di proteggersi al meglio da tutte le difficoltà della vita, schivandole il più possibile, stando nelle nostre zone di comfort, – modello Don Abbondio -, allora non è il caso di continuare a leggere la lettera ai Colossesi e tanto meno di confrontarsi con questo genere di testimoni.
Se invece la nostra idea di realizzazione consiste nell’essere portati fuori dalle nostre piccole dimensioni, essere proiettati nell’autenticità, nelle piccole e grandi vicende della nostra vita, affrontandole, prendendo posizione e assumendoci la responsabilità delle nostre scelte, allora questo cammino può esserci di stimolo e di aiuto.
C’è un altro aspetto interessante: pensate che le vite autentiche portano frutto e luce molto oltre la loro vita biologica, cioè un testimone che riesce a incarnare il Vangelo nelle contraddizioni della storia in qualche modo diventa fonte di speranza, fonte di progresso anche nella comprensione del Mistero di Cristo e della vita, testimone della giustizia; cioè diventa stimolo per molti altri anche molto dopo; quindi, una vita che porta molto frutto, come direbbe il Vangelo.
“Dio e la sua eternità vogliono essere amati con tutto il cuore; non in modo che ne risulti compromesso o indebolito l’amore terreno, ma in un certo senso come cantus firmus, rispetto al quale le altre voci della vita suonano come un contrappunto; uno di questi temi contrappuntistici, che hanno la loro piena autonomia, e che sono tuttavia relazionati al cantus firmus, è l’amore terreno”
E fa l’esempio del Cantico dei Cantici che all’interno della Bibbia celebra in una maniera carica di pathos e di eros, l’amore umano, per poi proseguire:
“dove il cantus firmus è chiaro e distinto, il contrappunto può dispiegarsi col massimo vigore. Per parlare con il Calcedonese, l’uno e l’altro sono indivisi eppure distinti, come lo sono la natura divina e la natura umana di Cristo.”
Poi in un’altra lettera il giorno seguente scrive:
“Anche il dolore e la gioia appartengono alla polifonia della vita nel suo complesso, e possono sussistere autonomamente l’uno a fianco all’altra.”
Vedete questa è una suggestione che Bonhoeffer ci offre e chiede anche a noi qui di far risuonare il canto fermo, il cantus firmus dell’amore di Dio, per lasciarci amare da Dio, lasciarci introdurre nel mistero della realtà di Cristo, e questo poi ci permette di vivere le differenti esperienze della assumendole senza essere schiacciati.
Stimolati da questa testimonianza e intuizione, possiamo fare una critica a certe letture spiritualiste, che magari vanno a pescare in maniera non molto profonda nelle spiritualità orientali, negando il valore della realtà in cui ci muoviamo che viene vista come illusione e apparenza, la realtà vera è da un’altra parte perciò bisogna ritrarsi dalla vita apparente per arrivare alla vita reale; nelle spiritualità orientali sane tutto questo è un cammino ben più articolato e non è certo un alibi per non affrontare la sfida della contraddizione con cui ci misuriamo e si misurano tanti nostri fratelli e sorelle. A questo proposito alla fine leggeremo un testo di P. Henri Le Saux, che ci presenta una prospettiva suggestiva sul versante opposto di quello di Bonhoeffer; li ho messi apposta per far sentire voci diverse perché abbiano un effetto di dilatazione della nostra visione, possibilmente, e nello stesso tempo ci impediscano di scegliere facili e fallaci semplificazioni.
Tornando al nostro brano di Colossesi, al versetto 4, leggiamo:
Col 4 Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria.
La nostra vita già ora è nascosta con Cristo in Dio e questo nascondimento comporta che noi stessi ne abbiamo una percezione non immediata ma nel chiaroscuro della fede, nella fatica dell’impegno, nelle mille contraddizioni della nostra fragilità, nella debolezza strutturale della realtà con tutta la sua drammaticità. Questo nascondimento però non è destinato a rimanere tale, bensì a partecipare non più solo dell’alba, ma addirittura della luce meridiana della vittoria del trionfo glorioso di Cristo.
Questo è promesso come manifestazione della pienezza del mistero, e qui anche ci occorre la fermezza della fede perché a volte la realtà che percepiamo con i nostri sensi, sembra in contraddizione netta con la vittoria di Cristo, con la sua Signoria. Si va dall’opposizione aperta alla testimonianza cristiana all’indifferenza totale ad essa relegata all’insignificanza. Possiamo essere anche noi tentati tante volte di perdere la speranza, per questo Paolo ci ha esortato a vivere e a tenere una fede molto retta, salda nei punti fermi che non dobbiamo perdere, tra i quali c’è questa promessa, la vittoria di Cristo già ora vivente e Signore si manifesterà e noi ora nascosti con lui saremo manifestati nella sua gloria. Si entra allora in quella tensione escatologica relativamente all’esito, al fine ultimo, che è molto importante custodire sempre. Il cristiano deve sempre riposizionare la storia della propria vita rispetto a questo fine annunciato e promesso.
Nella sua opera “Le Collazioni”, Giovanni Cassiano, Padre monastico del V secolo che ha visitato e vissuto con i padri del deserto egiziano, di cui riporta gli insegnamenti. Egli spiega qual è il fine della vita monastica: vedere Dio, che comporta la comunione piena con Lui, la beatitudine, lo svelamento del mistero, ecco questo è il fine.
Come si raggiunge questo fine? “Beati i puri di cuore perché vedranno Dio”, perciò bisogna diventare puri di cuore. Ecco che tutta la prassi monastica è orientata a questo cammino di purificazione, di trasfigurazione, che l’azione dello Spirito, se accolta con collaborazione, permette.
Se voi pensate che la vita monastica è radicata nella vita battesimale e quello che si chiede ai monaci, se leggiamo Paolo, è chiesto a tutti i cristiani, ecco che cogliamo l’importanza di essere in questo orientamento che la nostra fede pasquale, così complessa, così difficile perché tiene dentro tutto, assume tutto senza sconti, dà cittadinanza anche alla dimensione drammatica della vita con cui si deve fare i conti, e proprio per questo abilita ad affrontarla, non per la nostra virtù o per le nostre capacità o mezzi, ma sicuramente con tutte le nostre virtù, con tutte le nostre capacità e i nostri mezzi.
Ciò è bellissimo e confortante, ecco perché allora questa tensione escatologica, che ci è sempre chiesta (anche durante la Messa ci è chiesto di alzare lo sguardo del cuore) è sempre necessaria, non per scappare dalla realtà ma per riposizionarla nella giusta prospettiva.
A questo proposito abbiamo un antecedente in Colossesi 1,27:
Col 1 27Ai suoi santi Dio volle far conoscere la gloriosa ricchezza di questo mistero in mezzo alle genti: Cristo in voi, speranza della gloria.
Questo “in voi” può essere inteso sia come “nella vostra interiorità”, sia come “fra voi”, come afferma Gesù: “quando due o tre sono riuniti nel mio nome, Io sono in mezzo a loro”.
Anche l’evangelista Giovanni nella sua prima lettera ci dice:
1Gv 3 2Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è. 3Chiunque ha questa speranza in lui, purifica sé stesso, come egli è puro.
Vedete la speranza immediatamente spinge verso l’azione, verso l’apertura, verso la presa di responsabilità di questa dignità e di questa promessa.
Non siamo soli, grazie a Dio, in tutto questo, e allora ecco che S. Bernardo di Chiaravalle in uno dei suoi discorsi per la festa di Tutti i Santi, ci mette a parte del suo spirito, della sua tensione.
Dai «Discorsi» di San Bernardo, abate (Disc. 2; Opera omnia, ed. Cisterc. 5 [1968] 364-368):
“Per parte mia devo confessare che, quando penso ai santi, mi sento ardere da grandi desideri. Il primo desiderio, che la memoria dei santi o suscita o stimola maggiormente in noi, è quello di godere della loro tanto dolce compagnia e di meritare di essere concittadini e familiari degli spiriti beati, di trovarci insieme all’assemblea dei patriarchi, alle schiere dei profeti, al senato degli apostoli, agli eserciti numerosi dei martiri, alla comunità dei confessori, ai cori delle vergini, di essere insomma riuniti e felici nella comunione di tutti i santi. Ci attende la primitiva comunità dei cristiani, e noi ce ne disinteresseremo? I santi desiderano di averci con loro e noi e ce ne mostreremo indifferenti? I giusti ci aspettano, e noi non ce ne prenderemo cura? No, fratelli, destiamoci dalla nostra deplorevole apatia. Risorgiamo con Cristo, ricerchiamo le cose di lassù, quelle gustiamo. Sentiamo il desiderio di coloro che ci desiderano, affrettiamoci verso coloro che ci aspettano, anticipiamo con i voti dell’anima la condizione di coloro che ci attendono. Non soltanto dobbiamo desiderare la compagnia dei santi, ma anche di possederne la felicità. Mentre dunque bramiamo di stare insieme a loro, stimoliamo nel nostro cuore l’aspirazione più intensa a condividerne la gloria. Questa bramosia non è certo disdicevole, perché una tale fame di gloria è tutt’altro che pericolosa. Vi è un secondo desiderio che viene suscitato in noi dalla commemorazione dei santi, ed è quello che Cristo, nostra vita, si mostri anche a noi come a loro, e noi pure facciamo con lui la nostra apparizione nella gloria. Frattanto il nostro capo si presenta a noi non come è ora in cielo, ma nella forma che ha voluto assumere per noi qui in terra. Lo vediamo quindi non coronato di gloria, ma circondato dalle spine dei nostri peccati. Si vergogni perciò ogni membro di far sfoggio di ricercatezza sotto un capo coronato di spine. Comprenda che le sue eleganze non gli fanno onore, ma lo espongono al ridicolo. Giungerà il momento della venuta di Cristo, quando non si annunzierà più la sua morte. Allora sapremo che anche noi siamo morti e che la nostra vita è nascosta con lui in Dio. Allora Cristo apparirà come capo glorioso e con lui brilleranno le membra glorificate. Allora trasformerà il nostro corpo umiliato, rendendolo simile alla gloria del capo, che è lui stesso. Nutriamo dunque liberamente la brama della gloria. Ne abbiamo ogni diritto. Ma perché la speranza di una felicità così incomparabile abbia a diventare realtà, ci è necessario il soccorso dei santi. Sollecitiamolo premurosamente. Così, per loro intercessione, arriveremo là dove da soli non potremmo mai pensare di giungere.”
Vedete anche questa bellezza dell’apertura alla dimensione della comunione, non dobbiamo diventare degli eroi senza macchia e senza paura, ma entrare in questa dimensione alta dove non siamo soli, dove non dobbiamo farcela da soli.
Vedete se questo è un paradigma, quando noi entriamo nelle relazioni della nostra vita, quelle di tutti i giorni, con tutte le loro scomodità, vedete come è chiara la posizione, che sta in contrappunto a questo canto fermo, e che non è distonica, non è cacofonica. E quando a volte le situazioni stentano a modificarsi a trasformarsi, bisogna perseverare, ecco che in questo caso quanto l’orientamento del canto fermo che deve essere costantemente alimentato, ci permette di trovare la sintonia.
Pensate che Bonhoeffer diceva nel suo tempo:
“La nostra Chiesa che in questi anni ha lottato solo per la propria sopravvivenza, come fosse fine a se stessa, è incapace di essere portatrice per gli uomini e per il mondo della parola che riconcilia e redime. Perciò le parole d’un tempo devono perdere la loro forza e ammutolire, e il nostro essere cristiani oggi consisterà solo in due cose: nel pregare e nell’operare ciò che è giusto tra gli uomini. Il pensare, il parlare e l’organizzare, per ciò che riguarda le realtà del cristianesimo, devono rinascere da questo pregare e da questo operare.”
Siccome noi rischiamo di tornare in un tempo analogo a quello di Bonhoeffer, bisognerebbe muoversi, non permettere all’apatia di prendere il sopravvento, e non tacere la parola, il pensiero e il coinvolgimento per difendere il dono della pace lì dove c’è, la fede lì dove c’è, i diritti dove ci sono.
Tutto questo ci porterà le prossime volte ad affrontare il vissuto, il reale della nostra vita e il suo sintonizzarlo con l’esperienza del Cristo vivente, ma ovviamente c’è anche un elemento di eccedenza che è bene che noi sentiamo anche se magari possiamo non riuscire a capire.
Padre Henri Le Saux, monaco benedettino che nel 1948 inizia un’esperienza pionieristica in India, nel suo diario spirituale, l’anno stesso della sua morte (1973), arrivato al momento che lui sperimenta come “il risveglio” in concomitanza con un primo infarto subito, dopo aver vissuto una vita di grande travaglio interiore nel confronto vivente con la tradizione induista non duale (advaita), raggiunge la sintesi profonda. Poco prima di questo momento sente parlare due predicatori cristiani e vede la loro sincerità, però loro stanno su un piano fenomenico e da questo punto di vista lui è da un’altra parte, non dice niente ma fa loro solo un sorriso, nel diario continua scrivendo:
“Non condurre la gente né all’idea di Gesù, né al ricordo di Gesù, ma all’esperienza diretta di Gesù presente. Ma chi vive al livello dei “namarupa” [nomi e forme, ovvero a livello fenomenico] farà l’esperienza di Gesù nelle manifestazioni, nei namarupa [fenomeni] dello Spirito: visioni, lingue e il resto… Tutto questo è giusto, ma c’è un altro livello, quello in cui senza parole Gesù viveva faccia a faccia con il Padre e non lo nominava più, perché era semplicemente colui che guarda il Padre, senza sapere chi è che lo guarda, né che si chiama egli stesso Gesù.
Questa esperienza fondamentale dell’Io sono, che toglie a Gesù ogni ego e fa di lui colui che è soltanto “tensione” verso il Padre, verso i fratelli uomini. Dolcezza, amore, umiltà, zelo per la proclamazione unica dell’Assoluto. Fare tutto, agire in tutto senza io e senza mio.” (Henri Le Saux, Diario spirituale, 8 luglio 1973)
A me è risuonato questo testo perché quella dimensione che la lettera ai Colossesi ci porta, dimensione di vita nascosta in Cristo, Cristo che permea tutta la realtà, secondo me ha una sua consonanza con quello che lui dice, non semplicemente il Gesù della storia, l’dea di Gesù, ma la realtà…. ”Cercate le cose di lassù dove si trova Cristo seduto alla destra di Dio”.
Riconduciamo tutto nella preghiera in cui, da figli risorti con Cristo, ci facciamo voce di tutta l’umanità e delle sue necessità, tragedie e speranze, e diciamo insieme:
Padre Nostro ….
Trascrizione a cura di Gaia Francesca Iandelli e Cecilia Prandi